di Edoardo Bucci e Andrea Carcuro

Le giovani generazioni vedono in modo molto critico il destino che è loro riservato e le sostanziali limitazioni ad una reale libertà di espressione in ambito giornalistico, a causa di una serie di fattori come il predominio dei meccanismi imposti dal mercato, tradizionale e digitale, cui molte testate sono soggette, o lo scarso ricambio generazionale, che penalizza i giovani e soprattutto le donne, in un contesto di forte crisi dell’intero mondo dell’informazione, in Italia. Occorre riuscire a intercettare e incoraggiare forme di giornalismo in grado di connettersi meglio con le nuove generazioni, con progetti innovativi, come «Scomodo» (fondato anni fa da giovanissimi), che è riuscito a coinvolgere nel tempo migliaia di Under 30.

 

Con migliaia di Under 30
A ottobre di otto anni fa fondavamo, insieme a poco più di una decina di altre persone quasi tutte minorenni, «Scomodo». Un progetto editoriale e di comunità che ha coinvolto negli anni migliaia di Under 30. «Scomodo» nasceva con un intento molto preciso: garantire spazi di espressione alle nuove generazioni. Ciò emerge già rileggendo quei primi comunicati, in cui abbiamo ritrovato negli anni più elementi di continuità che di interruzione. L’elemento che ci sembra giusto sottolineare è come quella necessità espressiva sia nata da un bisogno e abbia intercettato in maniera trasversale alla generazione persone che sentivano un’esigenza simile. Negli anni, continuando a parlare con collettivi liceali, universitari, movimenti e realtà sociali, ci ha stupito come la necessità espressiva fosse una costante. Un tratto che definisce la sensibilità generazionale in modo accurato; il tutto in un’epoca dove una certa narrazione della rivoluzione digitale sembrerebbe aver reso superate istanze di questo tipo.
Qualcosa che è sbagliato analizzare solo come una componente ciclica delle generazioni. Richiedere spazi di espressione sembra essere per alcuni qualcosa senza un significato specifico, se non quello di rivendicare un ruolo che non si ha. In questo momento storico e in questo contesto geografico parlare di espressione significa invece parlare di libertà per le nuove generazioni, di spazi che mancano, di una crisi del mondo dell’informazione che incide nel profondo sulla realtà in cui viviamo.

Meccanismi che generano esclusione
Per intendere la libertà di espressione diventa necessario riflettere sulle peculiarità del proprio tempo storico. Farlo senza cadere nei cliché narrativi è difficile in un mondo in cui dinamiche economiche e sociali sono così stratificate che rischiano di diventare poco visibili.
Senza considerare questi elementi si rischia di valutare il presente da un punto di vista poco contemporaneo, di trarre conclusioni parziali e di perdere elementi che possono incidere sul medio-lungo termine in maniera determinante. Parlare di libertà di espressione, di futuro dell’informazione, del rapporto con il digitale non si può fare se non in una chiave politica d’insieme. Non possiamo parlare di quello che è possibile fare se non parliamo del terreno in cui ci muoviamo. Un terreno che vive delle difficoltà uniche nel costruire processi di coesione tra persone, territori e realtà. La fine di un ruolo di rilevanza di modelli di intermediazione e di prossimità, la crisi dei modelli di informazione tradizionale, una crescita del digitale guidata da interessi privati, determinano in modo profondo la linea che lega le nuove generazioni alla facoltà di poter raccontare e raccontarsi.
L’idea di libertà di espressione in un contesto in cui mancano quegli elementi generativi e aggregativi è un fenomeno grave e profondo. Non basta rincuorarsi con la facilità e l’immediatezza dei mezzi attuali se i processi che li guidano sono escludenti, polarizzanti e mossi, quasi soltanto, da dinamiche di mercato. Sono meccanismi questi che arrivano a influenzare con rapidità il funzionamento delle dinamiche politiche, editoriali e della produzione culturale.
Il passaggio da comunità a Community è in questo senso uno slittamento di significato e di applicazione emblematica. Il valore comunitario diventa un elemento di marketing per un’ampia serie di fenomeni che riguardano l’espressione. La connotazione politica di una comunità reale, basata sulla prossimità e la condivisione diventa un rapporto tra utenti-clienti che ha la necessità di spacciarsi come sociale. Un fenomeno che riguarda in maniera netta anche il mondo del giornalismo, dove (nonostante alcuni esempi contemporanei positivi) il rapporto tra testata e lettore va gradualmente scomparendo. In questo contesto torna la centralità di canali, spazi e opportunità espressive fondate su modelli diversi e che consentono, in ambito accademico, socio-culturale o professionale, una protezione da un campo pericolosamente aperto.

Redazioni senza giovani
In questo quadro è complicato provare a fare un bilancio dello stato di salute della libertà d’espressione per i giovani in Italia senza interrogarsi su come sia cambiato il rapporto tra lettori, quotidiani e media negli ultimi vent’anni.
Prima informarsi era molto più una scelta: per accedere alle notizie bisognava recarsi principalmente in edicola. Anche ascoltare un telegiornale implicava circoscrivere la propria informazione a precisi momenti della giornata. Oggi invece siamo aggiornati di continuo, anche se non vogliamo, le informazioni ci arrivano da molte piattaforme, l’intermedialità cresce e allo stesso tempo anche la frammentazione. I nuovi mezzi d’informazione hanno variegato notevolmente gli spazi espressivi e la dieta mediatica di ognuno.
Molto di quel distacco che c’è oggigiorno tra giornali e giovani generazioni nasce a cavallo di questa transizione appena descritta, da un cambiamento inseguito dai quotidiani tradizionali e – nella maggior parte dei casi – mal governato.
A ciò si aggiunge una scarsa rappresentazione delle nuove generazioni all’interno delle principali redazioni: soltanto l’1,7% circa è Under 30 nel totale dei gruppi editoriali. Il tema latita, ovviamente, anche sulle pagine degli stessi quotidiani, dove le penne dei più giovani sono sempre meno. Lo stesso accade anche nel Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti dove l’età media (nell’ultimo triennio 2017-2020) è di 59,5 anni, il 63% del Consiglio ha tra i 59 e 73 anni e dei 57 consiglieri solo 10 sono donne. Un assente ricambio generazionale che, inevitabilmente, influisce anche sulla narrazione riprodotta in merito a eventi e fenomeni che coinvolgono più o meno i giovani in Italia. Tra tutti, anche importanti sensibilità generazionali come la parità di genere. «Scomodo», nella sua rassegna stampa critica «Parallasse», ha analizzato quanto questa parità sia effettivamente presente nel mondo dell’informazione: secondo i dati raccolti, degli 80 direttori, vice direttori e caporedattori, solo 14 sono donne. Appena il 17,5%. Dunque, ai vertici dei quotidiani italiani ci sono quasi solo uomini. Il riflesso dello scarso ricambio generazionale, inoltre, è un racconto che ci descrive ancora con lenti stereotipate, ricche di retoriche paternalistiche e di luoghi comuni. «I giovani non hanno più voglia di lavorare», giusto per citare un classico esempio di leitmotiv ricorrente, che precede l’avvento della stagione estiva con articoli sulla mancanza di personale per i lavori stagionali. O ancora, conseguente alle proteste delle tende davanti le università contro il caro affitti, l’«assenza di sacrifici» da parte dei giovani. «Ai nostri tempi era tutto diverso», un altro slogan che leggiamo spesso.
Si tratta di una trattazione che non stimola un sano dibattito su questioni cruciali che toccano situazioni di forte precarietà della nostra generazione. Al contrario, il risultato è un’ulteriore polarizzazione, che contribuisce ad aumentare anche la distanza tra giovani e quotidiani.

Con le nostre voci, le nostre idee
Oltre a una descrizione dall’esterno che fatica a essere costruttiva, una richiesta crescente di luoghi di espressione, fisici e non, da parte delle giovani generazioni negli ultimi anni, ha dovuto sempre più fare i conti con alcune dinamiche e controtendenze strutturali. Una di queste è la progressiva marginalità demografica dei giovani. A un notevole calo delle nascite, infatti, si aggiunge la già netta minoranza numerica dei giovani rispetto al resto della popolazione. Nonostante ciò, alcuni dati raccolti da un Report di Openpolis post pandemia fotografano una partecipazione giovanile tutt’altro che in calo: circa il 40% di ragazzi e ragazze tra i 16 e 24 anni pensa di avere voce in capitolo su decisioni importanti a livello locale. Numeri che testimoniano ancor più quanto ci sia un gap reale tra volontà espressiva e spazi concessi dalla TV ai giornali dove si parla sempre più dei giovani, ma mai con i giovani. Con le nostre voci, le nostre idee. In questo senso crediamo necessario provare a intercettare questo fermento generale provando a immaginare e incoraggiare forme innovative di giornalismo in grado di connettersi meglio con le nuove generazioni. Affinché queste ultime tornino sempre più in sinergia con le generazioni passate, arrivando a potenziare la voce di noi giovani stessi. In particolare, su questioni cruciali che prevedono un impatto maggiore sulle vite future di una generazione; dal cambiamento climatico, ai diritti civili, alle diseguaglianze sociali e le discriminazioni.
Questo si scontra con la realtà che ci pone di fronte a dei grandi interrogativi, in un contesto di forte crisi dell’intero panorama informativo italiano. Una condizione strutturale che limita fortemente l’azione di ognuno. Oggi l’accesso alla professione giornalistica è sempre più difficile ed elitario, già questo mette in dubbio i meccanismi di tutela della libertà d’espressione di noi giovani in Italia. Per di più anche quando si riesce – con fatica – a essere giornalisti freelance, oltre alla forte precarietà, si devono fare i conti con assenza di tutele, il rischio di querele temerarie, sfruttamento e paghe bassissime. Tutti fattori che impattano negativamente sulla qualità del giornalismo che viene offerto ai lettori, rendendo l’informazione sempre meno accurata. Un sistema che normalizza il dover puntare sempre più sulla quantità che sulla qualità del lavoro, produrre di più per sopravvivere. Un cortocircuito in cui vengono inseriti anche i più giovani alle prime esperienze giornalistiche. Queste sono solo alcune macro-dinamiche che minano le forti basi su cui si fonda la libertà d’espressione nel nostro Paese. All’interno di un quadro che riguarda in modo serio il coinvolgimento delle nuove generazioni nella vita pubblica del Paese. Una condizione che rischia di non apparire come urgente e che proprio per questo motivo rischia di essere ancora più pericolosa. Ed è per questo necessaria una responsabilità intergenerazionale per portare avanti discussioni e battaglie con serietà e costanza.