di Riccardo Noury a colloquio con Severino Saccardi
Uno scambio di idee* che prende spunto dal Rapporto 2022-2023, pubblicato da Amnesty International, per proporre una riflessione di insieme sul ruolo svolto da questa organizzazione internazionale nella difesa dei diritti umani nel mondo, sulla sua storia, sull’attualità dei suoi interventi, sulle modalità operative degli attivisti, ma soprattutto sulla situazione dei diritti umani, sia nei paesi nei quali le libertà fondamentali vengono maggiormente calpestate, sia in quelli di più lunga tradizione democratica, in cui però condizioni di arbitrio e di violazione della dignità umana sono tutt’altro che assenti. Una riflessione che spinge anche ad interrogarsi sullo stato attuale della lunga marcia dei diritti umani (come la chiamava Ernesto Balducci) a settantacinque anni dalla Dichiarazione Universale del 1948.
La parola chiave è «ricerca»
Saccardi. Se sei d’accordo, comincerei la nostra conversazione partendo dal Rapporto 2022-2023. La situazione dei diritti umani nel mondo che Amnesty ha appena pubblicato, un volume ponderoso, pieno di dati e di riflessioni, importante. La lettura del Rapporto è di per sé esaustiva, ma credo che sarebbe opportuno raccontare, nel volume di «Testimonianze» che stiamo realizzando con la vostra preziosa collaborazione, come nasce il vostro lavoro, come è organizzato, come riuscite a tirare le fila di tante situazioni differenti. Come si riesce a comporre un quadro così complesso e così articolato per aree geografiche, per paesi (mi pare siano 156 quelli presi in esame)? Se hai la pazienza di parlarcene, penso che questo possa risultare interessante per i nostri lettori.
Noury. Volentieri. Direi che la parola chiave è «ricerca». Amnesty International è nata per fare fondamentalmente due cose: fare ricerche che reggano a qualunque tipo di contestazione, sulle violazioni dei diritti umani e tradurle in documentazione e su questa documentazione fare, poi, delle campagne per ottenere la fine della violazione stessa, l’avanzamento nel campo della protezione dei diritti, la modifica delle leggi, delle sentenze giudiziarie, ecc. Quindi il volume al quale fai riferimento è il risultato di 12 mesi di ricerca che Amnesty International ha fatto, quando è possibile, sul campo, ove questo non è stato possibile, da remoto, con interviste, con analisi di varie fonti, persino con l’uso dei satelliti.
Saccardi. Questo è veramente interessante. C’è, dunque, anche il contributo della tecnologia.
Noury. Sì, c’è un doppio uso della tecnologia, molto interessante, che poi illustrerò. Il risultato è un volume che sintetizza, perché deve per forza sintetizzare, una massa molto più ampia di documentazione – che, come hai ricordato, concerne 156 paesi – di dimensione variabile sulla base della possibilità che c’è stata di avere informazioni certe e di poter stare sul posto. Però, il dato di sintesi è che tre quarti degli stati del mondo, direi 156 su circa 200, presentano profili di preoccupazione per quanto riguarda i diritti umani: possono essere violazioni sistematiche, quando chi ha il potere si regge sulla violazione costante dei diritti umani, e gli esempi non mancano: dall’Iran all’Afghanistan, penso all’Egitto, ma anche alla Russia, e alla Cina; oppure casi in cui non c’è una sistematica violazione dei diritti umani, ma ci sono comunque elementi di preoccupazione. La questione del satellite è interessante perché, come sai, Amnesty International non fa missioni di nascosto nei paesi in cui opera, non fa intelligence, ma entra nei paesi in cui ha ottenuto il permesso di avere accesso, rivendica la ricerca, non si fa accompagnare da funzionari di governo, però non facciamo nulla di nascosto e questo ci preclude certe informazioni e certe possibilità di verifica delle diverse situazioni.
Saccardi. Facci capire meglio. Quindi, anche là dove ci sono regimi autoritari, o totalitari, voi avete, in molti casi, comunque possibilità di accesso?
Noury. Non a tutti, però. In diversi casi al governo del posto non conviene che si sappia che ha negato l’ingresso ad Amnesty International, magari può fare altre operazioni: può smentire i risultati delle ricerche, può contestarli sostenendo che sono faziosi. Però, anche all’interno di stati autoritari Amnesty International, non sempre, ma spesso riesce ad entrare. Poi ci sono paesi chiusi, come la Cina, e stati in cui ci hanno chiuso la sede, come la Russia, il Vietnam, la Corea del Nord. Però, proprio la Corea del Nord è l’esempio di come abbiamo ovviato a tutto questo con l’uso dei satelliti e ti devo dire che a volte vedere le cose dall’alto è persino più oggettivo che vederle da terra. Noi abbiamo cominciato a metà del primo decennio di questo secolo a usare i satelliti, l’abbiamo fatto per verificare le denunce di terra bruciata prodotta da incendi di villaggi e saccheggi nella regione sudanese del Darfur e quindi abbiamo acquistato immagini satellitari di diversi periodi di tempo che ci hanno mostrato un prima e un dopo. E quando tu vedi immagini di colore completamente rosso, anziché verde, vuol dire che hanno bruciato là, dove c’erano dei pascoli. Quando tu acquisti immagini del prima e del dopo, come nel caso del Myanmar, e vedi dal satellite ancora il fumo degli incendi dei villaggi, sai che è in atto una pulizia etnica; quando analizzi fotografie del prima e del dopo della Corea del Nord e scopri che nell’anno x i campi di internamento avevano una determinata superficie e l’anno x più uno si sono enormemente ingranditi fino a inglobare anche dei villaggi, capisci che c’è un sistema repressivo ancora più marcato. E poi sono molto utili le immagini satellitari per vedere la diversa morfologia dei terreni. Questo l’abbiamo fatto anche di recente, in Ucraina: quando il prima e il dopo mostrano colori alterati di un terreno, e rigonfiamenti, al 100% sotto c’è una fossa comune.
A partire da un’idea originale
Saccardi. Certo, è chiaro, purtroppo. Il tuo è un resoconto molto illuminante. D’altra parte, mi pare che, anche se sono percorsi conosciuti, a grandi linee, forse varrebbe la pena riandare con la memoria a come Amnesty si è conquistata questo spazio, questo profilo, questa sua, diciamo, riconoscibilità, e anche questo riconoscimento e questa accettazione a livello mondiale. Amnesty è nata da un’idea, che poteva sembrare quasi stravagante, di un attivista inglese nei primi anni 60, mi pare. L’idea originale era che le situazioni, i paesi, le realtà si valutano non tanto a partire da un’ideologia o da una visione di parte, da una posizione politica precostituita, ma a partire, appunto, dal riferimento a valori di fondo quali i diritti umani, quelli che sono sanciti nella Dichiarazione del 1948. È interessante ripercorrere con la memoria come questa credibilità è cresciuta nel tempo, come siete arrivati ad avere, se non ricordo male, un milione di attivisti, un’organizzazione articolata, collegata ad una rete di associazioni in tutto il mondo, riuscendo anche ad essere riconosciuti come istituzione indipendente anche dai governi. Un risultato enorme, questo, davvero. E anche una garanzia, perché c’è stato un periodo, va ricordato, nei primi tempi della vostra azione, negli anni 70, in cui c’era l’idea, presente anche in certe posizioni di una sinistra ideologica, secondo cui Amnesty difendeva i valori della libertà borghese, formale. Ma questa è un’obiezione che è stata superata nel tempo e l’indipendenza e il ruolo insostituibile di Amnesty sono stati riconosciuti. Se puoi ricostruire come questo percorso sia potuto avvenire, credo che possa essere di grande interesse in una riflessione come quella che stiamo facendo insieme.
Noury. Io credo che i due valori che abbiamo praticato fin dall’inizio, dell’imparzialità e dell’indipendenza, siano stati quelli che hanno fatto crescere Amnesty International. L’imparzialità nel senso che non si giudicava un sistema politico, tessendone le lodi o condannandolo, ma si vedeva quali erano i diritti che venivano violati. Questo ci consentiva di poter chiedere contemporaneamente la scarcerazione di un sindacalista in Guatemala e di un dissidente a Cuba, tant’è che all’inizio Amnesty International di sue campagne per i prigionieri, chiamati allora e tuttora «di coscienza», ne proponeva tre ogni mese e ricorderai anche che un prigioniero era del cosiddetto blocco NATO, uno del blocco Patto di Varsavia e il terzo del blocco dei non allineati. E così dimostravamo nel modo più evidente che noi avevamo al centro la persona con i suoi diritti inviolabili, sotto qualsiasi sistema. Questo per quanto riguarda l’imparzialità. L’indipendenza ha significato non accettare mai fondi per svolgere campagne «a nome di o per conto di» e ci sono state occasioni in cui hanno provato a proporci dei finanziamenti, dicendo: «Beh, adesso, se voi fate una campagna contro il tale Paese, noi vi diamo un sacco di soldi». Noi abbiamo delle regole sui finanziamenti che sono degli ostacoli insormontabili. Non di meno anche oggi questa imparzialità è contestata perché ci si dice che Amnesty deve stare da una parte. Speriamo che sia la parte dei diritti. Però ancora ci dicono, in determinati ambienti di sinistra, come dicevano decenni fa, che noi stiamo difendendo un sistema capitalista, borghese, basato sullo sfruttamento; dall’altra parte ci dicono che noi siamo troppo progressisti, che difendiamo delle libertà incompatibili con un sistema occidentale, come quella di protesta, per esempio, protesta anche massiccia, con metodi anche innovativi, forti, purché sia pacifica. Ora c’è il terzo elemento, anzi, altri due, che hanno dato credibilità ad Amnesty. Intanto, Amnesty è nata in un periodo in cui sono nati tantissimi movimenti per i diritti umani, quindi non è stata sola, c’è stata una crescita del bisogno di aggregarsi intorno a delle organizzazioni come Amnesty, e ne sono state fondate altre, ma credo che l’idea vincente sia stata – e su questo il fondatore era del tutto inconsapevole perché non esisteva all’epoca il termine social network – quella di creare da subito un sistema che mettesse in collegamento, in rete, le persone, coinvolgendole, nel minor tempo possibile, su una causa, che era quella di un prigioniero da scarcerare, sostenendo una causa individuale e dirigendo gli sforzi di tutti su un governo. Oggi i social network funzionano così quando si occupano di cause…
Saccardi. Certo, all’epoca i social network non esistevano…
Noury. Benenson ebbe questa intuizione, di coinvolgere persone di ogni parte del mondo, facendo loro scrivere lettere a favore di un prigioniero, dirette a un capo di Stato. Non se ne accorse, ma era già un social network, 0.0, pur con tutti i limiti, le difficoltà e i disagi dell’epoca.
L’universalità dei diritti umani
Saccardi. Alla fine, torna sempre l’«eterna questione», cioè a dire se i diritti umani siano universali o se ci sia un relativismo di ottiche e di punti di vista, insuperabile nella complessità del mondo attuale che tutto può rimettere in discussione, perfino i diritti più elementari. La discussione torna sempre, in varie forme, su questo punto: ma Amnesty, mi sembra, riafferma con la sua azione l’universalità del valore dei diritti umani, pur riconoscendo la necessità di tenere conto della varietà, pluralità e relatività delle culture.
Noury. Sì, io ricordo un anno, il 1993, la Conferenza di Vienna delle Nazioni Unite sui diritti umani. In quella sede emerse proprio questo aspetto…
Saccardi. Sarebbe ora il trentennale di quella conferenza.
Noury. Esatto, trenta anni dalla Conferenza di Vienna. Lì si ebbe lo scontro fra una visione universale e più visioni particolari: quelle che davano preminenza ai diritti civili e politici, si vota ed è fatta, e quella che dava preminenza ai diritti economici e sociali, dicendo cioè: «Io devo sfamare il mio popolo; se poi protesta, quella è la priorità».
Saccardi. La vecchia divisione politico-ideologica fra uguaglianza e libertà tipica del Novecento.
Noury. Sì, certo, ma devo dirti che proprio in quella conferenza questa scissione venne, non risolta perché comunque è una scissione abbastanza irrisolvibile, ma venne orientata in ogni caso a favore di una interdipendenza e di una universalità dei diritti umani, nel senso che è lodevole che uno Stato si impegni a garantire cibo, salute e lavoro a tutti, ma se, poi, appena qualcosa non va arresta, tortura o addirittura condanna a morte chi scende in piazza a protestare, così non va bene. Dall’altro lato, avere garanzie di poter votare ogni volta che ci pare, di poter candidarsi, di avere anche una certa libertà di informazione e poi avere una crisi del lavoro, come oggi è tipico delle società occidentali, anche questa è una situazione che ha i suoi limiti. E quindi, proprio dagli anni 90, Amnesty ha iniziato a lavorate anche sui diritti sociali. Oggi l’esempio più evidente è quello della difesa del diritto a un ambiente salubre, all’aria buona. Abbiamo lanciato campagne sull’alloggio adeguato…
Saccardi. Questi, una volta, venivano chiamati diritti di nuova generazione…
Noury. Scusa il bisticcio di parole, ma sono diritti di «ultima generazione» difesi proprio dall’ultima generazione. Il problema risiede in quella che io chiamo la penultima generazione, cioè i nostri coetanei, non tanto noi, liberi pensatori, ma i nostri coetanei che stanno al potere, che hanno il potere, che hanno responsabilità enormi per il futuro di questo pianeta e non si rendono conto di essere nel mezzo di quella che noi definiamo la più grande violazione transgenerazionale dei diritti umani, che chiama in causa scelte energetiche, chiama in causa il surriscaldamento delle acque. E questi diritti di ultima generazione stanno diventando quelli più urgenti, accanto a vecchie problematiche, che rimangono irrisolte.
La persecuzione delle proteste pacifiche
Saccardi. Questo è giusto, ma se non hai le libertà fondamentali – la libertà di riunione, la libertà di espressione la libertà di protestare – anche questi «nuovi diritti» ti sono, a maggior ragione, preclusi. Torniamo, se sei d’accordo, a parlare ancora del vostro volume, del Rapporto annuale di Amnesty (che, un tempo, ricordiamolo, per qualche anno, è stato stampato dalle Edizioni Cultura della Pace, fondate da Ernesto Balducci: una memoria che dà anche un senso particolare al lavoro che stiamo facendo insieme). Il Rapporto, che si occupa di queste grandi questioni, si apre proprio con una riflessione che dà l’idea, con un efficace affresco, della complessità della realtà contemporanea: da una parte ci sono una più acuta sensibilità una più diffusa percezione e una più sicura coscienza dell’importanza dei diritti umani, ma, da un altro punto di vista, va registrata la constatazione di un crescente deterioramento e di una tendenziale diminuzione del rispetto dei diritti e delle libertà, in troppi paesi, in troppe realtà del nostro pianeta.
Tu pensi che questo sia effettivamente il quadro della situazione?
Noury. Sì. È una sintesi esatta, questo è il quadro: la tenuta dei diritti umani è in peggioramento. Penso alla persecuzione delle proteste pacifiche, penso all’arretramento della tutela dei diritti delle donne, penso a politiche che emarginano ogni giorno di più gruppi sempre più vasti della popolazione e ciò spiega perché la pandemia ha colpito duro ovunque, ma durissimo in alcuni paesi dove erano state fatte delle scelte particolari…
Saccardi. Parli della Cina?
Noury. Anche degli Stati Uniti. La Cina ha rappresentato un problema diverso. Noi dobbiamo interrogarci su una questione: se la pandemia fosse scoppiata in uno Stato dove c’è libertà di informazione e di ricerca, avremmo avuto queste conseguenze così gravi? Non lo sapremo mai…
Saccardi. Effettivamente, purtroppo non lo sapremo mai.
Noury. No, quando parlo della pandemia, che ha colpito in maniera differente, in modo duro o durissimo, penso a tutte quelle politiche di smantellamento dello stato sociale negli Stati Uniti, penso alle discutibili politiche sanitarie messe in atto, penso a fenomeni che hanno interessato anche la nostra Europa: privilegiare la sanità di eccellenza, magari rispetto a settori non particolarmente importanti come quelli della chirurgia estetica, e annullare la medicina di prossimità. Le scelte fatte in relazione ai grandi anziani pluripatologici, queste sono politiche devastanti.
Saccardi. Se ben ricordi, anche da noi c’era chi diceva: «Lasciamo reclusi gli anziani e lasciamo liberi tutti gli altri», con i nipoti che poi, tornando a casa, avrebbero infettato i loro nonni… Davvero, una simpatica filosofia…
Noury. Certo che ricordo. Tornando al tema principale su cui ragionavamo, sì, questo deterioramento c’è, lo confermo. Emergono anche delle leadership molto preoccupanti dal punto di vista della tenuta dei diritti umani. A me fa impressione che leadership come quella turca e quella cinese si propongano come mediatrici nella guerra fra Russia e Ucraina. Mi preoccupa che l’Egitto, ogni volta che c’è uno scontro militare fra Israele e Hamas, con un numero di morti insopportabile, arrivi lì a mediare la tregua, l’ottiene, poi il Qatar ci mette i soldi per ricostruire Gaza. Mi preoccupa che dovendo trovare fonti alternative energetiche per riparare i guasti della guerra della Russia contro l’Ucraina, ci mettiamo mani e piedi a disposizione di stati autoritari come l’Algeria o di nuovo, come l’Egitto. Mi preoccupa che in nome di un unico obiettivo, che è quello del controllo degli arrivi di migranti in Europa, si facciano certi accordi, vedi gli ultimi con la Tunisia, ma ancor prima con la Libia. Mi preoccupa la Gran Bretagna, che ha fatto un accordo con il Ruanda perché gestisca da lì, in piena Africa, i flussi migratori. Sono tutte questioni molto preoccupanti. Ne aggiungo un’altra: la retorica dei diritti umani. Qual è il pericolo? Tutti parlano di diritti umani, ma è una questione un po’ gattopardesca quella del riferimento così formulato, ai diritti umani; è come un esercizio di stile parlare in continuazione dei diritti per poi fare altro. Quindi, c’è una trappola nel fatto che quelle due parole siano diventate popolari anche nel lessico politico. Io non mi fido, vedo una trappola dietro a questa retorica.
Saccardi. Sì, non c’è dubbio.
Il tema della tortura
Meli. Vorrei chiedere una cosa a questo proposito. Riflettevo sul fatto che, come ho letto recentemente, ci sarebbe l’intenzione, da parte del partito di maggioranza relativa al Governo, in Italia, di abrogare il reato di tortura recentemente istituito. Volevo sapere che cosa ne pensi, anche del fatto che l’opinione pubblica di questo non si interessi, non se ne parli, anche a fronte delle violazioni che sono emerse ultimamente riguardo a quei poliziotti che torturavano impunemente i disgraziati che capitavano loro sottomano.
Noury. Intanto, quando sarà pubblicato il numero di «Testimonianze», forse sapremo cosa sarà successo. Ci sono voluti ventinove anni (dal 1989 al 2017) per avere un Codice penale opportuno, ventinove anni durante i quali c’è stata l’opposizione, sempre da parte di certi settori politici contrari all’istituzione del reato di tortura, che sono in maggioranza e stanno al Governo, quindi il rischio c’è: una conquista per la quale ci sono voluti ventinove anni ci può volere poco per annullarla. È evidente che ogni tot di tempo, che può essere una settimana, un mese, arrivano notizie che ci fanno ritenere che quel baluardo lì, che abbiamo conquistato poco più di 10 anni fa, viene messo sempre più in discussione, instaurando una discussione sempre più intrisa di elementi di odio, come quello di tipo razziale. Se prendiamo gli ultimi fatti, come quello della donna trans di Milano, o dello straniero tunisino di Livorno, vediamo che tutte, salvo uno, le persone picchiate e torturate a Livorno erano di nazionalità straniera; quindi, non solo c’è la persistenza della tortura, ma c’è anche questa sensazione che si possa agire impunemente contro i gruppi più vulnerabili. Quando nei palazzi del potere c’è una cultura solida, ferma, intransigente nella difesa dei diritti umani, questo è un clima che si avverte sul territorio, cioè, coloro che adempiono male al loro dovere, come certi funzionari dello Stato, lo percepiscono quando c’è, invece, un’aria di indulgenza, di tolleranza, di accettazione. Gli stessi che dicevano anni fa, come la stessa presidente del Consiglio, che il reato di tortura impedisce agli operatori di polizia di lavorare – tradotto: è dato per scontato che la polizia torturi, questo è il significato – oggi sono al Governo; quindi, casi come quelli di Verona, e poi chissà cos’altro succederà da qui a quando andremo in stampa, ci dice che quel reato lì non si deve toccare, ma neanche modificare, perché se cambia la fattispecie cambiano poi i processi, si devono rifare le indagini, ciò che ora è tortura può essere considerato non tortura. Quindi, veramente, su questo non si può tornare indietro assolutamente; sarebbe un pessimo segnale.
Se viene repressa la libertà di espressione
Saccardi. D’altra parte, c’è una diversa sensibilità da parte dell’opinione pubblica, c’è una nuova coscienza riguardo a questi temi, dopo tante battaglie che sono state fatte. Ora, però, vorrei tornare a quello che dicevi riguardo alla situazione internazionale, dove anche novità apparentemente positive e segnali di distensione possono avere i loro effetti negativi (prendiamo ad esempio il nuovo clima che c’è fra Arabia Saudita ed Iran, sotto la tutela e l’auspicio della Cina, che in sé sembrerebbe una buona cosa, ma che andrà verosimilmente a scapito del dissenso iraniano, rafforzerà il regime degli ayatollah e renderà più facile la repressione che è già durissima). Elementi che sembrano pienamente confermare la tua «pessimistica» (o realistica) analisi delle tendenze della realtà contemporanea.
Noury. Diciamo che quel riavvicinamento, mediato dalla Cina, di tutto si occupa meno che di diritti…
Saccardi. Infatti, i dissidenti iraniani hanno accolto questo avvicinamento come una novità pessima…
Noury. Certo, questo significa che qualunque tipo di accordo non basato sui diritti produce conseguenze negative. Questa è una cosa evidente. Pensiamo agli Accordi di Abramo, che hanno messo insieme Bahrein, Marocco, il Sudan: si stava quasi arrivando ad un accordo, ma poi è successo quello che sappiamo. Potrebbero sembrare una straordinaria cosa, dopodiché, se ne parli con un sahrawi, egli ti dice che di loro non si occupa più nessuno, perché il Marocco, per arrivare ad un accordo di pace e stabilità con Israele, ha chiesto qualcosa in cambio, cioè «scordatevi i sahrawi». Per avere l’ok della Turchia all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, quanti kurdi sono già stati rimandati dai paesi scandinavi in Turchia e quanti ne verranno rimandati…
Saccardi. Quindi, questi accordi hanno delle evidenti implicazioni problematiche. Riprendiamo ora un punto che viene specificamente sottolineato nel Rapporto. In cui si ribadisce che c’è una situazione diffusa, nel mondo, di crescente repressione della libertà di espressione. La libertà di espressione è uno dei punti cardine della Dichiarazione Universale dei diritti umani (v. l’articolo 19, in particolare). Libertà di espressione che include la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di riunione, ecc. Quanto è rispettata, oggi, nel mondo, la libertà di espressione? Un problema che riguarda ovviamente paesi che sono retti da regimi autoritari, autocratici, ma che, in qualche misura si pone anche nei paesi democratici dove ci sono manchevolezze varie, ed elementi di regressione rispetto soprattutto alla libertà di stampa.
Noury. Direi tre cose. Intanto dovremmo distinguere la libertà di espressione del singolo e la libertà di esprimersi attraverso movimenti collettivi. Per quanto riguarda il primo punto, non c’è dubbio che c’è una caccia al dissidente, inteso come colui che esprime opinioni critiche tanto offline, quanto ormai soprattutto online. La repressione della libertà di espressione oggi è fortissima, soprattutto online.
Saccardi. In questo ambito, non può non essere citata la Cina…
Noury. La Cina, l’Arabia Saudita… C’è lo spyware, di un’azienda israeliana, la NSO Group, che è nelle mani di governi repressivi in ogni parte del mondo: dalla Polonia al Marocco, dagli Emirati Arabi all’Arabia Saudita, ecc. Quindi, a giudicare dalle decine di stati in cui ci sono prigionieri di coscienza, cioè singole persone che hanno espresso idee critiche e per questo sono in carcere, la tendenza è quella di una sempre più marcata intolleranza verso il dissenso pacifico. Questo poi ha a che fare anche con un aspetto diverso, cioè la libertà di espressione, la libertà di stampa, la libertà della cultura… anche qui ci sono problemi diversi. Noi in Italia siamo uno dei popoli con il più alto numero di giornalisti e giornaliste sotto scorta, che a parte i nomi famosi, nella stragrande maggioranza dei casi sono donne freelance del centro-sud, che non hanno alcuna tutela. Quindi da un lato ci sono i gruppi editoriali che perseguono linee di interesse che non sono necessariamente e strettamente giornalistiche e dall’altro c’è un mondo di freelance che è lasciato allo sbaraglio, con la loro precarietà e che sono minacciati in continuazione. L’effetto complessivo è allora quello di tappare la bocca: lo fai col carcere, lo fai con le minacce, lo fai con le querele temerarie, lo fai con il controllo online, lo fai mettendogli uno spyware nel telefono…
Saccardi. Lo fai con le calunnie, con la macchina del fango…
Noury. Infatti, e questo avviene nei confronti dei singoli, poi c’è il fenomeno repressivo della più grande applicazione della libertà di espressione, cioè quella di manifestare in forma pubblica, e da questo punto di vista è evidente che i casi più estremi sono quelli dell’Iran, dell’Afghanistan, del Perù…
Saccardi. E della Cina, bisogna tornare a dire, o del Myanmar….
Noury. In Cina continuano ad arrestare gli avvocati dei diritti umani, cioè persone che hanno provato, con molta fiducia, a ribadire il principio che il diritto sta sopra la politica. In Myanmar 1700 manifestanti sono stati uccisi durante il Colpo di Stato. In Perù, a fine 2022, c’è stata una repressione furibonda soprattutto di campesinos, che erano il bacino elettorale del deposto presidente. Poi ci sono, in Russia, decine di miglia di manifestanti arrestati per aver protestato contro quella parola che non si può dire perché è reato, cioè «guerra».
Saccardi. Lo storico e giornalista Kara-Murza che si è preso 25 anni di condanna per questo.
Noury. Il ritorno alle pene staliniane, quello è proprio un esempio di ritorno al passato. Oggi, lo dico come informazione, inizia il processo a Oleg Orlov, uno dei fondatori di Memorial, e temo che anche lui subirà una condanna. Quindi, c’è questo doppio livello di repressione: contro il singolo e contro l’organizzazione della protesta e non è un caso che questo Rapporto, sul 2022, registri che in metà del mondo si è protestato e in metà del mondo queste proteste sono state represse con violenza non necessaria, eccessiva, gratuita, militarizzando le piazze, arrestando e condannando gli organizzatori. Quindi, c’è il mondo che protesta, perché ha tante ragioni per protestare, e un mondo che dimostra di non volerle sopportare quelle proteste e quindi le reprime, ed è uno scontro enorme fra le popolazioni e chi sta al potere. Noi siamo di fronte a una nuova ondata di proteste, come è stato nel 2010/11 con i movimenti Occupy o con le Primavere arabe, adesso c’è di nuovo un mondo in piazza: lo vedi in Francia con la riforma delle pensioni, lo vedi a Teheran, lo vedi a Kabul, lo vedi ovunque.
Saccardi. Certo. D’altra parte, sono anche esempi clamorosi e importanti di resistenza. Come non ricordare questo movimento delle donne iraniane, dei democratici iraniani, che è un fatto in sé grandioso, che magari va, drammaticamente, verso la sconfitta (perché, al momento, non si vedono vere alternative politiche al regime) ma che è comunque una manifestazione di coraggio, di determinazione, di non rassegnazione, che dovrebbe dare la sveglia alla nostra opinione pubblica, la quale, a questi importanti percorsi e a queste esperienze, guarda molto distrattamente, e da lontano.
Noury. Sì, come andrà a finire non lo so, ma sicuramente è la sfida più imponente che il potere iraniano ha subito da quando c’è la Repubblica islamica. È la sfida più grande degli ultimi 44 anni.
Pianeta donna
Saccardi. In Iran, a proposito di libertà, sono due le questioni che vengono poste: quella della libertà di espressione e quella della libertà delle donne, uno dei temi del nostro volume e un aspetto essenziale del Rapporto di Amnesty. La «questione donna», tra l’altro è stata trattata in uno dei nostri precedenti volumi monografici della rivista (per fare un cenno al nostro lavoro). Un volume che si intitola, non a caso, Pianeta donna. È, questa, una vera questione planetaria, che, certo, si pone in maniere e livelli diversi, nei paesi non democratici (come l’Iran o, in forma ancora più marcata, l’Afghanistan), ma anche nei paesi «sviluppati» e democratici, in cui pur essendo stati fatti molti passi in avanti, la battaglia per la conquista di una vera parità è ancora all’ordine del giorno. Sei d’accordo?
Noury. La discriminazione di genere è un fenomeno universale, che da qualunque punto di vista lo si prenda, c’è, ed è diffusa. Può manifestarsi in forme più o meno blande, anche se blande, in definitiva, non sono, rispetto all’iniquità salariale, rispetto alla rappresentanza politica, rispetto alla possibilità di accedere ai luoghi dove si prendono decisioni, riguardo proprio ai diritti delle donne. Non ne sono estranei, in questo, anche i nostri paesi. L’idea che abbia fatto notizia, ieri, che per la prima volta nella storia del Parlamento una donna abbia allattato durante una sessione della Camera, ti dice quanto siamo indietro…
Saccardi. È a livello di mentalità, e di acquisizione di una nuova consapevolezza, anche nelle nostre società occidentali, che c’è ancora moto da fare.
Noury. Esatto. È evidente che la discriminazione di genere è di sistema negli stati in cui c’è una interpretazione del Corano estrema: Afghanistan, Iran, ma anche l’Arabia Saudita. Insomma, trovami un Paese di quell’area in cui ci sia uguaglianza di genere; non c’è. Però è questa la sfida che stanno cogliendo le donne, perché noi abbiamo questa mentalità un po’ orientalista che le vede sottomesse, supine, ma in realtà si stanno ribellando. In Afghanistan è persino peggio che in Iran, perché in Afghanistan sono braccate dentro casa, sottomesse alla loro stessa famiglia. Una realtà che è sintetizzabile in una frase: «Ti frusto perché sei scappata dal tuo marito violento e siccome non ci sono più i rifugi dove andare, sei costretta a stare dentro casa». Quindi, assenza di rifugi antiviolenza, criminalizzazione dell’abbandono della casa famigliare… ecco, ma le donne protestano contro queste cose. In Iran lo stesso. Noi vogliamo provare a vedere queste lotte da una prospettiva femminista, secondo la quale quei sistemi che le donne hanno di fronte semplicemente non esistono più, non sono redimibili, non sono riformabili, non possono cambiare, devono essere smantellati e basta. Il paradosso è che una donna che scende in piazza a Teheran o a Kabul non riconosce più la legittimità del potere che ha di fronte, perché non è riformabile, ma questo potere le si abbatte addosso, questo è il dramma.
Saccardi. Senza dubbio. In Iran, c’è una differenza fra la mobilitazione attuale e le proteste che venivano fatte qualche anno fa, ad esempio, quelle del 2009. Allora c’era ancora l’idea che il sistema fosse riformabile, fosse aggiustabile, fosse «democratizzabile», ma ora c’è proprio la presa d’atto che lì c’è una cappa di oppressione che si può solo sfondare, che si può solo mirare a superare. Il cambiamento non può che avere (nelle aspirazioni di chi si batte nelle piazze e nelle strade) un carattere radicale.
Adesso che abbiamo palato di fondamentalismi e teocrazie, credo che sia opportuno occuparci della «questione religiosa», da tutt’altro (e opposto) punto di vista. a proposito, ancora, della libertà d’espressione e della libertà di coscienza. È questo un tema che è costantemente trattato nel vostro Rapporto: la libertà religiosa, la libertà di culto, in tante parti del mondo è tutt’altro che garantita. Penso a tantissime situazioni, ad esempio nei paesi islamici, nel Sudan, in Cina, in India, che pure è una grande democrazia in cui però il sentimento religioso è spesso piegato, insieme al senso dell’appartenenza etnica, ad un uso politico, nel segno dell’intolleranza.
La libertà, affermata solennemente dalla Dichiarazione dei diritti umani, di credere, di non credere e di cambiare liberamente religione se lo si ritiene giusto è, ancora oggi, tutt’altro che garantita in tantissime parti del mondo.
Noury. Non c’è dubbio, sono decine i paesi in cui la libertà di credo religioso non è rispettata e in quasi tutti i casi ciò ha a che fare con la violazione dei diritti umani delle comunità cristiane.
Saccardi. Quello della persecuzione delle comunità cristiane è un tema poco trattato dai nostri mezzi di informazione, ma rappresenta un fenomeno preoccupante ed esteso. Da noi è, per così dire, poco di moda parlarne, ma è un fenomeno importante.
Noury. È vero. Di fronte all’affermazione che quella è la Chiesa più potente al mondo c’è da obiettare che però i fedeli sono i più indifesi.
Saccardi. Le chiese cristiane sono spesso perseguitate in nome di un nuovo «anticolonialismo». Ma le comunità dei fedeli poste sotto attacco sono spesso comunità di povera gente.
Noury. Noi abbiamo visto che ci sono comunità cristiane di antichissimo insediamento, penso all’Iraq, che sono state ormai decimate. Per me il caso più clamoroso è quello della repressione statale, perché poi c’è quella dei gruppi armati islamisti, come in Nigeria, che è grave, ma chiama in causa attori non statali, quindi è un discorso diverso.
Saccardi. Certo, in quel caso, è il terrorismo fondamentalista ad agire.
Noury. Esatto. La repressione di Stato nei confronti dei cristiani è esemplificata nel modo più clamoroso dalle norme contro la blasfemia in Pakistan, norme introdotte dal dittatore Zia ul-Haq, negli anni Novanta, che per trovare ulteriore solennità e appoggio, blandiva i fedeli musulmani aizzandoli contro i «peccatori blasfemi». Abbiamo migliaia di casi di cristiani arrestati che sono stati condannati a morte o che rischiano la pena capitale per il reato di blasfemia, ma sono tutte procedure farsesche in cui c’è una mobilitazione enorme di piazza, si assaltano le case dei blasfemi, si ammazza chi si oppone. Asia Bibi, ricordiamocelo bene, la sua storia è durata dieci anni, è stata salvata grazie alle pressioni internazionali, alle campagne globali condotte da tanti. Per queste persone l’alternativa è o muori lì o vai in esilio, o muori con una corda al collo perché sei blasfema o sei costretta ad andare in esilio. Questo del Pakistan è un fatto gravissimo. Quello che mi dà fastidio è che la persecuzione dei cristiani è ridotta ad essere considerata un «tema di settore», che interessa solo i cristiani. Questo è insopportabile.
Saccardi. In Occidente ci si comporta come se questi problemi riguardassero esclusivamente le chiese cristiane e non il rispetto dei fondamentali e universali diritti umani. È, questo, un grave limite culturale, espressione di un’ottica miope e, in un certo senso, autolesionista.
Noury. Si trovano riviste di settore che raccontano storie spaventose, che però sui media mainstream non arrivano, come se fossero affari loro, e non violazioni di diritti umani alla pari degli altri.
Il tema «incandescente» della libertà di movimento
Saccardi. Fra le altre libertà c’è la libertà di movimento, uno dei temi incandescenti del nostro tempo. Viviamo in un tempo in cui sembriamo essere immemori di insegnamenti importanti ricevuti dalla parte migliore e più elevata della nostra cultura. Basterebbe riandare a Kant ed al suo ethos cosmopolitico che, sulla base della razionalità universale, esalta l’importanza della relazione fra esseri umani e popoli diversi ed afferma il diritto a ricevere ospitalità ed accoglienza. Mi pare che oggi siamo molto lontani da questa prospettiva.
Noury. Siamo tanto lontani perché più aumentano le ragioni di fuga e più aumentano le barriere, più aumentano gli ostacoli. Ormai esiste una politica unica che domina le scelte, le decisioni del nostro mondo, che è quella di tenere lontani, di non far partire, di ostacolare… Vedi qual è la retorica dei diritti umani? Condannare la violazione dei diritti umani in Afghanistan o in Iran con parole anche molto forti, quando poi non ci si comporta coerentemente su temi come quello, fondamentale, di cui di cui stiamo parlando.
Saccardi. Quando poi gli afghani arrivano a casa nostra, tutto diventa più complicato.
Noury. Quando arrivano, perché in molti casi annegano, come a Cutro, e si sentono parole come «non dovevano partire». Allora, noi dobbiamo creare delle condizioni, nei paesi di origine, in cui si viva bene, ma questo è un progetto di lungo periodo. Nel frattempo, dobbiamo creare delle condizioni, con percorsi legali sicuri, con visti, per fare arrivare le persone da noi, quelle che hanno ragioni urgenti per spostarsi.
Saccardi. È vero che è un fenomeno che va governato!
Noury. È un fenomeno che va governato con saggezza, con cooperazione, con senso di condivisione delle responsabilità, che sono le categorie della politica, no? Così almeno io lo immagino: la condivisione delle responsabilità è una categoria tutta politica. Al contrario, ognuno va per conto suo. Ma quello che tiene insieme oggi tante politiche è quest’idea che si debba pagare qualcuno per non far partire la gente. Cioè, si è creata un’economia delle frontiere che vede dare soldi a soggetti che in alcuni casi sono palesemente dei gruppi criminali, come la guardia costiera libica, o sedicente tale. Inoltre, tu dai i soldi senza curarti che fine faranno. I soldi che il Fondo fiduciario europeo ha dato negli anni scorsi alle autorità del Sudan per cercare di non fare arrivare i migranti neanche in Libia, ma fermarli prima, sono andati all’esercito e ai paramilitari che stanno devastando il Paese per acquistare le armi. Quindi, non solo non c’è la condivisione di responsabilità, c’è una condivisione di irresponsabilità in queste politiche scellerate. Vedi quello che accade in questo continuo corteggiamento della Tunisia: il presidente della Tunisia è il responsabile, direttamente, della partenza in massa di persone dal suo Paese, di stranieri, perché negli ultimi mesi non ha fatto altro che aizzare all’odio xenofobo contro i migranti e questi scappano, perché l’alternativa è essere picchiati da facinorosi in mezzo alla strada o finire in carcere, e quindi per forza partono. È doveroso andare in soccorso di uno Stato amico che è in crisi economica, però bisogna far presente al presidente tunisino che lo si può fare solo a certe condizioni.
Saccardi. Gli «aiuti economici» andrebbero dati solo a patto che si rispettino determinate condizioni, mi pare.
Noury. Se il nostro interesse fosse non far partire queste persone per l’Italia, bisognerebbe dire che lui è una delle cause della partenza, se no non funziona.
Il diritto di accesso alle risorse
Saccardi. Mi viene in mente, collegando fra loro il filo del ragionamento dei temi che si intrecciano, in questa nostra riflessione, che le partenze sono, certamente, originate da mille cause: la fame, le guerre, la mancanza di diritti umani, le repressioni. Ma spesso c’è, soprattutto, la questione dell’accesso alle risorse, che è reso ora anche più problematico dal grave fenomeno dei cambiamenti climatici, delle desertificazioni e dalla precarietà o dalla mancanza di diritti vitali (che nel Rapporto sono sempre tenuti presenti, passati in rassegna) come il diritto al cibo e all’acqua, il diritto alla cura, il diritto a un alloggio dignitoso. Il tema dell’accesso alle risorse è strettamente collegato con le migrazioni e, quindi, per il discorso che qui ci interessa, con la riaffermazione, in linea di principio. della libertà di movimento. Sono tutti nodi collegati fra loro, mi pare.
Noury. È assolutamente così. Va sottolineato che un ulteriore intreccio, legato alla scarsità delle risorse, legato alla necessità di trovare condizioni di vita dignitose, è il tema del cambiamento climatico. Per le popolazioni dedite alla pastorizia o all’allevamento, non avere terre perché sono secche, o non avere più terre perché sono state requisite, come quelle dei masai in Tanzania per farci safari turistici, significa non avere più beni di sostentamento, significa miseria, fame e morte. Quindi, è inevitabile che si esca da quei paesi, se riesci ad uscire, perché ti mancano le risorse e quindi: è colpa delle popolazioni se hanno i terreni secchi? No. È colpa loro se vengono depredate le risorse del sottosuolo? No. Siamo noi, con le nostre politiche scellerate in tema di clima o con questa insistenza sul fossile, con questo approccio predatorio alle risorse a contribuire a generare questo problema. Vedi adesso il conflitto in Sudan e ci leggi in filigrana che è un conflitto per le risorse.
I difensori dei diritti umani
Saccardi. C’è la responsabilità, in molti casi, anche di pessimi regimi locali che governano e che favoriscono il mantenimento di queste situazioni drammatiche. Volendo sfiorare un discorso di carattere storico, che certo è molto complesso, dobbiamo constatare come uno dei drammi del nostro tempo è che esiste un’eredità pesante del colonialismo e una responsabilità anche attuale dell’Occidente, ma c’è da registrare anche il fallimento catastrofico di molti dei regimi postcoloniali. Sono due aspetti, molto legati fra loro, di una stessa questione: il mancato «decollo» (e l’assenza dei diritti umani fondamentali) in non pochi di quelli che una volta si chiamavano «paesi emergenti». Oggi siamo in una situazione complessiva, generata da tutto questo, che dà, mi pare, ulteriore risalto a un punto cui accennavamo anche all’inizio. Un punto che il Rapporto sottolinea costantemente e con forza, che ha a che vedere, mi pare, anche con un pronunciamento fatto nel venticinquesimo anniversario della Dichiarazione delle Nazioni Unite sul ruolo dei difensori dei diritti umani (di cui ricorre il venticinquesimo anniversario) e con la Dichiarazione e il Programma d’azione di Vienna (di cui ricorre il trentesimo): quello dell’importanza dell’azione costante dei difensori dei diritti umani e del ruolo dei volontari, reso difficile da una situazione così problematica come l’attuale. Il Rapporto dà risalto sia al ruolo dei volontari come singoli, sia al ruolo dell’associazionismo, delle associazioni indipendenti, degli enti che liberamente si occupano dei diritti umani e delle realtà in cui occorre operare per tutelare le libertà e la dignità umana. Credo che questo sia un elemento molto importante. Vogliamo parlare un attimo del lavoro sociale e culturale che viene fatto su questi temi dalle associazioni, dagli attivisti e dai volontari in tutto il mondo?
Noury. Certo. Ma tornando per un attimo al punto precedente, da te affrontato, sono d’accordissimo, perché, in molte realtà, il passaggio da movimento di liberazione a gruppo di potere è stato quasi sempre infelice.
Saccardi. Si pensi al processo di liberazione dell’Eritrea…
Noury. Afewerki costituisce l’esempio di tutto questo, così come Samora Machel in Mozambico, Lourenço in Angola; faremmo veramente un lungo elenco di questi nomi, c’è anche da dire che chi ha decolonizzato, le potenze che se ne sono andate, hanno dato il loro contributo a determinare questo esito: a cominciare dallo scegliere, nella successiva élite di potere, spesso i peggiori, vedi cosa ha fatto il Belgio col Ruanda. C’è stato un genocidio come conseguenza di tutto questo. Per quanto riguarda i difensori dei diritti umani, essi sono indispensabili per Amnesty International, perché sono coloro che, soprattutto nei paesi in cui non possiamo entrare, fanno un lavoro rischiosissimo di raccolta di informazioni, di diffusione di informazioni, e noi li omaggiamo in ogni occasione, citiamo nomi, cognomi, i simboli delle loro associazioni, e per questo rischiano di subire le conseguenze peggiori. La Colombia è stabilmente il primo Paese al mondo per il numero dei difensori dei diritti umani uccisi. E più crescono le sfide contro le multinazionali per l’ambiente e più vengono assassinati in America i difensori dei diritti umani; penso all’Honduras. Insomma, sono preziosi, hanno fatto bene le Nazioni Unite, un quarto di secolo fa, a riconoscere l’importanza del loro lavoro; nondimeno, quella dichiarazione non è una scorta molto efficace e quindi c’è bisogno del quotidiano sostegno a queste persone. Anche solo raccontare la persecuzione che subiscono, anche solo lanciando un appello in loro favore, può fermare le minacce. Perché il Governo repressivo non si aspetta che magari il contadino che sta difendendo la sua terra diventi un nome noto a livello mondiale, spera nel silenzio, nella non conoscenza. Se fai nomi e cognomi, raccogli migliaia di firme da mandare a quel Governo, allora il Governo ci pensa due volte, perché c’è anche una certa vigliaccheria nel potere, cioè si agisce quando l’avversario è più debole, lo si rispetta quando è forte.
Saccardi. Amnesty, in questo, immagino ha anche una serie di contatti con altre associazioni indipendenti, con altre realtà meno di rilievo che però svolgono queste attività.
Noury. Lo facciamo sempre più spesso. Intanto tendiamo a pubblicare rapporti congiunti con le altre grandi organizzazioni, come Human Rights Watch, Commissione internazionale dei giuristi, ma ogni settimana, noi di Amnesty, ci associamo ad altri nomi meno noti, per fare rete, e quindi c’è una interdipendenza fra organizzazioni internazionali per i diritti umani, organizzazioni locali, singoli gruppi della società civile, con l’obiettivo di rafforzare questi ultimi. E lavorare in rete con campagne è un punto di forza. Lo facciamo anche in Italia. Ad esempio, nel tavolo asilo-immigrazione ci sono più di venti organizzazioni che si occupano di migranti. La campagna per interrompere la fornitura di bombe italiane all’Arabia Saudita l’abbiamo fatta insieme a gruppi laici, religiosi, con i sindacati. Questo è il futuro, lavorare per conto nostro non è più sufficiente.
A che punto siamo?
Saccardi. A questo punto, siccome Martina ci sta avvisando opportunamente che sta per finire il tempo del nostro collegamento, chiuderei, se siamo d’accordo, la nostra conversazione, che cerca di fornire stimoli che verranno sviluppati dai diversi autori in questo nostro volume, che «Testimonianze» e Amnesty stanno costruendo insieme. Ricorderei anche che qualche anno fa, abbiamo pubblicato un volume (già citato in precedenza) sulla lunga marcia dei diritti umani. È stato in occasione dei settanta anni della Dichiarazione Universale, che ora di anni ne ha settantacinque. Direi che pur con tutti i (grossi) problemi che abbiamo passato in rassegna (e che persistono) sono settantacinque anni che non sono passati invano. Mi pare che la lunga marcia, pur in mezzo a drammi, problemi e contraddizioni, abbia camminato e che ci siano porzioni di umanità, parti del mondo, cittadini del mondo, diciamo pure, che, sul terreno dei diritti sono andati avanti. Amnesty, in questo senso ha dato e continua a dare un contributo prezioso di cui va costantemente dato atto.
Noury. Non c’è dubbio. Io dico sempre che se noi applichiamo alla situazione dei diritti umani una lente temporale che si limita agli ultimi tre anni, tra covid, crisi climatica, guerra, chi ce li ha dovrebbe mettersi le mani nei capelli, ma noi abbiamo la fortuna di avere una lente temporale più grande, la mia è di quaranta anni di militanza all’interno di Amnesty International e non c’è dubbio che quella marcia c’è stata, una marcia di consapevolezza, una marcia di sensibilizzazione, il progresso del Diritto internazionale, l’avvento, 25 anni fa, della Giustizia internazionale, la crescita dei movimenti per i diritti umani, lo sviluppo della tecnologia che oggi rende impossibile ai governi non farsi scoprire per le malefatte che compiono.
Di tutto questo dobbiamo tenerne conto, altrimenti dovremmo dire che siano stati settantacinque anni passati invano, che siamo inutili, che siamo irrilevanti, che ci farebbero chiedere cosa ci stiamo a fare. Io penso che l’obiettivo del rispetto dei trenta articoli sia ancora lontano da raggiungere, ma questi settantacinque anni non sono passati invano.
Saccardi. Certo, sono pienamente d’accordo su questa considerazione. A questo punto direi che, provvisoriamente, possiamo chiudere. Ringrazio Riccardo, ringrazio Amnesty, ringrazio tutti voi e andiamo avanti con il nostro lavoro.
Noury. Grazie a voi, grazie a Martina e a Miriana per la pazienza.
* È la trascrizione del dialogo che si è tenuto – via Zoom – in videoconferenza (con la collaborazione di Miriana Meli e Martina Ucci).