di Giuliana Sgrena

«Donna, vita libertà» non è soltanto uno slogan. Lo hanno coniato le donne kurde del Rojava per rivendicare una libertà che va oltre il rifiuto dell’imposizione del velo e riguarda la possibilità di partecipare alla vita sociale e civile con parità di diritti. E questo slogan è stato ripreso dalle manifestazioni delle donne non solo in Iran, dove i manifestanti, donne e uomini stanchi del potere oppressivo degli ayatollah, sono stati brutalmente repressi. Il processo di islamizzazione radicale, d’altra parte, non riguarda soltanto l’Iran (si pensi al dramma delle donne in Afghanistan), ma si estende ai paesi del Nord Africa e tocca talora gli stessi paesi occidentali, dove i diritti delle donne sono, per certi versi, messi in discussione in nome di un fuorviante «relativismo culturale». Occorre ribadire, anche in Occidente, il valore universale dei diritti, indipendentemente dalla religione o dalla cultura di appartenenza.

 

L’emblema di tutte le violazioni dei diritti umani
«Donna, vita, libertà» non è solo uno slogan, ma un progetto di vita e una visione del futuro in una società laica basata sulla parità di genere. Lo slogan fatto proprio dalle donne iraniane nella lotta contro l’imposizione del velo e per il riconoscimento dei loro diritti assume un carattere rivoluzionario perché le loro rivendicazioni sono incompatibili con il regime degli ayatollah, che opprime il popolo iraniano dal 1979. Un carattere rivoluzionario avvalorato dalla partecipazione alla rivolta di femmine e maschi, giovani e anziani, di tutti gli strati sociali. Una rivolta iniziata contro il velo ma che ha poi saputo inglobare tutte le rivendicazioni sociali ed economiche degli strati più disagiati della popolazione. «Dopo quasi mezzo secolo, gli iraniani hanno capito che non si tratta di un fazzoletto ma di un’umiliazione reiterata generazione dopo generazione, l’hijab è l’emblema di tutte le violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo della repubblica islamica ai danni delle donne e del popolo intero. Le ragazze guidano le proteste che loro stesse hanno cominciato ed è una novità assoluta, ma gli amici, i fratelli, i mariti le incoraggiano e difendono con un trasporto mai visto prima». Questa dichiarazione, di un giovane manifestante di Teheran, ben rappresenta la maturità della società iraniana che coglie nelle rivendicazioni delle donne l’opportunità della liberazione di tutto il popolo iraniano. Non è la prima volta che le donne iraniane manifestano contro il velo e non è la prima volta che simili proteste vengono represse nel sangue, ma la rivolta scoppiata dopo la morte di Mahsa Amini, il 16 settembre del 2022, causata dalle torture subite in carcere dopo l’arresto da parte della polizia «morale» perché non portava correttamente il velo, ha caratteristiche diverse. E non solo per l’ampiezza e la durata delle proteste ma perché coinvolge tutto il Paese e tutte le etnie che lo compongono, superando divisioni linguistiche e religiose, come non era mai avvenuto in passato. Non solo la rivolta è iniziata per la morte di Mahsa Amini, una ragazza curda, Jina (nella sua lingua, proibita dal regime), ma anche lo slogan della protesta «Jin, Jiyan, Azadi» è stato coniato dalle donne curde siriane che hanno combattuto lo Stato islamico (Isis). Proprio le donne curde del Rojava (Nord della Siria) hanno creato questo slogan per rappresentare il loro progetto di società rivoluzionario, soprattutto nel contesto mediorientale. Ma rivoluzionario lo sarebbe anche per l’Occidente. Il tentativo è quello di costruire una società egualitaria che permetta alle donne la partecipazione diretta ed equa al processo politico; si tratta di attuare una versione più radicale del femminismo in una delle società più patriarcali del mondo e nel mezzo di una guerra civile.
Con la parola d’ordine «Jin, Jiyan, Azadi» anche le iraniane si prefiggono di instaurare un sistema di governo basato su principi di uguaglianza e libertà delle donne incompatibile con la teocrazia al potere.
La riunione di tutte le donne, curde e non solo, è un segnale di unità innanzitutto dei curdi che hanno perso molte battaglie perché in contrasto tra di loro, a causa di alleanze con regimi che li hanno spesso utilizzati e poi abbandonati alla loro sorte. Le donne del Rojava invece hanno saputo coniugare i propri diritti con quelli del popolo curdo e della democrazia più in generale. Un messaggio forte, quello delle donne curde utilizzato anche mentre combattevano l’Isis quando il loro messaggio di libertà veniva immediatamente recepito dalle donne, schiavizzate dai jihadisti, che liberavano i loro corpi dai veli che le annichilivano e gioivano con il vento tra i capelli. Le loro immagini hanno fatto il giro del mondo quando ancora la «novità» delle donne curde combattenti veniva immortalata dai fotografi dei media occidentali.

Quel che le femministe occidentali non riescono a vedere
Si poteva supporre che la lotta esemplare delle donne e del popolo iraniano contro il chador inducesse anche le femministe occidentali a considerare il velo non come espressione di libertà ma come simbolo dell’oppressione della donna. Il paradosso è che, mentre le donne dei paesi musulmani lottano contro l’uso dell’hijab e del burkini scendendo in spiaggia (ad Algeri e in Marocco) con il bikini, le femministe occidentali ne difendano l’utilizzo come segno di identità culturale e religiosa da salvaguardare.
Il velo non è imposto dal Corano, ma da una interpretazione integralista dell’islam che fa riferimento agli hadith – detti e comportamenti del profeta diffusi a migliaia a partire da due secoli dopo la sua morte e sulla cui autenticità si nutrono molti dubbi – che ha alimentato il salafismo e il wahabismo. Interpretazioni che contrastano con quelle di autorevoli studiosi contemporanei dell’islam.
«Ho conosciuto nella mia gioventù un’Algeria senza velo. Ho visto l’arrivo del velo cosiddetto “islamico” negli anni Novanta. Mia nonna portava l’haik (velo tradizionale algerino). Le mie zie uscivano di casa senza coprirsi. E questo non creava problemi (…) L’uso del velo è una questione ideologica», sostiene Kahina Bahloul, algerina, prima imam di Francia, islamologa che si ispira alla spiritualità sufi e non porta il velo.
Perché tante divergenze nell’interpretazione dei testi sacri a favore della discriminazione delle donne?
«Viviamo ancora con un pensiero che è stato prodotto nel Medioevo», sostiene Bahloul. «Tutte le parti normative della religione musulmana provengono da un pensiero medievale. Oggi questo non è più possibile. Credo che, per uscire da questa crisi, i musulmani debbano riappropriarsi dei loro testi e darsi il permesso di leggerli, per interpretarli con gli strumenti che abbiamo oggi nel XXI secolo».
L’ostacolo per l’islam è la mancanza di un processo di secolarizzazione che permetta una divisione tra Stato e religione.
La scelta di portare il velo, anche se sottintende una interpretazione della religione, è ideologica, di adesione a quella visione dell’islam globale diffusa soprattutto in Occidente e in Europa in particolare. Una scelta identitaria non basata sulla propria cultura o tradizione bensì sull’appartenenza alla Umma (comunità dei credenti) che ha forte attrazione per i giovani delle seconde e terze generazioni. Una scelta che fa dell’abbigliamento la testimonianza in pubblico di una appartenenza, obbligo spettante solo alle femmine, l’uso del qamis per i maschi è molto più raro soprattutto tra i giovani. Anche se la recente decisione della Francia di vietare a scuola l’abaya (abito che copre tutto il corpo, fino ai piedi, e spesso anche il capo) comprende anche il qamis (il camicione lungo). L’attrazione delle giovani generazioni di origine musulmana per l’islam globale è favorita dalla crisi dei valori laici, dall’indebolimento del movimento pacifista e dall’esaurimento di quello no global che aveva trovato una sponda proprio nei sostenitori dell’ideologia dei Fratelli musulmani.
Questa ideologia non ha come obiettivo quello di creare in Europa uno spazio per l’islam ma di islamizzare il vecchio continente, approfittando del relativismo culturale che, per scongiurare accuse di islamofobia, sostiene le discriminazioni delle donne. Sono infatti i diritti delle donne le vittime di questa reislamizzazione e per i paesi mussulmani questo comporta un arretramento rispetto alle conquiste (poche) del passato e anche a pratiche religiose meno oscurantiste, come testimoniato da Kahina Bahloul.

Nella galleria degli orrori
Nella galleria degli orrori, cui sono sottoposte le donne, sicuramente al primo posto troviamo le afghane. Il ritorno al potere dei talebani, nell’agosto del 2021, ha fatto ripiombare le donne nell’incubo di vent’anni prima e ha fatto conoscere alle più giovani gli orrori raccontati dalle loro madri. I talebani, riportati al potere dagli USA che li avevano sconfitti nel 2001, hanno riproposto le mostruosità del primo Emirato (1996-2001). Chi sosteneva che i nuovi talebani erano diversi dai vecchi è stato subito smentito. Le donne sono nuovamente recluse, «prigioniere delle loro case» secondo Human Rights Watch. Infatti, oltre all’obbligo del burqa, che copre tutto il corpo viso compreso, le ragazze non possono studiare oltre le elementari, non possono viaggiare oltre un raggio di 72 chilometri senza un «guardiano» (mahram) che deve essere un membro maschio della famiglia, non possono frequentare parchi, palestre, saloni di bellezza – che peraltro sono stati chiusi –, hanno il divieto di lavorare anche per le ONG e agenzie ONU. Alle ragazze è anche vietato andare a studiare all’estero, decine di studentesse sono state bloccare all’aeroporto di Kabul mentre stavano per imbarcarsi su un volo per Dubai, dove avrebbero potuto usufruire di borse di studio istituite negli Emirati Arabi.
Gli effetti sulla popolazione femminile sono devastanti, soprattutto sulla salute mentale, che porta le donne al suicidio in numero maggiore degli uomini. «Stiamo assistendo a un momento in cui un numero crescente di donne e ragazze vede la morte come preferibile alla vita nelle circostanze attuali», ha dichiarato al quotidiano britannico «The Guardian» Alison Davidian, rappresentante di «Un Women», che si occupa di uguaglianza di genere per la Nazioni Unite. Le affermazioni sono basate su testimonianze degli operatori sanitari perché i talebani vietano la diffusione di dati. Il ricorso al suicidio in mancanza di qualsiasi speranza per il futuro è la scelta agghiacciante di donne alle quali l’Occidente aveva promesso una sorte migliore quando aveva occupato l’Afghanistan nel 2001 cacciando i talebani.
Nei vent’anni di occupazione, le donne afghane erano riuscite con molta fatica a conquistarsi spazi di libertà e ad acquisire diritti che sono stati spazzati via. La situazione continua a peggiorare ma dopo un primo sussulto di fronte alle scene drammatiche dell’agosto del 2021, quando gli afghani affollarono l’aeroporto di Kabul per lasciare l’Afghanistan, i riflettori si sono spenti su quella realtà e sulle condizioni delle donne.

Un processo di reislamizzazione
Le immagini delle donne iraniane e afghane degli anni 70, quando giravano con la minigonna e senza velo, impongono una riflessione. Innanzitutto, in qualsiasi Paese del mondo i diritti conquistati dalle donne sono spesso e facilmente rimessi in discussione: lo vediamo anche in Occidente.
Nei paesi musulmani l’arretramento politico-culturale e la perdita di diritti da parte delle donne sono il frutto del processo di reislamizzazione iniziato proprio in Iran dopo la vittoria di Khomeini (1979) e alimentato poi dai jihadisti che avevano combattuto contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan (1989).
Le rivolte arabe nel 2011 avevano visto il protagonismo delle donne, che rivendicavano la parità di genere, pur consapevoli che non sarebbe stato un cammino facile. «La rivoluzione è femmina ed è appena cominciata» recitava lo slogan diffuso allora. L’emergere e la legalizzazione dei partiti islamisti in nome della libertà, garantita dal processo democratico avviato dopo la caduta dei dittatori, ha provocato un arretramento nei costumi, con l’imposizione di velo e controllo «morale» sui comportamenti delle donne, e una rimessa in discussione dei diritti acquisiti. I diritti delle donne sono stati minacciati soprattutto in Tunisia, dove il codice di famiglia varato da Burghiba nel 1956 era molto progressista e laico: proibiva la poligamia, eliminava il ripudio, garantiva gli stessi diritti nel divorzio e introduceva l’aborto. Con la vittoria di En-nahdha alle elezioni della costituente nel 2011 gli islamisti volevano rimettere in discussione i diritti delle donne. Secondo la concezione degli islamisti, i diritti delle donne sono complementari a quelli dell’uomo; quindi, una femmina può godere di diritti solo in quanto moglie o figlia. Fortunatamente le associazioni delle donne tunisine, molto attive, riuscirono a impedire questa deriva. In linea con la politica di Burghiba, con la presidenza del laico Beji Caid Essebsi veniva varata la legge contro la violenza sulle donne e l’abolizione del divieto di matrimonio per una donna di fede musulmana con un non musulmano (divieto in vigore in tutti i paesi islamici ma che non riguarda invece i maschi). Nel 2018 lo stesso presidente aveva presentato un progetto di legge a favore della parità nel diritto ereditario ma il suo successore Kais Saied, il 13 agosto del 2020 (Festa della Donna in Tunisia) ha tolto ogni speranza di riforma facendo ricorso al Corano, secondo il quale una donna eredita la metà dell’uomo. Quello dell’eredità è un tabu in tutti i paesi musulmani: dare la stessa eredità garantirebbe alla donna maggiore autonomia economica e di conseguenza maggiore libertà, ma questa possibilità viene impedita invocando il libro sacro, datato molti secoli addietro. Oltre alla reislamizzazione nel Maghreb, si è assistito nel 2021 a una campagna pro-hijab in Tunisia e Algeria per convincere le adolescenti a portarlo, organizzando loro delle feste, che ricordano sinistramente quelle per l’infibulazione in Africa o per la verginità negli USA. Una campagna che si è diffusa anche in Europa, promossa dalle organizzazioni dei Fratelli musulmani e realizzata dal Consiglio d’Europa. Nella campagna pubblicitaria, lanciata il 28 ottobre 2021, appariva una giovane sorridente senza velo che lasciava spazio a una metà velata ma con lo stesso sorriso, sopra la scritta «la bellezza è nella diversità, la libertà è nell’hijab». Il 2 novembre la campagna veniva ritirata in seguito alle proteste del governo francese, l’unico ad essersi opposto. La campagna finanziata oltre che dal Consiglio d’Europa e dall’Unione europea anche da organizzazioni che fanno riferimento ai Fratelli musulmani aveva suscitato le proteste di molte donne che hanno ricordato come in Iran, Arabia Saudita e Afghanistan si rischia la vita per lottare contro il velo.
Esaltando le espressioni dell’islamismo non si esorcizza l’islamofobia, anzi la si alimenta presentando l’islam nelle sue espressioni più mortificanti del corpo della donna segregato sotto il velo, il burkini o l’abaya. Del resto «(…) l’islamofobia è frutto dell’islamismo (…) È questa deriva totalitaria, sul corpo e nello spazio, con le sue ambizioni mondiali e le sue espressioni violente e medioevali che hanno inventato l’islamofobia» sostiene lo scrittore algerino Kamel Daoud.
Così, mentre si difende l’uso del velo, ragazze che in Italia lo rifiutano, come Hina, Sana e Saman, vengono uccise dalle loro famiglie. E sono molte le ragazze di origine musulmana che nel nostro Paese subiscono violenze perché rivendicano la propria libertà e purtroppo non trovano protezione. Anche senza arrivare al limite del relativismo «giuridico» del pubblico ministero di Brescia che (13 settembre 2023) ha chiesto l’assoluzione dell’ex marito di una donna nata in Bangladesh, ma vissuta in Italia, che lo aveva denunciato perché «(…) trattata da schiava, picchiata, umiliata. Costretta al totale annullamento con la costante minaccia di essere portata definitivamente in Bangladesh». Ma per il magistrato «(…) la disparità tra uomo e donna è il portato della sua cultura». Evidentemente quel marito ha trovato il Bangladesh anche in Italia.