di Emma Fattorini

Dall’emergenza prodotta dal coronavirus le donne rischiano di essere le più penalizzate e di subire, sotto la spinta della necessità, il ritorno ad un modello familiare-femminile anni Cinquanta. Nel tempo della fragilità (e in vista di un domani post-pandemico che non ci renderà automaticamente migliori), è importante non farsi sovrastare dalla anacronistica riemersione di problemi antichi e riandare all’insegnamento della storica «stagione dei diritti». Occorre promuovere il lavoro femminile, che non è in contrasto con la maternità (come dimostrano i paesi a più elevata occupazione femminile), ripensare il rapporto con il corpo (il nostro e quello altrui), all’insegna del superamento della concezione di un «individuo monade» e sottolineare il valore della cura, come espressione di un sentimento «materno diffuso», oltre la stretta sfera della dimensione familiare e biologica, in sintonia con l’affermazione di una nuova relazionalità fra uomini e donne e di una feconda alleanza fra generazioni diverse.

 

Interrogativi lontani anni luce
Al tempo del coronavirus le donne rischiano di essere le più penalizzate, sia sul piano delle condizioni lavorative fuori le mura di casa, sia nei ruoli della vita domestica. La presenza femminile sembra sempre più essenziale nei difficili equilibri familiari e nella formazione dei figli, tornata in gran parte sulle sue spalle. La pandemia ripropone questioni «antiche» e produce, insieme, accelerazioni inedite. Sia sul piano materiale, sia su quello simbolico delle relazioni. La donna e la maternità, sotto attacco già prima del Covid, ora rischiamo di tornare ad un modello familiar-femminile anni Cinquanta, più nel male che nel bene: un rapporto cioè più obbligato tra privato e pubblico, senza lo slancio procreativo del secondo dopoguerra, ma senza neppure l’energia prodotta dal lavoro extra-domestico degli anni della crescita economica.
La discussione che sottende le proposte, i programmi e lo stesso Recovery Fund, del resto, sembra riportarci alle annose divisioni che si ebbero a partire dagli anni Cinquanta. È «giusto» che la donna lavori, quando non è necessario un secondo stipendio in famiglia? Oppure anche per la donna il lavoro è costitutivo della sua «realizzazione» e la sua legittima autoaffermazione? Gli asili nido sono solo un aiuto che facilita il lavoro fuori casa o sono anche importanti per un precoce e giusto distacco dalla fusionalità con la madre? Diversamente, il distanziamento dalla madre nella primissima infanzia costituisce un danno irreparabile per il piccolo «carpito» dallo Stato? Sembrano interrogativi lontani anni luce, ingenui e superati, che nessuno e nessuna ricordava più: gli stessi termini, semplici ed elementari, furono quelli che divisero la cultura cattolica da quella laica e comunista riguardo le politiche familiari, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta. E siccome però la «storia» sembra la grande assente del dibattito sul post-covid, se non per ricordare, e anche in quel caso troppo vagamente, le somiglianze con il secondo dopoguerra, molti non vedono come nella loro semplice efficacia, questi interrogativi sembrino liberarsi da un lungo sonno per ritornare. Sia pure con pudore.
E per fortuna.

 

Quell’importante stagione dei diritti
Mano a mano che il Paese si ricostruiva, con l’apporto fondamentale delle laboriose famiglie italiane, si creava una sinergia tra la crescita economica, la diffusione dei servizi sociali, l’aumento dell’occupazione femminile, l’ottimismo soggettivo e il desiderio progettuale delle coppie: tutto ciò portò al mitico baby boom, tra le prime parole inglesi che circolavano agli albori del dibattito pubblico. A noi, figlie di quella stagione, quando lamentiamo che oggi «i giovani non fanno figli» il primo insulto che ci viene rivolto è quello di essere delle «vecchie boomer».
Seguirà l’importante stagione dei diritti, quella ispirata alla parità1. Il tema dell’uguaglianza tra uomini e donne, così tardivamente raggiunta sul piano politico con la conquista del voto femminile del 1946, ispirò le lotte degli anni Cinquanta e Sessanta e, insieme, costituì il primo fronte comune delle donne dei due schieramenti contrapposti dalla Guerra fredda: l’UDI e il CIF, le donne comuniste e socialiste, insieme alle donne cattoliche, trovarono profonde ragioni comuni, prima e ancora di più dei loro uomini, intorno al valore della parità, dell’uguaglianza e dell’emancipazione. Con gli anni Settanta, che non dobbiamo ricordare solo come gli anni bui del terrorismo2, si aprì una straordinaria stagione dei diritti, mai banalmente rivendicativi o riduttivamente individualistici: il nuovo diritto di famiglia toglieva la prevaricante patria potestà e ridava alla donna uno spazio di decisione e di scelta nel primo nucleo «di potere», quello della famiglia e dell’educazione dei figli, il divorzio in ragione del principio di laicità, favoriva anche la maggiore autenticità spirituale della scelta del matrimonio sacramentale e, infine, l’aborto, il tema più controverso e divisivo che anticipò tante questioni bioetiche, veniva sottratto alla clandestinità, al reato penale e consegnato alla sfera della responsabilità. Diritti non solo «individuali» ma anche di grande impatto sociale, quelli che oggi abusando di un termine, che invece mal si attaglia agli odierni diritti, si potrebbero «a buon diritto» chiamare di «civiltà». Diritti che anche allora dividevano e laceravano dall’interno le appartenenze politiche, ma che cambiavano la società. Nel profondo delle coscienze e dei rapporti tra i sessi e nella materialità delle scelte sociali e politiche.
Il risultato del referendum sul divorzio fu una deflagrazione. Improvvisa e inaspettata per laici, cattolici e comunisti. Nessuno aveva previsto che la società fosse così laica e soprattutto così più laica delle sue culture politiche. Le divisioni che si affacciarono allora furono infatti l’anticipazione delle future, irreversibili crisi. La crisi della centralità della DC, come ebbe a scrivere Pietro Scoppola, ebbe il suo momento più significativo e quasi simbolico nel referendum del 19743. Per il suo doppio significato: rivelatore dei mutamenti avvenuti nel Paese per effetto dei processi di secolarizzazione e, per altro verso, rivelatore della crisi del sistema politico nel suo insieme.
Nessuno, neppure le forze di sinistra, capirono quanto quel cambiamento sociale rappresentato dal divorzio fosse conseguenza del mutato ruolo della donna e ancora più del modificarsi antropologico della identità femminile, destinata a diventare inarrestabile fino ai nostri giorni.
E, infatti, dopo i successi delle «battaglie di parità», le donne scoprirono, con una combinazione tra percezione soggettiva e urgenza pubblica, che il solo piano, pur indispensabile, della parità portava ad una assimilazione al modello maschile: bisognava «essere come un uomo» per occupare un posto nella società, sacrificando e mortificando la propria specifica differenza femminile4. Una differenza che valorizzava, non in chiave conservatrice, la sfera del privato e degli affetti e, in primo luogo, proprio la maternità.

 

Ma il lavoro femminile non è in contrasto con la maternità
Da ostacolo e impaccio alla propria autorealizzazione, la maternità diventava, per il più avvertito femminismo della differenza, un’espressione alta e intima del proprio essere donna, spesso persino con punte idealizzanti, e però sempre ancorate al piano della libertà, quella della propria condizione «ontologica» e quella del suo significato sociale: essere madri non era un obbligato destino biologico, la maternità poteva e doveva essere una scelta, ma «qualificava» la propria identità.
Venendo ai primi decenni di questo secolo, si palesano le due identità post-moderne: la prima quella della «triade progetto-controllo-dominio» e la seconda quella di un «soggetto debole» per il quale la libertà si coniuga solo con flessibilità e indefinibilità, hanno entrambe prodotto simili esiti onnipotenti e autocentrati. E la «scelta» della maternità è la prima vittima di questo perverso intreccio negativo.
La generatività, che invochiamo nella sfera sociale ed economica, non può farci dimenticare il generare primario, quello di mettere al mondo bambini. Il calo demografico, un annoso problema del nostro Paese, che ne ha il triste primato mondiale da anni, si è ulteriormente aggravato con la pandemia, e per il futuro diventerà prioritario invertire questa devastante tendenza.
Creando cioè le condizioni materiali e non di meno quelle relazionali per procreare, in modo che la scelta della maternità possa essere davvero tale, facendone una sorta di «diritto umano» fondamentale. Sappiamo che il lavoro femminile non solo non è in contrasto con la maternità ma che anzi, nei paesi dove le donne sono più occupate, cresce il tasso di natalità, per tante ragioni, economiche, psicologiche, relazionali.
Nel mentre il declino del così detto «patriarcato» sembrava ormai raggiunto o comunque inarrestabile.
Assistiamo però non solo ai suoi colpi di coda ma, per una sorta di eterogenesi dei fini, ad una vera e propria deprivazione di adeguati riconoscimenti alle donne, quando non ad atteggiamenti dichiaratamente aggressivi e violenti nei loro confronti. E torna la domanda: perché a fronte di una forza, reale e simbolica del femminile, le donne non ottengono adeguati riconoscimenti sociali e politici?

 

Una visione positiva della comunità
Occorrerà tornare alla radice dei diritti umani. La richiesta indistinta dei diritti è cresciuta esponenzialmente, negli ultimi anni, alimentata quantitativamente da una pletora di rivendicazioni spesso senza distinzioni e priorità5. E sostenute dal desiderio individuale, da quella dilatazione delle soggettività, e della libertà sganciata dalla responsabilità, per cui ogni desiderio diventa un diritto. Nella dimenticanza dei doveri denunciata ormai dalle coscienze più avvertite anche nel mondo liberale e da ambienti tutt’altro che conservatori e bacchettoni. Quello dei diritti, del resto, non è già più da molto tempo un tema divisivo tra laici e cattolici, ma riguarda ormai una comune visione antropologica.
In questa sorta di «dirittismo» si avvertivano dunque pericoli che oggi si presentano prepotentemente: il primo è la separazione tra diritto individuale e diritto sociale e il secondo è il rischio di ferire la dignità delle persone. Libertà individuali e giustizia sociale, devono andare insieme. E perché questo possa accadere è fondamentale avere una visione positiva della comunità. Uscire cioè da un orizzonte solo individualistico. Ma senza idealizzazioni: la famiglia non è quel paradiso vagheggiato dal familismo nostrano, anzi spesso può essere un vero inferno come dimostrano le tante relazioni violente che lì si annidano, così come la piccola comunità civile non è garanzia di controllo e tutela dei soprusi verso i più deboli, in una visione tutta arroccata e chiusa di identità e sovranità.
Il problema quindi non è contrapporre il radicamento identitario alla globalità cosmopolita, o le famiglie tradizionali ad altri legami affettivi.

 

Se evapora l’unità mente-corpo
Con la pandemia sembra cambiare la percezione del nostro corpo6: si accentuerà la tendenza, già preponderante, a viverlo staccato dalla mente e dai sentimenti (anche per effetto delle biotecnologie applicate alla vita e alla morte) o capiremo che raggiungere una unità integrata delle varie parti della persona serve a rendere la vita più armoniosa, oltre che a difendere e curare più efficacemente il corpo stesso?
Nella modernità liquida, il corpo sarebbe, secondo Zygmunt Bauman «(…) l’unica certezza che ci rimane, l’isola d’intima e confortevole tranquillità in un mare di turbolenza e inospitalità (…) il corpo è diventato l’ultimo rifugio e santuario di continuità e durata (…) Da qui la rabbiosa, ossessiva, febbrile e nervosa preoccupazione per la difesa del corpo (…) il confine tra il corpo e il mondo esterno è una delle frontiere maggiormente vigilate e così gli orifizi corporei (i punti di ingresso) e le superfici corporee (i punti di contatto) sono oggi i principali focolai di terrore e di ansia generati dalla consapevolezza della mortalità, nonché forse gli unici». Fa riflettere rileggere queste righe scritte tanti anni fa, mentre maneggiamo maldestramente le nostre mascherine per evitare che gli orifizi siano esposti al contagio.
Il corpo sacralizzato come un santuario che custodisce un individuo-monade dentro una comunità-chiusa: è in questa serie di matriosche che si custodirebbe il simulacro di quella sicurezza identitaria che la liquidità aveva spazzato via e che ora, in un’epoca di possibili pandemie, sembra diventare una condizione normale e normativa.
Il corpo, la sua cura, il suo benessere ci ossessionava, lo coprivamo di tatuaggi e lo coccolavamo, sempre più spesso come fosse una realtà a se stante, staccato dalle altre parti di noi, dal nostro sé, dalla nostra mente e dal nostro cuore. Ora lo facciamo per necessità e sopravvivenza.
Nella cultura giudaico-cristiana il corpo non va per conto suo, non è separato dall’anima o dalla mente7. Solo un estenuato spiritualismo o un banale materialismo potrebbero affermarlo. Il cristianesimo è la negazione stessa di ogni possibile spiritualizzazione o idealizzazione.
Sembra invece che, nella post-modernità, questa unità di mente-corpo evapori sempre di più, e che si fondi piuttosto sulla tecnica, la sperimentazione e la libertà fino a raggiungere una potenza tecno-scientifica che parcellizza ad esempio le varie parti del corpo femminile per ottenere una gravidanza. E del resto, si sono moltiplicati, negli ultimi anni, gli studi che evidenziano come in questa crescente separazione tra mente e corpo si annidi l’origine delle diverse forme di fragilità della soggettività dell’individuo, che invece avrà nel futuro post-Covid sempre più bisogno di unità e di consapevolezza.

 

Il «materno diffuso» e il senso della cura
La cura: una questione che, nelle sue varie accezioni è stata, in questi mesi, al centro delle nostre vite, nelle forme e nelle espressioni che mai avremmo pensato possibili prima di questa pandemia. Anche in questo caso, nei termini arcaici e post-moderni insieme.
E abbiamo capito come la cura non sia solo obbligo, fatica e dovere, non è solo un giogo imposto, ma è parte, e una delle migliori, della nostra esistenza umana. Che va valorizzata e curata essa stessa.
Perché è anche grande esperienza dell’umano e di quel «materno diffuso» che si estende e si allarga oltre la mera sfera della maternità biologica. Un’occasione di grande crescita se affidata anche all’uomo. Lo scenario post-pandemico, che non sarà roseo, che non ci predisporrà spontaneamente alla solidarietà, dovrà nutrirsi di questa consapevolezza.
Certamente occorreranno tanti e tutti gli strumenti per promuovere la natalità: più servizi, parità salariali e di opportunità, aiuti materiali e tutte le forme, le varianti e le «tecnicalità» per frenare il calo demografico.
È chiaro però che se non ripensiamo alla cura e alla maternità nel mondo post-umano che ci aspetta, allora resteremo solo in un orizzonte rivendicativo e «corporativo», quello di una richiesta dei diritti tardo-novecentesca. Mentre, invece, i tempi che ci attendono richiedono, ancora più di prima, una nuova alleanza tra le generazioni, così come nuova relazionalità tra uomini e donne. Più profonda perché maggiormente consapevole del destino comune. Il Covid ci ha messo bene in chiaro come «noi siamo il nostro corpo», mai staccato dalla nostra mente e che viverlo fuori dalle onnipotenze scientiste ci restituisce una forza più autentica: la consapevolezza che nessuna e nessuno può mai essere autosufficiente. 

 

1 Su questi aspetti cfr. il mio contributo Donne e madri. Dalla parità alla differenza, in Pandemia e generatività. Bambini e adolescenti ai tempi del Covid, Consulta Scientifica del Cortile dei Gentili, Introduzione di G. Amato a cura di C. Caporale e C. Collicelli, CNR edizioni 2021, pp. 51-61.
2 Rileggendo gli anni Settanta, in «Storia e problemi contemporanei», n. 30, a. XV, maggio-agosto 2002.
3 P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna 1991.
4 S. Maggiolini (a cura di), Profezia della donna. Lettera apostolica “Mulieris Dignitatem”, Città nuova Editrice, Roma 1988. Ci furono dichiarazioni di grande entusiasmo e consenso da parte del femminismo della differenza.
5 R. Bodei, Limite, il Mulino, Bologna 2016.
6 Cfr. il primo volume su Pandemia e resilienza. Persona, comunità e modelli di sviluppo dopo il Covid-19, a cura di C. Caporale e A. Pirni, Prefazione di G. Amato, a cura della Consulta Scientifica del Cortile dei Gentili, CNR Edizioni, Roma 2020.
7 M. C. Bartolomei, R. Virgili (a cura di), Discanto-Voci di donne sull’enciclica Fratelli tutti, Paoline edizioni, 2021.