di Mariella Zoppi
Che il verde (e quello urbano in particolare) sia una necessità è cosa ormai assodata. Molti, soprattutto nell’Europa del Nord, sono gli esempi di riqualificazione o di progettazione urbanistica che tengono conto della sinergia fra zone verdi e parti abitate delle città secondo criteri che prevedono la rigenerazione e il riuso di aree dismesse, l’organizzazione dei servizi, il coinvolgimento nelle decisioni della popolazione interessata, lo scambio intergenerazionale, l’implementazione di un nuovo modello di economia basato sul riciclo degli scarti. Anche noi siamo chiamati, con il PNRR, a ripensare e riprogettare il nostro territorio, con lungimiranza e senza cedere ai vecchi vizi nazionali.
Il verde è una necessità
Il verde è una necessità: su questo, nessuno ha dubbi. Non è cosa nuova: lo sapevamo fin dalla metà dello scorso secolo, quando la sinistra italiana, ad imitazione delle socialdemocrazie nordeuropee, spuntò quel DM 1444/1968 sugli standard urbanistici, che prevedeva che ad ogni abitante dovessero corrispondere almeno 18 mq di verde attrezzato e sportivo, integrativi della residenza. Una dotazione minima di spazi verdi di vicinato cui si andavano ad aggiungere i grandi parchi e le attrezzature sportive a scala urbana.
Il decreto (che ha ormai compiuto più di 50 anni) è ancora in vigore e le regioni, dagli anni 70 in poi, hanno aumentato nelle loro leggi la soglia minima dei 18 mq per abitante. È facile dire che, se il DM 1444 fosse stato attuato correttamente, oggi avremo un patrimonio di aree verdi (e con esse parcheggi, scuole, servizi sociali ecc.) non solo di una certa consistenza, ma a diffusione capillare. Certo, non tutto sarebbe risolto, potrebbero esserci spazi non ben attrezzati, mal realizzati, frastagliati, ma almeno il rapporto fra la quantità di verde e l’abitare sarebbe stato salvaguardato. Così non è stato. Mille scappatoie burocratiche, connivenze, vertenze legali sull’esproprio e quant’altro hanno portato ad una situazione di marginalizzazione del problema che oggi si rivela in tutta la sua drammaticità e pone la questione «città-verde» in primo piano. Si parla molto di forestazione urbana, un termine «magico» con cui si intende tutto quanto possa introdurre i molteplici benefici degli alberi nelle città: dal progetto di nuove aree verdi alla riqualificazione di quelle esistenti, dalla creazione di boschi urbani, viali alberati, orti comunitari, foreste alimentari, fino all’introduzione di pareti e tetti verdi. La FAO nel suo Forum mondiale sul tema (2018) ha avvalorato la visione sistemica del verde, confermando la necessità di consideralo come l’ossatura portante della città nella sua crescita e nel suo legame di continuità con il territorio esterno.
Le città metropolitane sono state incentivate (si veda lo stanziamento per il 2021: stanziati 18 milioni di euro, DM 9/10/2020 a seguito della Direttiva EU 2008/50/CE) a definire piani idonei a ridurre gli effetti inquinanti, a contenere la perdita di permeabilità dei suoli e a mitigare le condizioni climatiche anche attraverso la messa a dimora di alberi e la creazione di aree boscate. Sono nate iniziative come quella del censimento ISTAT agricoltura, che per ogni diecimila questionari compilati ha piantato un albero con indubbi effetti positivi anche se sporadici (es. Parco delle Chiese Rupestri del Materano). Ma il problema è più ampio ed è da riferirsi ad una progettazione integrata complessiva in cui il verde sia visto come un continuum fruibile e ben distribuito che dalle aree edificate raggiunga le zone periurbane e si ricolleghi con la campagna.
Progetti, sperimentazioni e «rivoluzioni in corso»
Le sperimentazioni più recenti si mostrano in continuità con il dibattito storico sul fabbisogno, sulla struttura e sull’accessibilità (distanza abitazione-servizi) del verde urbano e in linea con la Carta di Aaltborg (1994, riconfermata da Aaltborg+10 ) per l’incentivazione delle Agende 21 locali per lo sviluppo sostenibile, che promuoveva il graduale processo degli stili di vita, dei modelli di produzione, consumo e dell’uso degli spazi, ovvero la progettazione delle città basata sull’interazione della dimensione sociale, economica e ambientale. Molti esempi di nuovi quartieri e di rinnovo di parti di città sono stati realizzati in questi ultimi trent’anni soprattutto nel Nord Europa e stanno validamente dimostrando come, nella loro evoluzione, si sia consolidato il rapporto fra la struttura fisica degli insediamenti e il grado di benessere ambientale della popolazione residente (environmental behavior). Si è potuto dimostrare, cioè, che è possibile spostare il focus dell’urbanizzazione dal profitto economico (con la conseguente concentrazione abitanti/attività) a quello dell’inclusione e del superamento delle disuguaglianze. Una vera rivoluzione che ha interessato sia la costruzione della città che i rapporti fra le città, del tutto in controtendenza con i concetti di gerarchia delle città (ovvero, contro l’ipotesi della città globale) e di concorrenza fra le città (ovvero, della loro competizione) a favore di un modello sinergico fra i territori e le popolazioni. Una strategia assunta dal progetto europeo Ecocity (2000-2004), in cui si è delineata una città basata su un mix di funzioni, su strutture appropriate e su un idoneo e integrato sistema di trasporti in grado di servire equamente le diverse parti. Ancora una volta, nulla di nuovo sotto il sole: i riferimenti citati in Eurocity erano quelli storici della Città Lineare di Soria y Mata (1882), la Città Giardino di Howard (1889), le unità di vicinato delle New Towns inglesi (P. Geddes, L. Munford, C. Stein, C.Perry, Abercrombie), il Piano delle cinque dita di Copenhagen (1949), le relazioni uomo-ambiente-società degli anni 60 (J. Jacobs e I. McHarg) fino ai modelli gravitazionali di Alexander (1977). In questo quadro vanno lette le analisi e le esperienze dell’UTF (Urban Task Force) di Richard Rogers (Towards an Urban Renaissance, 1999) che fornisce per la rigenerazione urbana un sintetico vademecum basato sull’organizzazione dei servizi (locali, di vicinato, di distretto e di città e area metropolitana) accompagnato da otto raccomandazioni: necessità di un progetto di rigenerazione urbana complessiva con indicazione di aree speciali d’intervento; coinvolgimento ai vari livelli decisionali della popolazione interessata; costruzione del 60% delle nuove abitazioni su aree dismesse; miglioramento del patrimonio edilizio esistente; aumento degli standard in materia di distanze fra le abitazioni e diminuzione delle densità insediative; maggior integrazione fra viabilità e abitazioni, ribaltando il concetto che sono le strade che servono le abitazioni e non viceversa; ottimizzazione del trasporto non automobilistico; «qualità» come cardine della progettazione.
Sono una serie di principi che, in modo flessibile, possono essere applicati alle diverse realtà e costituiscono una guida per la progettazione dei cosiddetti eco-quartieri, in cui la differenziazione degli spazi può essere molto ampia, ma sempre basata su un sistema di reti interconnesse che attraversano il territorio con caratteristiche di contiguità e di relazione. Solo così, infatti, si possono raggiungere situazioni di equilibrio territoriale e riverberare tutti gli aspetti del benessere (o meglio, dello «star bene») che sono al tempo stesso materiali e immateriali, oggettivi e soggettivi e che afferiscono alla politica, alla sfera sociale e culturale, a quella economica, a quella ambientale ed energetica, non meno che alla tecnologia, all’educazione e alla partecipazione.
L’area portuale di Copenaghen: un pezzo di città del futuro?
I primi eco-quartieri hanno ormai superato i trent’anni di vita e permettono di fare confronti e bilanci su impianti urbanistici assai diversi, in cui queste problematiche sono state inserite in un quadro tecnologico avanzato e compatibile. Ad Eco-Viikki (1993) (2.000 abitanti) si è puntato sul risparmio di energia (un sito fotovoltaico con una superficie di 1.400 mq, fra i più grandi della Finlandia), sul riciclo completo dell’acqua, sulla bassa densità, sull’uso di materiali naturali non tossici (legno in prevalenza, con torba e balle di fieno come isolanti) e sulla distribuzione pervasiva del verde. Principi simili sono stati applicati all’ampliamento di Kronsberge, un insediamento primo Novecento alla periferia di Hannover, per 6.000 persone: qui, il progetto del verde è il vero protagonista con un parco – disegnato come un enorme prato libero da Dieter Kienast – che si spezza in cinque «corridoi» fra loro coordinati che, impostati secondo l’orditura della maglia agricola, sono di supporto alle relazioni fra le nuove abitazioni, il centro più antico e l’area dell’Expo 2000.
Addirittura precedente (1984) è Egebjerggard, a Ballerup (20 km da Copenaghen), per 3.500 abitanti, costruito da un gruppo di cooperative che, in accordo con il comune e il «consiglio dei locatari» di Egebjerggard, si è posto due obiettivi: l’efficienza energetica (solare, termico, fotovoltaico, materiali) e l’alta qualità degli spazi pubblici verdi identificati, peraltro, da istallazioni di artisti. Ma, forse in questo caso, la valenza sociale e la partecipazione degli utenti sono state determinanti nella progettazione: il ceto e l’età degli abitanti sono, infatti, fortemente differenziati (famiglie, studenti, anziani e disabili), mentre la tipologia delle abitazioni offre diversi modelli per materiali, altezze e caratteristiche di aggregazione, sempre rispettando il criterio della bassa densità e dell’immersione nel verde. Si è venuta a creare così una coesione sociale intergenerazionale fin dall’inizio della costruzione, cosa che negli altri eco-quartieri viene raggiunta mediamente dopo un decennio.Fra gli esempi più famosi c’è certamente Malmoe Bo01 nell’area portuale di Copenaghen, che si pone come una sperimentazione della città del futuro, dove sostenibilità e intelligenza/informazione collaborano alla definizione di un nuovo stile di vita che garantisce qualità ambientale, sociale, individuale ed efficienza energetica. Dopo un primo nucleo di 800 appartamenti, Bo01 ha visto la costruzione di 1000 nuove abitazioni, con uffici, negozi, bar, ristoranti, asili, scuole e biblioteche distribuiti fra acqua e verde.
Le altezze degli edifici varia da uno a sei piani, con l’eccezione della torre di Santiago Caltrava (45 piani), mentre le tipologie vanno dalle case isolate, a quelle a schiera e a blocco e comprendono diversi regimi proprietari (per lo più diritto di superficie, ma anche proprietà assoluta e affitto). Naturalmente l’autosufficienza energetica è garantita dalle fonti rinnovabili: vento, sole e acqua (insieme all’energia da biomassa) e l’incenerimento dei rifiuti urbani consente la produzione di gas che alimenta la rete urbana. Il quartiere riassume anche nel paesaggio (3 parchi, il mare ecc.) il paradigma della biodiversità e della consapevolezza ambientale che, uniti all’alta qualità tecnologica e d’impresa, consentono di prevedere l’evoluzione del futuro degli edifici (uso, riuso ecc.) e delle funzioni, temi peraltro cari alla cultura scandinava.
Non meno noto, anche per la pista da sci sulla sua collina-parco, è Hammarby Sjöstad: una città in cui, a partire dalla grande piazza verde in posizione centrale, l’edificato è in diretta continuità con i sistemi ambientali esistenti, il lago a Nord e i boschi a Sud, che assicurano la ricchezza della continuità biologica che interessa zone umide ripariali, recupero e bonifica di ex aree industriali, depurazione delle acque del lago e una fitta rete di corridoi verdi e canali per raccolta delle acque meteoriche, che attraversano gli spazi pubblici, le aree private e il parco naturalistico di Sickla Udde. L’abitato, articolato in unità minime di vicinato (2000 abitanti, con scuole e servizi di vicinato) e sostenuto dal Quality Program (per gli edifici e gli spazi aperti), garantisce l’organizzazione equilibrata di Hammarby, in cui il concetto di «scarto» non esiste: tutto è riusato per alimentare il quartiere. Dalle acque in uscita dalle abitazioni vengono estratti biogas che alimentano le cucine e i veicoli (trasporto locale), il biofuel prodotto dalla biomassa è trasformato dalla centrale in energia termica ed elettrica, mentre l’acqua «pulita» riscaldata viene immessa nel ciclo degli impianti di teleriscaldamento.
Risorse consistenti, da usare con lungimiranza
La transizione ecologica passa per esperienze come queste (sono ormai molte e differenziate), che possono avere un effetto di trascinamento sul complesso delle organizzazioni urbane con cui si relazionano e delineare «una transizione ambientale equa e inclusiva» (obiettivo peraltro del PNRR) che passa per la tecnologia, ma non si ferma a questo aspetto, perché altrettanto fondamentale è la coesione sociale e il benessere degli abitanti e le nuove forme di economia che lo sostengono. Tutto questo significa che è necessario erogare incentivi alle attività (il PNRR lo fa secondo 4 obiettivi: agricoltura sostenibile ed economia circolare; energie rinnovabili; efficienza energetica e riqualificazione edifici; tutela del territorio e della risorsa idrica), ma che l’efficacia dei suoi risultati passa per la capacità di proporre modelli identificabili e sperimentali e non per il finanziamento a pioggia di miriadi di micro-interventi (facciate, finestre ecc.) che certo hanno una loro utilità (più per i singoli che per la collettività), ma che, per la loro eterogeneità e dispersione sul territorio, non arrivano a delineare un percorso resiliente verso uno sviluppo sostenibile.
Oggi, in Italia, abbiamo risorse consistenti (59,5 miliardi dal Dispositivo RRF e 9,1 dal Fondo) che dobbiamo saper usare e non sprecare come abbiamo fatto in precedenza con altri finanziamenti europei, come quelli per la deindustrializzazione, che molti paesi hanno usato con grande accortezza: si pensi al recupero ecologico a vasta scala della Ruhr condotto dalla Germania alla fine dello scorso secolo, che ha trasformato un territorio annerito e avvilito dal carbone in un’area verde, con una nuova economia, con attrezzature culturali e per il tempo libero, con acque pulite e sistemi integrati di energia ad uso domestico, industriale e dei trasporti. Il risultato è visibile e consolidato, ma soprattutto all’investimento di partenza (misto: europeo, federale, del Land e privato) ha corrisposto una dinamica economica e sociale attrattiva di nuove attività e popolazione, che ha generato inclusione, capacità innovativa e riconversione produttiva.
Nulla è mutuabile o meramente copiabile, ma le indicazioni e le sollecitazioni, che derivano da esperienze di cui si possono valutare portata ed esiti, non vanno sottovalutate e soprattutto non va trascurato l’indotto generato da queste operazioni, in cui invece di parcellizzare e personalizzare i problemi, si è cercato di risolverli ampliando l’orizzonte, aprendosi alla collettività, attivando politiche capaci di attraversare e includere le differenze (età, ceto, provenienza geografica, genere ecc.).
È questo l’obiettivo e la sfida che abbiamo oggi: rifondare su basi di appartenenza e di solidarietà quella società che, prima del Covid-19, definivamo disinvoltamente «liquida» e che non vogliamo (e non possiamo) veder dissolversi in una sommatoria di individui forse connessi, ma isolati e vaganti in un universo virtuale.