di Rossella Muroni

La sfida lanciata dall’Europa in direzione della neutralità climatica costituisce un’occasione straordinaria, grazie anche ai fondi messi a disposizione dei paesi membri con il piano NextGenerationEU a seguito della pandemia, per costruire un nuovo modello di società, caratterizzata da un’economia non più asservita alle fonti di energia fossile e da una nuova sensibilità civile e culturale tendente a rendere i cittadini responsabili del ruolo che essi, in prima persona, possono avere nella transizione ecologica.

Un mondo non più schiavo del petrolio
La sfida a favore del clima è il fronte più avanzato nella costruzione di una «nuova Europa» delineato sin dal suo insediamento dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, quello che può ridarci speranza e slancio rispetto al nostro futuro comune. Oltre ad essere necessaria per difendere l’ambiente e il Pianeta, uscendo dall’epoca dei fossili, essa implica la costruzione di una nuova economia, più innovativa ed efficiente, che non compromette il futuro, e la configurazione di un mondo non più schiavo del petrolio e delle sue guerre. Significa aggiungere nuovi valori all’Europa e dare una possibilità in più al multilateralismo e alla cooperazione. Cercare queste connotazioni per l’UE significa anche impegnarsi per attualizzare quella aspirazione ad essere «spazio privilegiato della speranza umana» tratteggiato nel preambolo della incompiuta Costituzione del 2005, quell’unione solidale sognata nel Manifesto di Ventotene. E da ecologista e italiana non posso che apprezzarlo.
In piena pandemia con il piano NextGenerationEU l’Europa ha adottato una visione ecologista e solidale, facendo aperture inedite e impensabili fino a poco tempo addietro. Cosciente che nessuno si salva da solo, ma che per uscirne serve camminare insieme, mettere in comune strategie e conoscenze.
Solo nella tempesta perfetta generata dalle crisi pandemica e climatica l’UE si è decisa alla sospensione del Patto di Stabilità, a finanziare le politiche contro la disoccupazione con Sure, a sostenere la giusta transizione e una ripartenza green con il Recovery Fund, a indicare rinnovati e più ambiziosi target climatici al 2030 e 2050. Di fronte al deflagrare della crisi climatica e con l’avvicinarsi della COP26 di Glasgow, l’Europa prova ad accelerare con il «Fit for 55»: il pacchetto di misure proposte dalla Commissione per raggiungere l’obiettivo climatico di una riduzione del 55% delle emissioni nette rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030.

Obiettivo: neutralità climatica
Un target ambizioso, che ancora non è abbastanza per restare nella traiettoria disegnata dall’Accordo sul clima di Parigi, ma che basta per ridare all’UE la leadership nella sfida del clima – che è una partita tecnologica, di conoscenza, geopolitica e giustizia sociale – essendo il primo continente ad aver dichiarato l’obiettivo della neutralità climatica al 2050. Un impegno che ha spinto altri a target analoghi come la Cina, seppur con un orizzonte più lungo, il Giappone e gli USA di Biden. Che andrà finanziato con ingenti fondi pubblici, ma anche mobilitando la finanza verde e risorse private. E a chi pensasse che il costo di questa trasformazione è insostenibile, ricordo un paio di dati: dal 1970 al 2019 per l’Organizzazione meteorologica mondiale dell’ONU ogni giorno in media sono morte 115 persone e si sono persi 202 milioni di dollari per disastri e fenomeni estremi della meteorologia innescati dal progressivo cambiamento climatico. Un arco di tempo in cui complessivamente le vittime sono state 2 milioni, i costi astronomici e i fenomeni estremi sono quintuplicati. Numeri che spero bastino a convincere tutti che non c’è più tempo da perdere e bisogna affrontare il mutamento climatico ora.
Ursula von der Leyen ha dichiarato che una delle motivazioni che l’hanno convinta ad alzare al 55% l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti europee al 2030 è stata la forte pressione delle mobilitazioni giovanili. E dopo che la Corte costituzionale tedesca ha bocciato le politiche del governo sul clima, la risposta della Merkel è stata rapidissima con l’adeguamento delle politiche climatiche. Così il taglio delle emissioni al 2030 è stato alzato dal 55% al 65% e il raggiungimento della neutralità climatica è stato anticipato al 2045, cinque anni prima di quanto già stabilito.
Nella rinnovata attenzione di Europa e Germania verso la crisi climatica hanno avuto un ruolo rilevante la pandemia e le alluvioni che questa estate hanno devastato il vecchio continente colpendo con particolare violenza Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo. Ma sarebbe ingeneroso non riconoscere che sin dal suo insediamento la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha voluto imprimere una forte impronta green.
Non a caso le risorse che l’Europa mette a disposizione degli Stati membri con NextGenerationEU hanno l’obiettivo di sostenere la ripresa economica, ma anche una maggiore resilienza grazie a una crescita sostenibile, inclusiva e attenta alla salute.
Un obiettivo declinato in precisi criteri di spesa: agli obiettivi del Green Deal devono andare almeno il 37% dei fondi, le altre priorità di investimento sono la transizione digitale (20%) e il contrasto delle disuguaglianze territoriali e di genere. E finalmente si iniziano a vedere i risultati di queste politiche con gli Stati europei che tornano a crescere. Italia compresa.

Il Recovery Plan per l’Italia: coinvolgere le donne alla pari
Per noi italiani il Recovery Plan rappresenta una grande opportunità di investire sulla conversione ecologica, di rafforzare il Sistema sanitario nazionale, di rendere la nostra economia più circolare, attenta all’ambiente e proprio per questo più competitiva. Un’occasione da sfruttare al meglio avendo cura di puntare su settori green ad alto potenziale, capaci di generare un effetto leva importante, così da incidere in modo significativo su crescita e inclusione, migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini e ridurre povertà e disuguaglianze.
Parliamo di fondi talmente ingenti e di condizioni così uniche che condizioneranno i prossimi decenni e devono essere investiti con responsabilità, pensando ad una nuova economia orientata al futuro. Che significa anche non rinunciare al contributo delle donne, ma coinvolgere e sostenere la loro partecipazione alla vita economica, politica e sociale del Paese. Alla pari. Analogamente bisogna dare prospettive ai giovani, a quella Next Generation a cui chiediamo i fondi in prestito.
La priorità sulla conversione ecologica comporterà una radicale riconversione del tessuto produttivo in chiave si efficienza, circolarità nell’uso delle risorse e decarbonizzazione, con interventi trasversali in tutti gli ambiti: dall’energia ai trasporti, dall’agricoltura all’industria, dal fisco alla pubblica amministrazione, dall’edilizia ai rifiuti, dalla cura del territorio alla gestione delle acque, sino ad incidere su stili di vita e abitudini di consumo della società. Non solo per rispondere alla crisi climatica ma anche per affrontare gli squilibri e l’insostenibilità del modello di sviluppo lineare e del «business as usual». Un modello predatorio i cui limiti ambientali e sociali sono stati mostrati chiaramente dalla pandemia.
Per inquadrare il problema basti considerare che dal 1970 al 2017 la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 3,7 a 7,5 miliardi, mentre il consumo mondiale di materiali è aumentato di 4 volte, da 26,6 a 109 Gt, crescendo a un ritmo doppio rispetto a quello della popolazione. Un ritmo insostenibile, appunto. Anziché continuare a consumare risorse e a produrre rifiuti a questi livelli bisogna puntare a un modello green, innovativo e circolare, in cui i prodotti hanno un ciclo di vita lungo, si riutilizzano, sono progettati per durare e quando non si possono più riusare si riciclano i materiali di cui sono composti. È anche il senso della direttiva sulla plastica monouso e del pacchetto economia circolare.
I circa 200 miliardi destinati all’Italia attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza sono una risorsa fondamentale per una nuova economia verde di cui la transizione energetica è un caposaldo essenziale per raggiungere un traguardo carbon free. Avendo ben presente che puntare al carbon free comporta la programmazione dell’uscita dalla combustione del carbonio e non semplicemente del carbone. In questo quadro è evidente che siano da aggiornare sia il Piano nazionale integrato Energia Clima che le scelte riguardanti il Capacity market; inoltre nel Piano che dovrà dire in quali aree è consentito fare ricerca e coltivazione di idrocarburi e dove invece tali attività non sono permesse – su cui l’Italia è in ritardo – dovrà essere indicata una data per l’uscita dall’era delle trivelle. E per dimostrare di fare sul serio e credere davvero alla transizione, va avviato dalla manovra un graduale taglio dei sussidi a fonti fossili e attività ambientalmente dannose.
Restare in linea con il Green Deal, Accordo di Parigi e nuovi obiettivi climatici aiuterà l’Italia e l’UE anche per creare valore aggiunto e nuovi posti di lavoro green e dignitosi.

Economia e occupazione in prospettiva green
Già oggi la sostenibilità crea ricchezza e lavoro nel nostro Paese. Secondo il rapporto GreenItaly 2020 di «Fondazione Symbola» e Unioncamere, infatti, sono oltre 432 mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi che hanno investito in prodotti e tecnologie green negli ultimi 5 anni. Quasi una su tre: il 31,2% dell’intera imprenditoria extra-agricola. Il 2019 ha fatto registrare un picco con quasi 300 mila aziende che hanno investito sulla sostenibilità e l’efficienza. In questi investimenti fanno la parte del leone l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili insieme al taglio dei consumi di acqua e rifiuti, seguono la riduzione delle sostanze inquinanti e l’aumento dell’utilizzo delle materie seconde.
Tutto questo prima dello shock della pandemia, a cui hanno reagito meglio proprio le imprese più votate al green.
Dal punto di vista del lavoro, l’occupazione green ha mostrato negli ultimi anni performance migliori rispetto a quelle del resto dell’occupazione. Nel 2018 il numero dei green jobs in Italia ha superato la soglia dei 3 milioni: 3.100.000 unità, il 13,4% del totale dell’occupazione complessiva (nel 2017 era il 13,0%). L’occupazione green nel 2018 è cresciuta rispetto al 2017 di oltre 100 mila unità, con un incremento del +3,4% rispetto al +0,5% delle altre figure professionali.
Secondo il Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia 2020 realizzato dal Circular Economy Network (CEN), inoltre, l’Italia è ancora campione europeo per indice di circolarità, valore che viene attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse in 5 categorie: produzione, consumo, gestione rifiuti, mercato delle materie prime seconde, investimenti e occupazione. Tuttavia, il nostro Paese perde terreno rispetto a Francia, Germania e Polonia, che corrono più veloci e migliorano le loro performance a un ritmo più elevato di noi.
Succede perché è ancora troppo debole, rispetto agli interessi che difendono l’esistente e il modello di sviluppo consolidato, la consapevolezza dei nostri talenti: abbiamo brevetti, tecnologie, innovazioni green e professionalità apprezzati nel mondo. È italiana la tecnologia del solare a concentrazione, quella per produrre bottiglie in pet 100% riciclato, per ricavare ovatta e plastica dai pannolini usati o per realizzare isolanti con alte performance dalla lana di scarto, ossia quella di pecora a pelo corto. Talenti che sono forse più apprezzati all’estero, che in casa. E forse per lo stesso motivo in Italia mancano il coraggio di scelte radicali per la sostenibilità e la coerenza tra dichiarazioni di intenti e misure messe in campo.
In questo contesto succede che il PNRR investa più sull’idrogeno che sulle rinnovabili, più sulle grandi infrastrutture impattanti che sulle opere utili e diffuse come quelle per la mobilità sostenibile nelle città o per curare il territorio dal dissesto idrogeologico. Analogamente accade che il Decreto Semplificazioni, che sarebbe dovuto servire per accelerare sulle fonti pulite, abbia facilitato ancora una volta soprattutto le grandi opere facendo assai poco per economia circolare e rinnovabili. Così ancora oggi l’Italia non è l’ecosistema più adatto per investire in rinnovabili. Lo provano il numero crescente di imprese che scelgono altri paesi, contribuendo al vistoso calo subito dalle nuove installazioni di rinnovabili degli ultimi anni. D’altronde, da noi ottenere l’autorizzazione per installare un impianto di energia pulita richiede mediamente 5 anni e passa. Un tempo proibitivo per chi vuole investire. Tanto che all’attuale ritmo raggiungeremo gli obiettivi previsti dal vecchio Piano Nazionale Energia e Clima per le rinnovabili al 2030, solo nel 2085.
Tra le riforme strategiche che servono urgentemente alla green economy tricolore metterei insieme alla semplificazione degli iter autorizzativi dei nuovi impianti di energia pulita e il repowering di quelli esistenti, il potenziamento del sistema dei controlli ambientali per renderli più rapidi ed efficaci e una legge per ampliare il ricorso al dibattito pubblico. Territori e comunità vanno coinvolti, attraverso informazioni e confronto approfonditi, anche nelle decisioni sugli impianti di produzione di energia pulita. Perché la partecipazione consapevole è l’antidoto più efficace che possiamo mettere in campo contro l’effetto NIMBY.

Sfruttare al meglio l’occasione
Già nel 2019, quando non sapevamo nulla della pandemia né della crisi e degli sforzi europei che sarebbero arrivati dopo il coronavirus, uno studio condotto dalla sua «Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile» aveva misurato l’impatto che avrebbe avuto in cinque anni – proprio quelli entro cui si devono realizzare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – la promozione di interventi green avanzati in cinque settori chiave: efficienza energetica, fonti rinnovabili, economia circolare, rigenerazione urbana e mobilità sostenibile.
Ebbene, le misure indicate nello studio in questione porterebbero in pochi anni a 190 miliardi di euro di nuovi investimenti green e 800 mila nuovi occupati.
Ora che abbiamo anche il Recovery Plan dalla parte della sostenibilità non possiamo farci sfuggire l’occasione, ma dobbiamo utilizzare la meglio queste risorse, che devono diventare rapidamente un elemento di accelerazione che ci faccia recuperare il ritardo rispetto a un piano industriale green, alla transizione energetica e quindi alla decarbonizzazione dell’economia. Ma per vincere questa sfida la politica deve essere coraggiosa e coerente. Deve ad esempio pensare a una fiscalità verde e a una strategia per le aree urbane, che sono i luoghi dove vive la maggior parte della popolazione e in cui si concentrano molte delle attività e delle emissioni inquinanti e climalteranti, ma possono essere anche acceleratori di processi virtuosi. Ecco perché è importante progettare e realizzare la giusta transizione ecologica e l’adattamento ai mutamenti climatici a partire dalle città. Dotarle di servizi efficienti per la mobilità intermodale e sostenibile, realizzare interventi di rigenerazione urbana, riqualificazione dell’edilizia e co-housing, insieme alla cura del verde pubblico e alle comunità energetiche significa migliorare la qualità della vita dei cittadini e rendere i nostri centri metropolitano più resilienti.
Tanto più che quella green è una prospettiva di cambiamento che può creare opportunità economiche e occupazionali positive – dalle rinnovabili all’economia circolare passando per l’edilizia, l’agricoltura e la mobilità sostenibili – proponendo soluzioni innovative per la mobilità nelle città e nel modo di auto-produrci e scambiare energia pulita, nella qualità e salubrità del cibo che mangiamo, nella produzione di beni e in una loro gestione più intelligente. Una prospettiva che richiede anche una «rivoluzione» sociale e cittadini attivi. Pensiamo all’economia circolare, un modello di sviluppo in cui i materiali vengono rimessi in circolo per essere riutilizzati anche per nuovi usi, un modello che funziona a partire da come tutti noi facciamo la differenziata in casa e in cui noi cittadini, differenziando bene i rifiuti, possiamo diventare dei fornitori di materiali. O pensiamo alla possibilità di autoprodurre e condividere con i nostri vicini energia rinnovabile con pannelli fotovoltaici o mini eolico, con vantaggi sia per l’ambiente che per le tasche di noi cittadini. Perché sia chiaro che questa trasformazione, per funzionare, deve coinvolgere e sostenere tutti, a partire proprio dei soggetti più vulnerabili e svantaggiati, che la giustizia ambientale deve procedere di pari passo con la giustizia sociale.
Ce lo ha insegnato tanti anni fa Alex Langer: la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile. Così come l’Europa dovrà dimostrare di essere ambientalmente e socialmente sostenibile per continuare ad essere desiderabile.