di Severino Saccardi
Libertà, uguaglianza, fraternità: in apparenza, la storia di una «triade» di valori che hanno marciato divisi. Il Novecento ha opposto ideologicamente uguaglianza e libertà, mentre la fraternità sembrava confinata in una dimensione astratta. Oggi, in una realtà lacerata dai conflitti, viene a riproporsi l’esigenza di riscoprirci «fratelli tutti». Un’esigenza che per trovare reale esplicitazione ha, però, bisogno di un mondo in cui la libertà sia difesa ed estesa ed in cui il tema dell’uguaglianza non sia più rimosso. Un’«antica» intuizione che può fare da guida, forse, per la costruzione di un domani migliore.
Ma che cos’è la libertà?
Ma che cosa è la libertà? Difficile dirlo, a prima vista, in un periodo in cui qui, da noi, si invoca la libertà contro presunte limitazioni dei diritti nella contingenza della pandemia. Mentre, nel frattempo, nel lontano (ma non poi troppo) Afghanistan la libertà diventa davvero un miraggio di fronte alla riaffermazione della dittatura talebana. Il disordine (delle idee) è grande e la situazione non pare eccellente. A volte, si avverte il bisogno di tornare, culturalmente e politicamente, all’abbecedario del vivere civile. E dunque, non sembri retorico affermare che l’aspirazione alla libertà è da sempre inscritta nell’animo di ogni essere umano. Ne aveva dato attestazione la lezione (di pensiero e di vita) di Socrate. E lo stile collettivo di vita della polis (che aveva i suoi limiti e che valeva solo per chi non era in condizioni di servitù o non era destinato alla dimensione domestica) a tale aspirazione cercava di dare concreta attuazione. Anche il cristianesimo nasce e si afferma con un potente anelito di libertà (oltre che, naturalmente, di fraternità, come ricordano alcuni dei nostri autori): la libertà dei figli di Dio. Che non devono più dividersi per etnia, per condizione sociale, per appartenenza sessuale. E che solo al Padre e alla coscienza (non più e non prioritariamente alle gerarchie della Terra) devono rendere conto. Ma è solo con l’illuminismo e la Rivoluzione francese che la libertà assume pienamente la caratteristica di un principio politico-ideale di riferimento. Un principio che viene posto espressamente in stretto collegamento con quello dell’uguaglianza e con quello (bellissimo, ma di problematica attuazione) della fraternità. Una «triade» o un «trittico» valoriale cui nella nostra storia e società contemporanea costante è stato il riferimento (non senza incoerenze, contraddizioni e palesi atti di infedeltà). A proclamare i diritti umani, per dire, era quella stessa Francia che avrebbe usato il pugno di ferro nei territori delle sue colonie. Nelle quali, però, a ben vedere, è poi maturato il seme della rivolta richiamandosi, anche, in definitiva, alla sostanza di quegli stessi valori. Il cammino, sia pure pieno di inciampi, era delineato.
Quando si sono divise Uguaglianza e Libertà
Per Roosevelt la libertà, nelle sue specificazioni, si sarebbe dovuta considerare al plurale. Erano quattro, come si ricorderà, le libertà che venivano enunciate, e annunciate. Libertà di espressione. Libertà religiosa. Libertà dal bisogno e dalla miseria. Libertà dalla paura. Una pietra miliare del percorso che siamo qui, per essenziali suggestioni, a richiamare è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 19481. In quel testo si enunciano principi ispirati al valore fondamentale della libertà (con articoli che parlano di diritti civili e politici: libertà di parola, di culto, di movimento, di stampa, di organizzazione sindacale…), ma senza trascurare i diritti sociali (spesso, nella realtà, assai negletti) che sono fondamentali per riaffermare l’uguaglianza e la pari dignità degli esseri umani. E la pari dignità è premessa, postulato imprescindibile e implicita riaffermazione del principio (solo apparentemente astratto e velleitario) della fraternità. La data-simbolo del 1948 rimane un riferimento imprescindibile: dal punto di vista ideale e storico-culturale, ma anche sul piano più strettamente politico. Perché gran parte dei principi, delle libertà e dei diritti proclamati in quell’occasione sono ancora di là da venire in tanta parte del mondo. La storia, del resto, come ben sappiamo, è assai complessa. Abbiamo bene in mente come è andata la storia del «secolo breve». Libertà e uguaglianza sono state fra loro separate. Sono diventati simboli distanti e contrapposti. Di qua, il vessillo della libertà del mondo occidentale. Di là, la bandiera dell’uguaglianza, espressione, nella rappresentazione che ne veniva data, di una condizione di emancipazione sociale che avrebbe dovuto superare i confini asfittici e formali della democrazia borghese. Poi, è venuto giù il Muro e lo scenario è drasticamente cambiato. Sembrava che ci potessero essere tutte le condizioni perché la libertà (che è imprescindibile, anche e proprio nei suoi aspetti formali) e l’uguaglianza (cioè una maggiore giustizia sociale e la garanzia di pari opportunità per i cittadini) cominciassero davvero a camminare insieme, fuori da ogni astratta e fuorviante rappresentazione ideologica. Ma, nonostante gli enormi cambiamenti che si sono verificati (si pensi solo ai passi fatti, sia pure con le contraddizioni del caso, dal processo di unificazione europea) non pare esattamente che così sia andata. Il processo avanzato della «globalizzazione» ha cambiato e mischiato le carte in tavola2. Ci sono popoli e paesi che hanno avuto effettivamente nuove possibilità di emergere e che si sono affacciati sulla scena del mondo e c’è stata (come più volte viene ricordata) una parallela crisi del lavoro e un ridimensionamento delle condizioni di vita del ceto medio proprio nelle società sviluppate. Il dibattito, d’altra parte, è vivace. Basta leggere, in merito gli interessanti articoli degli autori di questo volume (che, tutti, ringrazio). Vi si fa giustamente notare che le democrazie nel mondo sono aumentate e che ovunque la fiammella delle istanze di libertà è viva fin nei più remoti angoli del pianeta e nelle esperienze, pur tormentate e sofferte, di tanti popoli. E però vero, come viene, per converso, fatto rilevare, che, in troppi ambiti e in troppi contesti i diritti sono continuamente violati e che le libertà più elementari sono calpestate e dispregiate.
La più negletta della «triade»
Il caso-simbolo di Patrick Zaky sta lì, drammaticamente, a ricordarlo. Come non rilevare, d’altronde, il perverso fascino che sembrano emanare (nel singolare e diffuso bisogno di «decisionismo» dei nostri tempi) modelli di paesi autocratici o semi-autocratici che, forse, non c’è nemmeno bisogno di nominare, perché i nomi sono nella mente di tutti. Anche nelle realtà di consolidata democrazia (che è un bene, intendiamoci, da difendere e preservare con tutte le energie) la crisi della politica, il distacco fra istituzioni e cittadini, i volti variabili dell’antipolitica, il ruolo ambiguo dei social media sono all’origine di una situazione che genera spesso sfiducia, abulia e preventiva diffidenza verso i percorsi decisionali e la dimensione stessa del potere costituito3. È proprio in un contesto così complesso e contraddittorio che, in maniera inaspettata, e forse provvidenziale, con un colpo di scena, torna alla ribalta la più negletta fra le sorelle della nostra «triade» di valori. La fraternità. A porla con forza all’attenzione è stata certamente l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti che riprende il modo che usava il poverello di Assisi «per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle»4 ed evoca, per porre rimedio ad asperità e conflitti dei nostri tempi, l’immagine di «un cuore aperto al mondo intero»5. L’auspicio è quello di un moto di empatia che, per la verità, oltre che agli uomini e alle donne di tutte le latitudini e di tutte le culture sembra essere rivolto all’intero arco dei viventi (al «vivente non umano», lo definiva Pietro Ingrao) e alla natura, piagata dalle devastazioni di carattere ambientale (secondo la Laudato si’). In ogni caso, l’amore fraterno così inteso non può essere rivolto o riservato solo a chi condivide la nostra stessa fede religiosa o visione filosofica o credo politico o che appartenga alla nostra comunità o etnia. Vuol dire che si tratta di un amore «aperto» a tutti gli uomini e donne (che parlano, a loro volta di sorellanza, per tutelare la loro specificità di genere) del pianeta. Uomini e donne che sono uniti, puramente e semplicemente dal condividere l’esperienza (il dono si potrebbe anche dire) della vita e dallo sperimentarne insieme, aspetti positivi e bellezza, ma anche i limiti di fondo: la fragilità, la provvisorietà, la finitezza. È anche dalla percezione della nostra, comune e universale fragilità, che potrebbe nascere la fraternità. Naturalmente, si tratta di un vasto programma, come si direbbe.
Se Romolo uccide Remo
Nel cuore dell’uomo, e anche nella collettiva pulsione vitale che anima le civiltà, lo sappiamo, c’è l’Eros, ma c’è anche il Thanatos6. Nel mondo c’è il conflitto. Come rendere i conflitti (in sé ineliminabili, a meno di non coltivare un disegno totalizzante per il controllo della realtà) non distruttivi e non destinati ad un ineluttabile esito militare e guerresco sarebbe una bella scommessa. Sarebbe, questo, in realtà, il ruolo dell’ONU. Ma l’ONU (che, comunque, beninteso, va sostenuta e difesa) è lontana da una sua riforma e dallo svolgimento adeguato dei compiti per cui era nata. E poi, nelle relazioni fra individui, popoli, religioni, culture e civiltà, tornano spesso a porsi le tradizionali, e proverbiali questioni di carattere fondamentalmente antropologico. Per cui la fraternità è, certamente, una dimensione preziosa, se bene intesa e coltivata, e curata come un dono da proteggere. Ma può essere anche fonte primaria di divisione, contrapposizioni, lacerazioni anche sanguinose. I fratelli, a volte, sono «coltelli». E i parenti, tra loro, in qualche caso, hanno rapporti da «serpenti». Una grande civiltà come quella romana ha il suo mito fondativo nell’atto omicida con cui Romolo elimina Remo. Il fratello. Fra le immagini archetipiche dell’umanità c’è quella biblica di Abele, mite e indifeso, soppresso dall’invidioso fratello Caino. Un’immagine che sembra continuare ad incombere sulle travagliate vicende umane della storia. L’unica che sembrava non averla presente (mi sia consentito il racconto di un aneddoto con un benevolo sorriso), anni fa, era una studentessa (peraltro brava, ma connotata culturalmente da un’educazione legittimamente molto secolarizzata e aliena da riferimenti religiosi) che, rimasta perplessa di fronte al titolo di un tema d’esame, chiese: «Professore, ma chi erano Caino e Abele?». Stupefatto, le dissi in due parole, e sottovoce, di quel primordiale atto con cui il fratello uccide il fratello. Al che, lei, inorridita, incalzò, chiedendo ancora, con gli occhi sgranati: «Ha ucciso il fratello? E perché?». Già, perché? Una domanda che scavalca i secoli e che dovrebbe scavare nelle coscienze. Perché esseri umani, tutti quanti con un destino precario e provvisorio, si contrappongono gli uni agli altri in un confronto che ha come posta la vita e la morte? E perché questo accade ancora nei nostri avanzatissimi, e ipertecnologici, anni Duemila? Forse, risposta non c’è, come suggeriva il celebre motivo di Bob Dylan che è ormai simbolo di un’epoca. Continua a non aver pace l’«aiuola che ci fa tanto feroci»7.
Pensatori «planetari»
Eppure, proprio per questo, la fraternità, la riscoperta del lato buono della condizione dell’essere fratelli e sorelle nell’unica comunità di destini che è ormai il pianeta terra, è forse una carta essenziale nella partita in cui è in gioco la convivenza fra le (o forse, addirittura, la sopravvivenza delle) tribù della terra8. È, questa, la lezione dei pensatori «planetari», come Balducci e come Edgar Morin, di cui di recente sono stati festeggiati i cento anni di vita ben spesa9. La fraternità è il cuore del messaggio cristiano ed è anche la laicissima istanza invocata e alzata come bandiera da illuministi e rivoluzionari parigini dopo il «glorioso Ottantanove». Si tratta di un principio che ha però, sia ben chiaro, ben poche possibilità di affermarsi in un mondo in cui non sia difesa ed estesa la libertà ed in cui non sia nuovamente posta all’ordine del giorno la sua connessione con il tema dell’uguaglianza (mentre, come è stato scritto anche in questo volume, di reale, spesso, non ci sono che le disuguaglianze). Non è, allora, azzardato affermare che una tale triade di valori, nella sua inscindibilità, sarebbe da porre oggi di nuovo all’ordine del giorno nel nostro tempo della complessità. In un mondo così denso di (talora sconvolgenti) novità, il nostro destino (e nostro compito) è, forse, proprio quello di riscoprire che il futuro ha un «cuore antico»10.
1 V. in prop. 1948-2018: diritti umani in cammino, Volume monografico speciale di «Testimonianze», nn. 521-522 (a cura di F. Comina, S. Saccardi, S. Siliani e S. Zani).
2 Sono temi con cui «Testimonianze» si va misurando da tempo. Così ad es. già nel volume n. 392 (il primo, per inciso, della «nuova serie» della rivista) del Marzo-Aprile 1997, con una sezione monotematica su Il fascino ambivalente del villaggio globale (con interventi di M. Ceruti, E. Morin, S. Latouche, B. Zarmandili, S. Saccardi).
3 V. in prop. Il «mondo nuovo» e la metamorfosi della politica (Sez. monotematica a cura di S. Saccardi e S. Siliani), «Testimonianze», n. 520.
4 Papa Francesco, Fratelli tutti, Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2020, p. 29.
5 Ivi. È il titolo medesimo del capitolo quarto, a p. 127.
6 V. in prop., tra l’altro, Eros e Agape negli anni Duemila (Sez. monotematica a cura di E. Brovedani, P. Del Pasqua, S. Saccardi e S. Siliani), «Testimonianze», nn. 498-499. E si veda soprattutto il «classico» e mai troppo ricordato, Riflessioni a due sulle sorti del mondo, di A. Einstein e S. Freud, con prefazione di E. Balducci, Bollati Boringhieri, Milano 1989.
7 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXII, 151.
8 V. in prop. E. Balducci, Le tribù della terra. Orizzonte 2000, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1991.
9 V. Cento Edgar Morin. Cento firme italiane per i 100 anni di un grande pensatore planetario (a cura di M. Ceruti), Mimesis, Sesto S. Giovanni 2021.
10 Il futuro ha un cuore antico è il titolo di un testo di Ernesto Balducci riportato nel libro dei suoi scritti «amiatini» (E. Balducci, Il sogno di una cosa, a cura di L. Niccolai, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1993).