di Riccardo Noury
Nel periodo 2020-2021, durante il quale il coronavirus ha fatto nel mondo milioni di vittime, Amnesty International ha denunciato anche una continua strage dei diritti (non solo del diritto alla salute, particolarmente colpito durante la pandemia). Si sono registrati maltrattamenti e torture, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, arresti di persone perseguitate in base all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Emblematico il caso di Patrick Zaki, immotivatamente detenuto da mesi nelle carceri egiziane per un reato di opinione. L’unica nota positiva è la grande mobilitazione della società civile, che segnala come la situazione del giovane ricercatore riguardi tutti noi.
Il nero periodo 2020-2021
Il 2020 ha visto una strage continua del diritto alla salute in ogni parte del mondo. La pandemia ha colpito duramente e in modo sproporzionato gruppi vulnerabili anche a causa di politiche economiche e sociali che, già nello scorso decennio, avevano creato emarginazione e povertà e favorito, in nome dell’austerità, lo smantellamento di servizi fondamentali come quello della sanità pubblica.
Leadership già dimostratesi inadeguate – come quelle di Trump negli USA, di Bolsonaro in Brasile e di Modi in India – hanno dato il peggio di sé proprio durante l’emergenza sanitaria globale, mentre molti altri governi hanno approfittato della pandemia per approvare leggi liberticide, liberarsi di oppositori e colpire giornalisti e operatori sanitari che denunciavano l’inadeguatezza delle politiche di contrasto alla diffusione del Covid-19.
Nella prima metà del 2021 sono proseguite vecchie crisi dei diritti umani e ne sono sorte di nuove. Le politiche europee di contrasto all’immigrazione hanno causato un numero record di annegamenti nel Mediterraneo e nonostante questo il Parlamento italiano ha confermato il finanziamento della missione in Libia, dando così ulteriore prova che essere complici di crimini di diritto internazionale – quali quelli commessi dalla cosiddetta guardia costiera libica – non è particolare fonte di imbarazzo.
Dopo un anno di applicazione della Legge sulla sicurezza nazionale, Hong Kong è diventata un deserto dei diritti umani, sempre più somigliante alla Cina continentale. La prima condanna ai sensi della suddetta legislazione, emessa il 27 luglio 2021, ha segnato l’inizio della fine della libertà d’espressione.
Sono emerse prove sempre più terrificanti sull’impatto del conflitto del Tigrai nei confronti della popolazione civile, ad opera delle forze armate federali dell’Etiopia sostenute dall’esercito eritreo. Ancora una volta, l’incidenza della violenza sessuale ha confermato che lo stupro è considerato una micidiale arma di guerra.
L’elezione alla presidenza dell’Iran di Ebrahim Raisi, un uomo che dovrebbe rispondere alla giustizia internazionale di crimini contro l’umanità, non promette niente di buono. Così come nell’autunno del 2019, nell’estate del 2021 le forze di sicurezza sono tornate a sparare contro i loro cittadini, nella provincia del Khuzestan, dove le persone in strada chiedevano semplicemente acqua potabile.
Richieste di una società più giusta si sono levate dalle manifestazioni di massa che, a partire dal 28 aprile, hanno interessato tutta la Colombia. La risposta del Governo si è basata sul dispiegamento dell’esercito e dei reparti speciali antisommossa della polizia che, spalleggiati da gruppi di civili armati – tragico segnale che il paramilitarismo non è mai morto – hanno ucciso, ferito e torturato manifestanti pacifici.
Una risposta repressiva è arrivata anche dal Governo di Cuba, di fronte a proteste pacifiche che chiedevano un contrasto più efficace alla pandemia da Covid-19. Si sono ribellati anche i giovani dell’ultima monarchia africana, quella di Eswatini, e anche in questo caso la risposta del Governo è stata violenta.
La «quarta guerra di Gaza» ha seguito lo stesso schema delle precedenti: provocazione da parte di Israele, lancio di razzi da Gaza, rappresaglia israeliana, cessate il fuoco promosso dall’Egitto, ricostruzione pagata dal Qatar.
L’elemento nuovo, se possibile ancora più preoccupante, è stata e rimane la violenza intercomunitaria, all’interno di Israele, tra cittadini ebrei israeliani e cittadini palestinesi israeliani.
Anche in Asia c’è stato un fatto purtroppo ricorrente: il colpo di stato del 1 febbraio in Myanmar, che ha provocato centinaia di morti e migliaia di arresti e torture. Mentre proseguivano, dimenticati, i vari «conflitti etnici», nelle principali città birmane l’esercito golpista ha sparato contro i suoi cittadini, soprattutto i giovani: utilizzando peraltro anche proiettili made in Italy, finiti in suo possesso attraverso oscure triangolazioni.
Il Rapporto di Amnesty International
Insomma, lo stato delle libertà nel mondo è pericolosamente fragile. Lo dicono, nel modo più chiaro possibile, i dati resi noti da Amnesty International in occasione della pubblicazione del suo Rapporto 2020-2021 (Infinito Edizioni): maltrattamenti e torture in quasi 90 paesi, in almeno 41 dei quali con esiti mortali; sparizioni forzate in almeno 40 paesi; esecuzioni extragiudiziali in almeno 46 paesi; arresti basati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere in almeno 42 paesi.
C’è poi il dato dei dati, quello rivelatore della propensione di molti governi a criminalizzare il dissenso e le opinioni critiche: prigionieri di coscienza (quelli per i quali Amnesty International sin dall’anno di fondazione, il 1961, iniziò ad agire) sono stati detenuti in oltre 50 paesi, 53 per l’esattezza.
Sta circolando in questi mesi in Italia una mostra composta da 50 ritratti, disegnati dall’artista Gianluca Costantini, di prigionieri di coscienza di una ventina di paesi tra i quali Bielorussia, Cina, Turchia, Iran, Russia, Arabia Saudita, Cuba ed Egitto.
Ad aprire la mostra è il ritratto di colui che è diventato il simbolo della dissidenza: il ricercatore egiziano e studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki.
Nel momento in cui scrivo, alla fine del luglio 2021, Patrick si avvicina a superare un anno e mezzo di carcere senza processo e senza possibilità di difendersi. Ufficialmente è accusato di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Si tratta di accuse «copia e incolla» mosse nei confronti di centinaia se non migliaia di prigionieri di coscienza: attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani, giornalisti, blogger, parlamentari, docenti universitari «colpevoli» di aver espresso critiche nei confronti del Governo. Le condizioni di salute di Patrick sono precarie. Il suo fisico è fiaccato da mesi di detenzione durissima, in una prigione – quella di Tora, alla periferia del Cairo, nota per il sovraffollamento, le carenze di natura igienico-sanitaria e la pratica della tortura come strumento di punizione – dove il Covid-19 è entrato e ha fatto vittime.
Non è stato ancora vaccinato nonostante, a causa di un’asma bronchiale, sia un soggetto particolarmente a rischio di contagio. Lo stato d’animo di Patrick è quello di un ragazzo strappato ai suoi sogni, ai suoi progetti accademici e alla sua città adottiva, dove non sa quando potrà tornare. I sentimenti dominanti sono rimpianto, rimorso, paura del futuro. La procedura egiziana prevede che la detenzione preventiva possa arrivare a 24 mesi al termine dei quali sempre più spesso i prigionieri, anziché essere rilasciati, vengono iscritti a una nuova indagine e il conto si azzera.
Un atteggiamento accondiscendente di fronte a regimi illiberali
Tutti coloro che dall’8 febbraio 2020 sostengono con costanza, emozione e generosità la campagna #FreePatrickZaki sanno benissimo quanto quell’obiettivo, il suo ritorno in libertà, sia urgentemente necessario.
Nei palazzi del Governo italiano, quella consapevolezza non c’è. O se c’è, è cinicamente posta in secondo piano.
Patrick è stato al centro di due sedute parlamentari: l’ultima il 6 luglio alla Camera dei deputati, la prima il 14 aprile al Senato. In entrambe le occasioni sono state pronunciate parole importanti – indimenticabili quelle della senatrice a vita Liliana Segre, giunta appositamente a Roma per perorare la causa del suo «nipotino», come lo definì – e in entrambe le occasioni il Parlamento ha chiesto al Governo Draghi di avviare le verifiche per il conferimento della cittadinanza italiana e per attivare un negoziato bilaterale con l’Egitto ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
Ma da palazzo Chigi sono giunte parole d’ordine che purtroppo siamo abituati a sentire troppo spesso: silenzio, cautela, dialogo. Silenzio per non peggiorare la situazione, cautela nel non prendere decisioni affrettate, dialogo con quello che l’ex ministro degli Affari esteri Angelino Alfano definì nell’estate 2017, al momento di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo, «il nostro partner ineludibile»: il presidente egiziano Abdelfattah al-Sisi.
La strategia basata su quelle parole d’ordine, oltre a vilificare l’azione del Parlamento, è risultata del tutto inefficace. Le autorità egiziane continuano a intensificare la repressione – la storia gemella di Patrick, quella dello studente dell’Università centrale europea di Vienna Ahmed Samir Santawy sta andando persino peggio, con una prima condanna inappellabile a quattro anni e una seconda indagine ancora in corso – mentre dal Governo italiano non arriva il minimo segnale di malcontento.
Non una volta, dall’inizio della detenzione di Patrick, il ministero degli Esteri ha pensato di convocare l’ambasciatore egiziano – davanti alla cui sede, per otto settimane consecutive da settembre a ottobre 2020, Amnesty International ha sostato per cercare di consegnargli centinaia di migliaia di firme, poi trasmesse con un corriere – per esprimere preoccupazione per la situazione.
Ci si è limitati ad applicare il meccanismo di monitoraggio dell’Unione europea per seguire i procedimenti giudiziari nei paesi terzi: mandare osservatori dalle rappresentanze diplomatiche al Cairo, fare capolino per vedere che succede per poi comunicare l’esito negativo dell’udienza e tacere per i successivi 45 giorni, fino all’udienza successiva. Del resto, un Governo che nei giorni dispari sussurra, magari costretto dalle domande dei giornalisti, qualcosa di generico sui diritti umani e che nei giorni pari invia forniture militari, consolida i rapporti commerciali e scambia compiaciute visite ad alto livello, oltre a mostrare un’evidente incoerenza non fa altro che inviare al Governo egiziano un segnale di via libera.
La vicenda di Patrick Zaki, oltre che della sempre più marcata intenzione di ridurre al silenzio (con l’eliminazione fisica o col carcere) le voci critiche, l’attivismo per i diritti, il giornalismo indipendente e la ricerca, lo è anche del ruolo secondario che i diritti umani occupano nelle relazioni bilaterali. Le righe precedenti raccontano esattamente questo: l’approccio supino, accondiscendente di fronte a regimi che violano impunemente i diritti umani.
Una storia che riguarda tutti
Lo è, però, anche di un aspetto positivo: della straordinaria capacità delle opinioni pubbliche e delle società civili di fare rete, di mobilitarsi. La campagna #FreePatrickZaki si è diffusa come i circoli, sempre più ampi, prodotti da un sasso lanciato in acqua. Partita da Bologna, dai colleghi e dai docenti dell’Università e abbracciata presto dall’intera città e dalle istituzioni locali, la campagna si è estesa alla Regione Emilia-Romagna e poi via via all’Italia intera e all’estero. Ha coinvolto associazioni, giornalisti, parlamentari, scrittori, tantissime scuole e soprattutto centinaia di migliaia di persone comuni. Ha spinto decine e decine di amministrazioni locali a conferire a Patrick la cittadinanza onoraria. Il disegno iconico del volto di Patrick, realizzato dall’artista Gianluca Costantini, è comparso ovunque: gigantografie, murales, magliette, aquiloni, balconi privati e affacci istituzionali. Le sagome prodotte a partire da quel disegno hanno riempito sale cinematografiche, palchi, teatri, aule universitarie e comunali e mille altri luoghi. Tutto questo a voler ribadire una cosa importante: quella di Patrick è anche una storia italiana, che riguarda tutte e tutti noi. Patrick si è affidato all’Italia per un progetto accademico conquistato con mesi di duro studio e, chissà, forse anche per un progetto di vita. È stato adottato dall’ambiente universitario e dalla città di Bologna, e poi dall’intero Paese. L’identificazione è immediata: quel suo volto paffuto, bonario e innocente potrebbe essere il volto di chiunque di noi.
È proprio l’identificazione con le persone indifese e vulnerabili a far sperare che si possa contrastare una serie di narrazioni «tossiche» di questi anni: che i diritti non sono per tutti, che non sono innati ma si meritano comportandosi bene (da cui una delle conseguenze è che i detenuti, che per il fatto di essere in carcere qualcosa di male avranno fatto, non meritano diritti e possono essere torturati).
È quella identificazione che spinge tantissime persone a compiere un atto che è di grande coraggio e resistenza: respingere i tentativi di spostare nel codice penale parole nobili (solidarietà, soccorso, compassione, aiuto) che fanno parte, e dovranno continuare a far parte, del vocabolario del bene, del bello e del giusto.