di Severino Saccardi
È un capitolo importante della storia recente del nostro Paese, quello del dialogo fra cattolici e sinistra marxista (che aveva evidentemente la sua espressione più rilevante nel PCI).
Una storia che è stata molto significativa a livello politico e nel dibattito culturale, ma anche nella dimensione del vissuto popolare (interessante, soprattutto, per i tocchi di umanità che vi si possono ravvisare). Di quella vicenda si devono riconoscere anche contraddizioni e limiti (come la scarsa comprensione, da parte di alcuni importanti protagonisti, della non riformabilità di un mondo politico travolto dal crollo del Muro), ma vanno, certamente, valorizzate intuizioni feconde (come la premura per gli ultimi e la cultura della solidarietà) che sono linfa vitale anche per l’impegno comune di credenti e non credenti nel «mondo globale».
Il «gemito della creatura oppressa»
Cattolici, Sinistra, PCI: memoria e lezione di un «dialogo alla prova1. Una questione di cui si potrebbe parlare partendo da lontano. Dal fraintendimento spesso operato del pensiero stesso di Marx. Che diceva che la religione è l’«oppio del popolo» ma sottolineava anche che essa è il «gemito della creatura oppressa». Cioè che in essa si esprime, sia pure (secondo lui) in modo alienato e distorto, un anelito di riscatto e di pienezza che non può essere ignorato. Che le cose fossero, in merito, più complesse di come spesso le si rappresentava lo sospettava perfino Lenin. Che pure sulla necessità di una politica antireligiosa aveva pochi dubbi2. Eppure, era stato proprio Lenin, incidentalmente a far notare che il fenomeno religioso non può essere interpretato in maniera semplicistica. L’origine dell’alienazione religiosa non risiederebbe solo in motivi di ordine economico e sociale, ma anche nello schiacciamento dell’uomo da parte della natura e nel problema della morte. Pare quasi di udire accenti leopardiani o schopenhaueriani. Ma, venendo al «caso Italia», la vera svolta sul tema, nell’ambito del pensiero marxista, si realizza con Gramsci. È quello che notano anche molti degli autori di questo volume (che vanno, tutti, ringraziati per i loro contributi, le loro riflessioni, il racconto di significative esperienze). È Gramsci a comprendere che in un Paese con le tradizioni culturali e religiose dell’Italia, la «questione cattolica» deve essere affrontata con intelligenza, apertura e al di fuori di ogni dogmatismo. Poi, con il Paese che si avvia ad uscire dalla guerra e dal fascismo, nasce il «partito nuovo». Togliatti sa benissimo che un partito che voglia avere una dimensione di massa deve affrontare, e porre anzi in primo piano, il tema del rapporto con l’istituzione Chiesa (cui vanno date garanzie) e con il popolo cristiano (con le «masse cattoliche» come si diceva). Già con la guerra ancora in corso, il 21 Luglio 1944, Alcide De Gasperi, dialogando a distanza con Togliatti (che aveva parlato nello stesso Teatro Brancaccio dieci giorni prima), aveva dato atto al leader comunista di aver formulato «una dichiarazione di rispetto per la fede cattolica della maggioranza degli italiani» con la speranza che «nella pratica tutto il partito ne tirerà le conseguenze»3. È una linea cui il partito togliattiano (avviato, certamente su quella strada anche con l’iniziale consenso di Stalin, realisticamente ben consapevole delle conseguenze della divisione dell’Europa in Blocchi) sembra puntualmente attenersi. Viene stabilito che al PCI, che pure ha una matrice marxista-leninista, si aderisce non per un’opzione ideologica, ma per la condivisione al programma politico.
Un santo al Cremlino
E Togliatti, attirandosi le critiche di liberalsocialisti e laicisti, sostiene anche l’approvazione dell’art. 7 della Costituzione, che recepisce i Patti Lateranensi (la cui revisione verrà poi attuata dal Governo Craxi nel 1984). Per le liste comuniste votano anche molti credenti. Tanto è vero che non sembrerà affatto una battuta dire, con molta verosimiglianza, che il PCI si stava avviando ad essere il «secondo partito cattolico d’Italia». Nel popolo, uscito dalla guerra, provato da molte sofferenze, eppure animato dalla voglia di ricostruire, convivono molti sentimenti: l’anticlericalismo e la diffidenza per una Chiesa troppo prossima al potere si mescolano (magari nell’intimo delle medesime persone) alla religiosità popolare, ad una certa pratica devozionale e all’attaccamento ai riti dei padri. È un’identità complessa e composita che verrà, presto, sottoposta a prove e lacerazioni. I riferimenti storici sono noti: la rottura (nel 1947) dell’unità di governo fra i partiti della Costituente, con la separazione della DC dalle forze di sinistra, e la scomunica dei comunisti da parte della Chiesa (nel 1948). Un passaggio, questo, che ferì, certamente, la sensibilità di molti e che inquietò le coscienze di quanti erano divisi fra l’identificazione nel Partito e la fedeltà alla Chiesa. Che era la Chiesa «di ferro» di papa Pacelli, lontana dalla distinzione fra «errore» ed «errante» che caratterizzerà il pontificato giovanneo. Va peraltro riconosciuto che i sostenitori della intransigenza ecclesiale potevano portare buoni argomenti per sottolineare che oltre-cortina di rispetto della libertà di coscienza (libertà religiosa in primis) non si vedeva neppure l’ombra. Dall’«altra parte», fino al 1953, l’interlocutore era Stalin (con i regimi affiliati) e anche, dopo, con il «disgelo» kruscioviano, la situazione, in merito alla libertà religiosa, non è che migliorò tantissimo. Tanto è vero che, anche il dialogante Giorgio La Pira, quando si recò a Mosca nel 1961 chiese ai sovietici di «sotterrare il cadavere dell’ateismo di stato»4. La contrapposizione ideologica della «guerra fredda» spaccava comunità, divideva famiglie, faceva litigare gli amici.
Tocchi di umanità
Ma naturalmente non mancavano tocchi di umanità che temperavano l’astio reciproco e ricreavano, nel quotidiano, spazi di condivisione e solidarietà. Il mio babbo (sulla cui esperienza di vita di militante comunista, che mai si era però distaccato dalla fede cattolica, ho avuto già modo di raccontare qualche aneddoto significativo) confidava che uno dei suoi migliori amici era un fabbro ferraio di nome Galante. Grande lavoratore. Democristiano. Del quale rispettava la tempra e la specchiata onestà. Piccoli episodi che riflettono però la fisionomia e il modo di essere di un popolo che poteva dividersi e spaccarsi, ma anche ritrovare un impulso unitario di fronte alle emergenze e alle difficoltà della vita. Con il passare degli anni la cultura del dialogo, intanto, faceva molti passi avanti. Non ripercorrerò le tappe e i passaggi che sono stati benissimo illustrati dai tanti amici che a questo volume hanno contribuito con i loro testi e le loro idee. Un risalto particolare mi pare opportuno dare (come benissimo ha fatto Mauro Sbordoni) al «caso Firenze». Firenze è non solo la città di sindaci come Fabiani (comunista), La Pira (cattolico, eletto con i voti democristiani) o, anche, più tardi Gabbuggiani (comunista, che negli anni Settanta, in spirito di libertà, ricevette la moglie di Andrei Sacharov e organizzò un Convegno sul «dissenso» all’Est). È stata, in decenni cruciali della storia del Novecento un autentico laboratorio politico-culturale, in cui dirigenti politici o intellettuali delle diverse aree (cattolici, marxisti, liberal-socialisti) non vivevano chiusi in comparti stagni, come allora si usava, ma cercavano vie nuove di incontro e comunicazione. In tempi in cui si alzavano muri, lì si cercava di costruire ponti. È in questo clima che nacquero, in aree culturali diverse, ma con analoghi intenti, riviste come «Il ponte» e «Testimonianze». È a Firenze dopo tutto (come ricostruisce Piero Meucci) che Mario Gozzini (che, nel suo impegno, verrà instancabilmente affiancato da Giampaolo Meucci) cura e pubblica un libro-simbolo come Il dialogo alla prova.
La grande alluvione
E poi ci fu il momento drammatico della prova della grande alluvione5 del 1966. Quando, come scrisse Ernesto Balducci, Firenze avrebbe potuto «non esserci più»6. Ma Firenze sopravvisse e dette, pur in mezzo alla devastazione e al fango, come la storia attesta, una grande prova di sé. Il mondo le si strinse attorno. E la città, armata di vanghe per spalare via la melma, attraversata da frotte di volontari e gruppi di soccorso, rianimata dall’ardore buono di giovani che mettevano in salvo e pulivano i libri, mostrò una gran voglia di rinascere, dette voce corale ad un desiderio di vita nuova e di resurrezione7. Soprattutto, come è giusto tornare a sottolineare, fu in quel frangente che barriere ideologiche e muri sembrano crollare. Si costituirono comitati di base e comitati di quartiere. E insieme collaboravano case del popolo e parrocchie, Pubblica Assistenza e Misericordia, credenti e non credenti, comunisti, cattolici e socialisti. Il dialogo alla prova ebbe l’occasione, in un’emergenza di carattere epocale per l’intera comunità cittadina, di venire sperimentato sul campo. Una stagione che darà i suoi frutti e che lascerà il segno. E poi, per Firenze e per il resto del Paese verranno gli anni Settanta. «Questione comunista» e «questione cattolica» sono accostate più che mai, al centro di un dibattito, ma in un modo diverso.
I «cristiani per il socialismo» e l’ironia di un cameriere
Ci sono credenti che, rimettendo in discussione collateralismo (v. Parenti sulle ACLI) e «unità politica dei cattolici» scelgono apertamente l’appartenenza alla sinistra. Non solo al PCI, ma come ricordano Valdo Spini e Marco Boato, anche al PSI o alle formazioni della «nuova sinistra». Si veda, in questo senso, il «caso Magri» (ricordato da P. Bucciarelli); ma, per quanto riguarda «Il manifesto», potrebbe essere citata, naturalmente, anche Lidia Menapace. Ci fu anche un movimento che (rispettando la pluralità delle appartenenze a sinistra) prese il nome di «Cristiani per il socialismo». Una denominazione che oggi potrebbe forse essere criticata per l’esplicito rimando all’appartenenza di fede e, dunque, per l’insufficiente laicità. Ma il movimento fu, comunque, importante. E rappresentò una novità. Ricordo, sul filo della memoria personale, la volta in cui (forse nell’anno 1973), a Bologna, reduce da un Convegno, mi fermai a mangiare in una trattoria e vidi lo stupore dipingersi sulla faccia del cameriere nel vedermi appuntata sulla camicia la targhetta con quella scritta. «Cristiani per il socialismo». Con il suo simpatico accento emiliano, in modo scherzoso mi fece notare: «Sa, sono due cose che non stanno mica tanto insieme!». Lenin, a suo tempo, sarebbe sicuramente stato d’accordo. Era sua convinzione che un «socialista cristiano» non potesse essere altro che una contraddizione vivente: sinonimo o di un socialista che è avviato verso la conversione religiosa, o di un cristiano che sta per abbandonare la fede per aderire al movimento operaio. Ma i tempi cambiano. E, tornando alla nostra storia, è proprio a partire dall’anno 1973, dopo il colpo di stato di Pinochet, che del rapporto comunisti-cattolici si parla in termini nuovi. Come incontro diretto fra le grandi forze popolari. È la proposta di Berlinguer che ipotizza la necessità di una maggioranza ben superiore al cinquanta per cento per governare (senza rischi autoritari) un Paese complesso come l’Italia. Va detto che l’idea di una collaborazione diretta tra Dc e PCI (che, in termini diversi, avrebbe poi coltivato anche Aldo Moro, negli anni precedenti il suo drammatico rapimento e poi il suo assassinio da parte delle BR) inquietò, per certi versi, una forza «intermedia» come il PSI (che reagì con il «nuovo corso» di Bettino Craxi), ma anche non pochi settori del mondo cattolico democratico. Non mancavano i credenti che, dopo aver teorizzato o praticato la rottura con la DC, temevano l’effetto schiacciamento o soffocamento derivante dall’ipotizzato abbraccio fra i due partiti di massa. A «Testimonianze» (sul cui ambiente negli anni Settanta hanno, così bene, dato voce ai loro ricordi Emma Fattorini e Mario Lancisi) si era maggioritariamente, per quel che potevo leggere e per quel che me ne raccontava Lodovico Grassi, a favore del Compromesso storico. Con una lettura, però, di tale strategia vista in una dimensione non piattamente politicistica e legata al solo patto fra partiti, bensì fondata su una rigenerazione culturale di ampio respiro delle relazioni sociali e sul non disconoscimento delle esperienze di base. Una visione articolata, insomma, in difesa della quale, ricordo, il direttore della rivista di allora, il compianto Luciano Martini, scrisse un lungo testo in un paginone del «manifesto» che naturalmente quelle posizioni criticava «da sinistra».
Quella Domenica alla Badia
Le cose, comunque, si muovevano. Ho il ricordo personale di una domenica del 1976 in cui mi sono recato a Badia Fiesolana per salutare Ernesto Balducci (che avevo conosciuto di persona un paio di anni prima) e sono stato involontario testimone dell’avvio della riunione in cui fu sostanzialmente «benedetta» l’operazione del varo della «sinistra indipendente», cioè dell’elezione in Parlamento, con il sostegno del PCI, di un significativo gruppo di personalità del «mondo cattolico». Mario Gozzini, Raniero La Valle, Adriano Ossicini, Elia Lazzari (e successivamente, anche Pierluigi Onorato). Con la «sinistra indipendente» avrà stretti rapporti, tra l’altro, in quegli anni, anche «Testimonianze», pur mantenendo la sua autonomia e il suo pluralismo interno. Intanto, il dibattito si approfondisce. Nel rapporto credenti-non credenti vengono messi a fuoco (nello storico carteggio Bettazzi-Berlinguer, qui da molti ricordato) i temi della condivisione, della premura per il bene comune e, soprattutto, della laicità della politica. A mons. Luigi Bettazzi un grande «grazie» per avere (nell’intervista che pubblichiamo) ricordato con grande lucidità quei momenti, il senso di quello scambio e della lezione che anche, per l’oggi, ne possiamo ricavare. Su come poi è andata la storia (una storia che, spesso, però, le generazioni più giovani non conoscono) non è il caso di soffermarsi a lungo. Con la fine drammatica di Moro, la conclusione della stagione del «compromesso storico», il travaglio di un Paese piagato dal terrorismo (che comunque è stato sconfitto) e dallo stragismo e insidiato da trame oscure e intrighi di potere e di palazzo. Eppure, a seguire, gli anni Ottanta sono stati anche gli anni dei grandi movimenti per la pace e per i diritti umani e dell’elaborazione di una nuova visione dell’«uomo planetario» (cui Balducci ha saputo dar voce).
Ma sono anche gli anni in cui un mondo si avvia a finire. Il dibattito lacerante della sinistra in quegli anni ne è la spia. Le acquisizioni nuove della politica del PCI (con lo «strappo» di Berlinguer e la proclamazione della democrazia come valore universale) non possono certo mettervi un argine. Troppo a lungo sono andati avanti, pur nell’originalità dell’impostazione e nella crescente autonomia del Partito Comunista Italiano, i legami con un mondo (quello del «socialismo reale») incapace di autoriformarsi. Non aver percepito, o non aver voluto percepire, tale incapacità (o impossibilità) di autoriforma è stato evidentemente uno dei limiti dei comunisti italiani.
E anche (e forse ancor di più) di non pochi «cattolici di sinistra» che, una volta approdati ad una nuova dimensione di militanza e di appartenenza, forse meno di altri erano pronti a vederne limiti e contraddizioni. In ogni caso, è certo che su un’auspicabile trasformazione del «socialismo realizzato», oltreché sull’interlocuzione o l’incontro con gli atipici comunisti di casa nostra, avessero strategicamente puntato, al di là della diversità dei percorsi intrapresi, molte personalità del mondo cattolico, da La Pira a Gozzini e La Valle. In questo senso, gli anni ottanta (con un incalzare di avvenimenti e con un dibattito che si fa lacerante) annunciano, e l’Ottantanove e il crollo del Muro segnano un effettivo passaggio d’epoca.
Tutto cambia
Tutto cambia. Mi è capitato di ricordare più di una volta quel che dissero in merito un credente come Ernesto Balducci (che salutò le rivoluzioni nonviolente e «neo gandhiane» dell’Europa centro-orientale e il crollo del Muro, ricordando però che restava da abbattere il «muro maestro» della divisione fra Nord e Sud del mondo) e un pensatore «laico» come Norberto Bobbio. Il quale fece notare che, adesso che il totalitarismo comunista era stato sconfitto, la democrazia avrebbe dovuto farsi carico dei problemi per risolvere i quali il comunismo era pur nato. Parole sulle quali ancor oggi molto ci sarebbe da meditare.
E della stagione del «dialogo», si dirà, che cosa resta? Resta una memoria importante da ricostruire e da consegnare alla conoscenza delle generazioni nuove. E rimane il ricordo di esperienze generose e di figure luminose come quella (di cui parla con riconoscente affetto Luano Fattorini) di mons. Ablondi. È una vicenda storica che può essere riletta a più livelli. A livello politico. Sul piano della riflessione intellettuale di pensatori, realtà culturali riviste. E anche, se non soprattutto, in relazione al vissuto popolare, in cui, come precedentemente sottolineato, conviveva spesso una pluralità di istanze che laceravano, incalzavano o illuminavano le coscienze e le relazioni fra gruppi e individui. Antropologicamente, è questo forse l’aspetto più importante, che sarebbe importante ripensare in un tempo come il nostro, caratterizzato spesso da un «materialismo pratico» (che niente ha a che vedere con il materialismo filosofico) legato al dominio e all’idolatria del consumo e delle cose. Il mondo è cambiato. Viviamo ormai in un’altra epoca. Ma molti problemi (di carattere sociale, etico, ambientale, relazionale) aspettano ancora di essere affrontati e risolti. Questo è dopotutto il sentire, da declinare anche in senso «laico», della predicazione di papa Francesco. Oggi che i partiti di una volta non ci sono più, che non esistono più i gravami delle ideologie, è forse davvero il caso di ripensare un percorso come quello dell’antico dialogo e incontro fra credenti (cattolici, ma anche non cattolici) e sinistra (comunista e non solo)8. Un dialogo le cui feconde intuizioni, al di là di limiti e contraddizioni, possono contribuire ad indicare una via, nei nostri anni Duemila, a credenti e non credenti per unire le forze e mettere mano ai problemi di questo tormentato «mondo globale».
1 Un tema, quello della memoria e lezione di un dialogo che è stato, fra l’altro, oggetto di un seguitissimo confronto in videoconferenza fra Vannino Chiti, Livia Turco e chi scrive che l’«Associazione 21» di Livorno ha avuto il merito di organizzare (e la cui registrazione è tuttora visibile sulla pagina Facebook dell’Associazione medesima).
2 Tra l’altro, v. in merito: G. Codevilla, Il terrore rosso sulla Russia ortodossa (1917-1925), Jaca Book, Milano 2019.
3 Dall’opuscolo edito dal quotidiano democristiano «Il Popolo» (Firenze, 1944), citato in: L. Canfora, La metamorfosi, Laterza, Bari-Roma 2021, p. 30.
4 Del viaggio di La Pira a Mosca dà un bellissimo resoconto il libro di V. Citterich, Un santo al Cremlino, Paoline, Cinisello Balsamo 1986.
5 V. in prop. La grande alluvione, volume monografico di «Testimonianze» (nn. 504-505-506), a cura di G. V. Federici, M. Meli, L. Niccolai, S. Saccardi, S. Siliani, V. Striano.
6 Dall’editoriale (da attribuire, quasi con certezza, anche se non firmato, ad E. Balducci) di «Testimonianze» del 20 Novembre 1966.
7 Tra l’altro, è in un volume di «Testimonianze» (nn. 486-487) nella sezione monotematica dedicata alle Immagini della Resurrezione per gli uomini e le donne degli anni Duemila che (in un articolo di B. D’Avanzo) viene ricordata la figura di don Luigi Rosadoni: il biblista che spalava il fango (nei giorni del dopo-alluvione).
8 V. in prop. il recente libro di V. Chiti, Il destino di un’idea e il futuro della sinistra, Guerini e Associati ed., Milano 2021, che richiama il rapporto PCI e cattolici come radice della diversità.