Togliere e dare il respiro? Sul significato di Black Lives Matter
di Letizia Oddo

La storia è «astuta» e a volte l’inatteso si materializza, come nel caso della pandemia, o, in tutt’altro senso, come in quello delle manifestazioni antirazziste in ricordo di George Floyd e in onore di tutte le vittime della violenza. Nell’abuso di potere esercitato dal poliziotto bianco verso il «negro» – originato dall’ostilità per un soggetto invisibile, ma potenzialmente eversivo e quindi da sopprimere – c’è tutta la dinamica inconscia del terrore e della paranoia verso la propria vulnerabilità che si rifugia nell’esercizio smisurato del potere. L’inginocchiarsi è il gesto simbolico, condiviso dai manifestanti, che, nel denunciare la prepotenza omicida, diviene invocazione, preghiera, che vuole unire e far vivere.

«La brava gente, nella propria innocenza e incoscienza, 
non sa cosa le stia succedendo allorché viene tramutata 
in una razza superiore» (C. G. Jung)

Sentire il respiro del cosmo 
Sentire in noi il respiro del cosmo che genera la vita e la morte, gli elementi universali che unificano il vivente. Remo Bodei, nell’ultimo libro scritto prima della sua morte, interroga il futuro con una certa inquietudine: «Quanto potranno resistere – si chiede – senza snaturarsi e diventare ideali irraggiungibili, quei valori di libertà, eguaglianza, dignità, emancipazione, umanesimo, pluralismo, misericordia, rispetto relativo per una verità non degradata a semplice opinione che hanno finora caratterizzato, seppure in linea di principio e a intermittenza, la nostra civiltà?». Dubbi e congetture, come nota Bodei, che incontrano un limite nel fatto che la storia è «astuta»: «(…) quante cose sono avvenute inaspettate e, viceversa, quante, che erano aspettate, non sono avvenute!»[1]. L’inatteso della storia, il respiro di una mobilitazione mondiale antirazzista e pluralista, si è palesato di fronte alle nostre coscienze intorbidite e frantumate, immerse nei congegni del potere capitalistico che pretende efficienza, supremazia, dove il vivente tutto è equiparato a un bene-proprietà da colonizzare, da sfruttare nell’uso strumentale della resa e del profitto. Una mentalità avida, distruttiva che ha violato gli ultimi ecosistemi intatti del pianeta, la loro storia, natura, bellezza. Una intenzionalità predatoria sempre più estesa, fino alle profondità immense del mare, del cielo, fino all’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali, all’estrazione delle risorse naturali, con lo sgombero forzato di intere popolazioni indigene nella più completa violazione dei diritti umani universali[2]. Questa società neoliberista – che vuole convertire la vita in dati, in informazioni soggette alla capacità di sorveglianza, di calcolo e previsione – è stata, invece, attraversata da un movimento che ha trovato proprio nel respiro il suo simbolo, in questo movimento del corpo che accoglie e restituisce l’aria che ci costituisce, l’aria che ci accomuna, il respiro della Terra che ci comprende.

La storia è astuta 
«Non riesco a respirare»: durante la manifestazione a Washington del 6 giugno 2020, decine di migliaia di persone si sono inginocchiate per 8 minuti e 46 secondi, il tempo dell’agonia di George Floyd, il tempo del suo omicidio. Un rito ripetuto nei cortei di protesta di tutto il mondo. Queste manifestazioni si sono svolte con la pandemia di Covid-19 in corso, rendendo i lacrimogeni e lo spray urticante lanciato dai poliziotti ancora più pericolosi, per il rischio di contagio che, gli accessi di tosse provocati dall’irritazione respiratoria, hanno comportato. Inoltre, sui manifestanti che hanno partecipato ai cortei in 15 città americane, come è risultato dai dati divulgati dal Customs and Border Protection, è stata svolta da parte del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, un’operazione estesa di sorveglianza con almeno 270 ore di riprese video effettuate da elicotteri, aerei, droni, violando il loro diritto alla privacy[3]. 
La storia è astuta! Cosa è successo? Perché questa morte, l’uccisione di un afroamericano, è stata sentita, ha commosso, ha suscitato sentimenti di rabbia, di ribellione, di cambiamento, una domanda di giustizia? Come mai, dopo due mesi di lockdown, quando il distanziamento sociale ha reso i rapporti umani sempre più dipendenti dalla realtà virtuale – irrelata, dematerializzata, transitoria – il corpo vitale, negli affetti, valori, esperienze, è tornato come simbolo unificante nel respiro di una mobilitazione, giovani, neri e bianchi uniti, nella lotta per l’uguaglianza, contro la discriminazione razziale, l’emarginazione sociale?

Un disastroso slancio prometeico 
Nella dinamica inconscia, il terrore della paranoia riconosce solo la simbiosi con il potere, la più completa dipendenza dalla forza, come garanzia onnipotente contro la propria vulnerabilità e debolezza: relazioni gerarchiche, stabili, riconoscibili. Così come avviene nell’antropologia transumana, nella ricerca biotecnologica che prevede il Mind uploading cioè il trasferimento della coscienza su un computer, oppure nei progetti di viaggi spaziali di Terraforming, come quello recente della compagnia aereospaziale privata dell’imprenditore Elon Musk SpaceX per il volo interplanetario, diretto a permettere la colonizzazione di Marte. Si tratta di prospettive volte all’accrescimento della performatività tecnologica, verso l’espansione, il predominio, nelle aspirazioni, anche, verso l’immortalità di pochi, inevitabilmente, a scapito dei molti: i meno adatti, i meno dotati. 
Questi progetti di ricerca tecnoscientifici risultano intrisi di vissuti paranoici, pervasi da temibili percezioni di depersonalizzazione e informità, che rendono incessantemente necessario riprogrammare il corpo e la mente, accrescere salute, sicurezza, ricchezza, per contrastare un senso oscuro di minaccia, di degenerazione, a cui, nella scissione psichica, si deve opporre un’azione di prefigurazione e potenziamento di sé, della propria immagine, veloce sempre più veloce, in un dissennato slancio prometeico. Il senso dell’individualità corporea e psichica, nella sua unicità, nelle sue fragilità – armonie vulnerabili, passaggi tortuosi – il dialogo con la propria interiorità – lento, contrastato – sempre più entrano in conflitto con le pretese di una società che pretende l’omologazione a un ideale di perfezione modellabile e perseguibile. Nelle parole disperate di una adolescente che si confronta con le immagini postate su Instagram: «Come faccio a essere magra e ad avere le forme?». Così un senso di insicurezza esistenziale, di precarietà, di continua esposizione al giudizio e alla svalutazione, si trovano a scontrarsi, nel conflitto psichico, con vissuti inflazionati, violenti, all’insegna di una richiesta continua, una tensione lacerante, come si esprime un paziente: «Fra un logorio, un rodermi dentro e un’esplosione. Mi so difendere come chi ha sempre aggredito». Come ci ricorda Adriano Prosperi: «Non ci si può dimenticare che l’artefatto della nostra modernità è la progettazione e la parziale realizzazione di un disegno di allucinata razionalità diretto all’eliminazione sistematica di intere società e gruppi umani. Nel momento in cui quel disegno ha assunto nei lager nazisti la sua forma più netta, il passo iniziale è stato la preliminare distruzione della coscienza di essere un individuo e di appartenere alla specie umana»[4]. 
Tendenze egemoniche, oppressive che nascono da una dinamica psichica che non riconosce il diritto alla propria né all’altrui soggettività, che deve continuamente essere soffocata in un vuoto di affetti, di relazioni autentiche, di significati. «Non riesco a concepire una emotività che non sia sguinzagliata, che stia con me», osserva in seduta un paziente. Sguinzagliare i propri sentimenti, rabbia, paura, dolore, permette di lanciarli in una caccia predatoria, per tenerli lontani, separati dalla propria consapevolezza. È spaventoso, annichilente l’automatismo dell’ideologia discriminatoria, della violenza razzista, un automatismo che nasce da un senso di estraneazione e di attrazione, il cui eco terrificante deve essere messo a tacere in una continua proiezione del male, della minaccia del contagio sui colpevoli designati. Del resto, come scrive C.G. Jung «Dietro ogni persecuzione si nasconde un amore segreto, così come dietro ogni fanatismo si cela il dubbio»[5]. Ma nei processi di rimozione la dinamica psichica, nella sua complessità e ambivalenza, intensità affettiva, non può essere sopportata, né tanto meno pensata. Bisogna ubbidire ai comandi, imporre l’ordine, colpire i bersagli, in una dipendenza fanatica da un sistema sociale che promette «ai suoi» stabilità e sicurezza. Tutto chiaro e netto. Noi contro loro.

Il «nemico interiore» 
In particolare, l’odio razzista, come scrive Achille Mbembe, deve produrre incessantemente oggetti schizofrenici: «(…) popolare e ripopolare il mondo di sostituti, di esseri da designare, da frantumare, nel disperato sostegno di un io che vien meno. Peraltro è proprio della razza o del razzismo il suscitare o generare un doppio, un sostituto, un equivalente, una maschera, un simulacro… È un’operazione dell’immaginario, il luogo d’incontro con la parte d’ombra e le regioni buie dell’inconscio»[6]. Come rileva un paziente, «L’altro, lui, è il mio nemico interiore – e io non mi posso sopportare». 
Ed è proprio dalle regioni buie dell’inconscio, dal proprio male, da quei vissuti che la nostra coscienza, individuale e collettiva, non può riconoscere né accettare, che viene proiettata l’ombra. L’ombra dei nostri pregiudizi e privilegi, la paura di noi bianchi rispetto alla sopravvivenza del nostro sistema sociale. Nelle dinamiche di emarginazione, la colpa negata, scissa, le componenti dissociate che sono ostili al sistema di vita dell’individuo e dell’ordine sociale, ricadono sul capro espiatorio designato: a lui, molto più spesso a lei, deve essere attribuita ogni impurità e pericolosità, inflitta ogni condanna e sofferenza. Come scrive Erich Neumann, l’Ombra: «Viene combattuta, punita e sterminata come “nemico esterno” e non considerata invece come un nostro elemento personale interno»[7]. Elemento personale interno che, nel caso delle manifestazioni antirazziste in America e in altri paesi del mondo, incluso il nostro, ha coinciso con il passato e il presente schiavista – immigrati clandestini, sfruttamento della prostituzione, lavoro minorile – con le pratiche di discriminazione sociale nell’alloggio, nell’istruzione, nelle condizioni di lavoro, nel mancato accesso alle cure mediche, anche nel corso dell’epidemia di Covid-19, che hanno portato negli Stati Uniti gli afroamericani a morire in proporzione molto più alta rispetto agli altri gruppi etnici[8]. «Ci hanno tolto il respiro e hanno mangiato tutto quello che diciamo» urla una protagonista del documentario Che fare quando il mondo è in fiamme?[9]. 
Tanto più indifferenti si diventa alla morte, tanto più la si rimuove, tanto più gli esseri umani si votano alla loro inconscia autodistruzione, in una inevitabile assuefazione a una realtà insensata, irrelata, contingente. 
È proprio questa configurazione psichica, terribile e paradossale, che viene evidenziata, con tutta la sua portata simbolica, nell’ideologia della supremazia razzista, un’ideologia che le angosce catastrofiche, le affabulazioni cospiratorie emerse dall’oscurità dell’epidemia, hanno esasperato. Nel corso della pandemia «l’area comfort» – come l’ha definita una paziente – della nostra sicurezza illusoria si è trovata investita, travolta da un virus, da una malattia invisibile e inarrestabile, in una esposizione dove, di colpo, tutto è stato perso, soggetto a rischio. 
Di fronte al caos, alla fine della nostra normalità-mondo, nella scissione psichica, diventa facile il ricorso all’irrigidimento, all’automatismo militaresco che non chiede, non pensa, ma esegue i comandi di un rinnovato potere che può selezionare e colonizzare, schiacciare e trionfare. In questa prospettiva, gli stessi poliziotti, in America spesso veterani di guerra, diventano ruote di un ingranaggio molto più potente di loro, carnefici nella logica feroce di sopravvivenza del nostro sistema sociale, dove si deve umiliare e degradare gli emarginati per non cadere da quel fatidico gradino, sempre in bilico, dove poi toccherebbe a noi essere umiliati e degradati.

Il gesto dell’inginocchiarsi 
Forse, avvalersi di un’interrogazione che si rivolge al linguaggio dell’inconscio, oltre ogni frattura che contrappone psiche e mondo, individuo e società, può aiutarci a cogliere gli elementi di cambiamento antropologico che questo movimento di protesta e di ricerca, umana e culturale, può significare. In questa prospettiva, proprio il gesto comune dell’inginocchiarsi, condiviso durante le manifestazioni e le cerimonie, può accogliere il portato simbolico, immaginifico, compreso in questo movimento di ribellione e cambiamento politico e sociale. Al di là dei significati rituali dei vari culti religiosi, il gesto dell’inginocchiarsi richiama simbolicamente la dimensione dell’invocazione, della preghiera, dove la posizione eretta, verticale dell’uomo dominante e onnipotente, teso nell’attività febbrile, nello sforzo frenetico, si placa, si raccoglie verso la terra che ci sostiene, nostra origine, verso quella dimensione trascendente, spirituale che ci ispira, che ci spinge al di là di noi, in una prospettiva di incontro che prova ad aprirsi, a conciliarsi con il non identico. 
Inoltre, ancora, il gesto dell’inginocchiarsi in memoria di George Floyd e di tutte le altre vittime della violenza razzista, si contrappone, riproponendolo trasformato, ricreato, proprio al gesto dell’inginocchiarsi, del ginocchio piegato, premuto dal poliziotto sopra il collo del «negro», per soffocare. Nel gesto omicida il «negro» diventa quella componente istintuale, vitale, libera, ribelle che deve essere repressa, annientata nel suo richiamo archetipico e ancestrale. Così la dinamica psichica fra opposti, la tensione creativa compresa nel simbolo, dà luogo a un processo di integrazione, di trasformazione psichica e politica, dove lo stesso gesto che vuole uccidere, eliminare, diviene gesto che vuole far vivere, unire. Il respiro tolto torna a respirare nel cuore e nella mente di coloro che vogliono provare a ricordare e a cambiare, a vivere il valore dell’individualità nell’universalità della comunità umana, perché la vita degli invisibili, sommersi, soffocati non si trasformi in un destino: «La battaglia perduta che non ci è permesso abbandonare».[10]


[1] R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, Bologna 2019
[2] FOCSIV, I padroni della terra, Rapporto sull’accaparramento della terra 2019
[3] M. Catucci, Usa, ore di filmati sui manifestanti, «Il nuovo Manifesto», New York, 21/6/2020
[4] A. Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infaticidio, Einaudi, Torino 2005, p. 357
[5] C. G. Jung, Commenti sulla storia contemporanea, Vol.X**, Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 51
[6] A. Mbembe, Critica della ragione negra, Ibis, Como 2016 , p. 69
[7] E. Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti&Vitali, Bergamo 2005, p. 48
[8] «Internazionale», H. Eakin, «The New York Review of Books», Da dove viene la rabbia di Minneapolis, 05/06/2020 p. 23
[9] R. Minervini, What You Gonna Do When the World’s on Fire?, Documentario USA, Okta Film, Rai Cinema 2018.
[10] R. Gary, Cane bianco, Neri Pozza, Vicenza, 2009, p. 67