IL LUNGO CAMMINO E IL PENSIERO APERTO DI ÁGNES
di Stefano Zani
Il pensiero di Ágnes Heller non si lascia racchiudere in formule semplici e, sfuggendo ad ogni schema precostituito, testimonia della ricerca costante di un’attenta adesione alla complessità del reale. Emancipatasi completamente dal marxismo, dopo decenni di tentativi di emendarlo dall’interno, pur senza rinunciare ad uno sguardo critico sulla modernità e sul capitalismo, ella approda ad una visione dell’etica di stampo kierkegaardiano. Una svolta importantissima verso la valorizzazione piena della ricchezza umana e spirituale della soggettività.
La grande traghettatrice
A differenza dell’inabissamento senza riemersione di gran parte degli intellettuali marxisti dopo la caduta del muro di Berlino, Ágnes Heller è stata una delle poche pensatrici in grado di rimanere sempre visibile e presente nel dibattito pubblico assumendo coraggiosamente e apertamente posizioni autocritiche di grande importanza culturale, anche se non senza sobbalzi e decise svolte. Sebbene sia ancora troppo presto per trarre un bilancio d’insieme sul valore complessivo della sua opera data l’enorme mole dei suoi scritti, parecchi dei quali ancora inediti o non tradotti, pure è possibile tratteggiare, sia pur molto sommariamente, alcuni percorsi con una certa chiarezza, soprattutto per quanto riguarda alcune posizioni nel campo della filosofia pratica, fino al più recente approdo a un’etica della personalità che deriva da una svolta nell’elaborazione di una filosofia morale cui ha dedicato buona parte della propria vita e quattro opere monumentali[i].
Come pochi altri intellettuali marxisti della seconda metà del 900 Heller è riuscita a congedarsi dal marxismo e dal post-marxismo e a traghettare con gradualità, saggezza, e spirito autocritico aperto la cultura di sinistra verso sponde di critica della società, del capitalismo e della cultura di grande spessore e originalità. «In quegli anni [vissuti in Australia] – racconta – scrissi molto, è stato forse il periodo più produttivo della mia vita. A quel periodo risalgono Una teoria della storia, l’Etica generale e Oltre la giustizia (…) Anche del post-marxismo non avevo più bisogno. Non ero mai stata radicale nel mio pensiero, perciò non avevo distrutto semplicemente il post-marxismo, ma l’avevo trasformato un passo dopo l’altro. Alla fine era rimasta una teoria completamente diversa dall’inizio. Avevo liquidato l’idea di progresso comune a Kant, Hegel e Marx».[ii]
Ricordo di una laboriosa tesi universitaria
Chi scrive si è laureato in Filosofia morale con una tesi sul rapporto tra la Scuola di Budapest, ovvero di quel gruppo di allievi che si riunirono intorno alla figura di Gyórgy Lukács tra gli anni 50 e 70, e il più eminente rappresentante dell’ultima generazione della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, a confronto sul tema specifico della teoria dell’agire comunicativo e sulle sue discussioni critiche all’interno di una visione rinnovata del materialismo storico. Il mio lavoro prendeva le mosse dall’originario progetto di un’etica del giovane Lukács nella sua fase premarxista, e individuava un periodico riproporsi di tale progetto, anche una volta aderito al marxismo; tanto nell’Estetica quanto nell’Ontologia dell’essere sociale, vi sono tracce ben visibili del tentativo di rendere conto in modo adeguato, sia pur all’interno di una concezione materialistica della storia, del ruolo della soggettività. Malgrado l’interpretazione umanistica del marxismo e i tentativi di un suo rinnovamento in senso antidogmatico da parte di Lukács, i suoi allievi, ed Heller in particolare, che costituiva quella di maggior spicco entro la Scuola di Budapest, criticarono le stesure che Lukács venne elaborando dell’Ontologia proprio per i limiti categoriali e concettuali assegnati alla soggettività all’interno della dinamica sociale.
Teoria dell’agire e filosofia morale
Emergeva una impossibilità di assegnare uno spazio adeguatamente concettualizzato e un ruolo sociale alla soggettività e all’etica che portarono Heller a cimentarsi, tra gli anni 60 e 80, nel tentativo di riformulare a più riprese una teoria in grado di recepire tutta l’irriducibilità dell’agire sociale al paradigma del lavoro, e quindi a una razionalità strumentale. Tutto ciò avveniva attraverso un confronto serrato tra la concettualizzazione della filosofia pratica di Aristotele, in particolare la distinzione tra techné ed energeia, la distinzione operata da Marx tra «attività umana sensibile» e «attività pratico-critica» o «rivoluzionaria» (prima e terza Tesi su Feuerbach), la distinzione tra agire razionale rispetto allo scopo e rispetto al valore di Max Weber e la teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas e Otto Apel in cui, com’è noto, si distinguono i concetti di agire razionale rispetto allo scopo (che si distingue nei sottotipi di agire strategico e di agire strumentale o tecnico) e agire comunicativo.
Mentre infatti per indicare il rapporto con la natura Marx dispone del concetto filosoficamente elaborato di lavoro, per indicare le relazioni sociali (i rapporti intersoggettivi) egli non dispone di un concetto altrettanto elaborato. Ciò fa sì che sul piano categoriale il secondo aspetto della prassi (rapporto uomo-uomo) venga espresso all’interno del più comprensivo rapporto uomo-natura perdendo la sua specificità e rischiando di venir assimilato ad esso dal punto di vista del suo funzionamento. Oltre a ciò l’oscillazione di Marx tra piano della concettualizzazione dei due aspetti della prassi (e del loro rapporto) e piano delle indagini materiali crea l’impressione che Marx consideri come unica forza decisiva in gioco nella determinazione della dinamica sociale e della emancipazione umana lo sviluppo delle forze produttive, ben sapendo invece che anche l’attività sociale dei soggetti gioca un ruolo specifico e importante. Com’è noto, l’attenzione di Habermas è volta, più che a una critica delle concezioni deterministiche ed economicistiche dello sviluppo sociale di certo marxismo, a definire in modo ben più concettualizzato il rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione, in modo da far emergere una forma di dominio politico non dichiarato che porta scienza e tecnica a legittimare i rapporti di produzione esistenti presentandoli come una forma organizzativa tecnicamente necessaria. L’obiettivo diventa per Habermas quello di reintrodurre l’agire comunicativo là dove esso è stato sostituito indebitamente dalla razionalità strumentale. Heller condivide questa impostazione di fondo, che implica il non voler rinunciare alla razionalità strumentale laddove essa sia pertinente, pena il rischio di un ritorno romantico al vagheggiamento di una società preindustriale[iii]. Ciò implica peraltro una discussione democratica della scelta dei mezzi nell’ambito della produzione in grado di superare la separatezza tra lavoro manuale e intellettuale dei lavoratori nell’ambito del sistema produttivo. Heller condivide altresì con Habermas l’esigenza di recuperare la subordinazione degli scopi tecnici all’interno della produzione ai fini sociali (valori) di essa. Tuttavia Heller si mostra insoddisfatta della separazione tra attore dell’azione e significato dell’azione dal momento che la valutazione del teorico si sovrappone al senso realmente intenzionato dell’attore individuale[iv], con ciò rischiando di togliere la determinazione dei processi storici dalle mani dei suoi artefici e di riproporre involontariamente l’idea di leggi indipendenti della storia. Heller si sente così spinta a proporre una definizione dei tipi di agire che accolga in sé elementi di contenuto, ossia l’intenzione di colui che agisce e di assegnare così l’azione ad un tipo di agire o all’altro tenendo conto del significato attribuito dal singolo alla propria azione. Si tratta di una svolta decisa in senso liberale. La proposta è quella di riconsiderare il vantaggio dell’elaborazione delle categorie di techné e di energheia di Aristotele consistente nel fatto che esse incorporano il riferimento al contenuto dell’azione. Nell’attribuire un’azione a un tipo di agire o all’altro si deve tener conto del contesto in cui si svolge l’azione, ossia del rapporto tra intenzione del singolo e norme sociali all’interno delle quali qualsiasi azione si trova inserita. Una tale impostazione permette di sfuggire al rischio di pensare che il solo motore delle trasformazioni sociali sia costituito dallo sviluppo delle forze produttive, cuore del materialismo storico, e di spostare l’asse di possibili influenze emancipative in un altro ambito dell’attività umana, quello della comunicazione, evitando inoltre ogni ricaduta in una inaccettabile filosofia della storia. In questo senso Habermas sposta l’asse della emancipazione umana nell’ambito della società civile, del diritto di argomentazione, della democrazia formale e del crescete impatto della riflessività sul mondo etico[v] . Per Heller un corretto rapporto tra le due sfere dell’agire non riguarda soltanto l’appropriazione della natura esterna, ma realizza anche la socializzazione della nostra natura interna. Sebbene Marx intendesse esprimere uno sviluppo umano che va al di là dello sviluppo delle capacità di trasformare la natura esterna, egli non è riuscito ad individuare la logica specifica dell’azione politica, rischiando di affidare gli sviluppi umani allo sviluppo delle forze produttive. Heller individua come terreno specificamente politico quello della democrazia, che costituisce una terza logica rispetto a quella del capitalismo e a quella dell’industrializzazione. La democrazia è infatti una «istituzione transfunzionale», nel senso che esprime funzioni solo sinché il capitalismo o l’industrializzazione le pongono un vincolo[vi]. Gli sviluppi emancipativi trovano così piena espressione sul piano dell’agire comunicativo nella forma dell’azione politica, la cui messa in opera è la condizione per introdurre mutamenti in tutte le sfere dell’attività umana.
La razionalità dell’azione e il contesto sociale
Sebbene Heller si sia avvicinata alla teoria dell’agire di Habermas per polemizzare con la concezione di Lukács dei due aspetti della prassi, essa, e si tratta di un punto decisivo, non condivide l’idea che le definizioni dei tipi di agire costituiscano allo stesso tempo delle definizioni di tipi di razionalità, poiché la razionalità di un’azione dipende dal contesto sociale in cui l’azione si svolge e la teoria dell’agire di Apel e Habermas non è in grado di chiedersi quando un’azione è razionale, ossia in che misura l’azione di una persona possa essere ritenuta razionale. Secondo Heller nessuna azione è irrazionale o razionale per sé, bensì soltanto in riferimento al consenso reale o virtuale cui ci si riferisce compiendo una certa azione. Se per esempio in una società vi è un consenso verso la tesi che «le prostitute contaminano la società» ma avversione al fatto di strangolarle e qualcuno, provando un’irreprimibile pulsione aggressiva le strangolasse, l’azione risulterebbe irrazionale in quanto non condivisa. Se però chi ha commesso l’omicidio, si fosse riferito a norme vigenti altrove allora la sua azione non potrebbe essere considerata irrazionale. Perciò occorre anzitutto includere nella tipologia dell’agire anche la questione della razionalità o irrazionalità dei sentimenti, dal momento che non c’è alcuna azione senza che questa coinvolga i sentimenti, laddove la razionalità dipende dal comune sentire incorporato nelle norme e regole di una società. In questo senso «(…) nessuna azione è meno razionale per il fatto che è emotiva. Le azioni emotive sono irrazionali soltanto se le emozioni ci fanno agire in modo tale che l’azione contraddica le “norme e regole” accettate dall’attore»[vii]. Heller si mostra insoddisfatta di ogni schematizzazione che finisca per non render conto della complessità dell’agire umano, la cui razionalità non va sempre data per scontata. Tutti questi sforzi di emendare in senso volontaristico ed etico il materialismo storico non giunsero tuttavia a una soluzione soddisfacente circa un ruolo della soggettività e della cultura all’interno della dinamica sociale. Parallelamente alla fuoriuscita dall’Ungheria, a metà degli anni 70, Heller maturò convinzioni sulla democrazia politica e sulla soggettività difficilmente compatibili con l’involucro marxista.
Quando Ágnes lasciò il marxismo
Com’è noto, Heller si è emancipata completamente dal marxismo, dopo quattro decenni di tentativi, certamente originali e interessanti, di emendamento di esso dal suo interno, sia pur senza rinunciare a una critica serrata della modernità e del capitalismo. Ciò rappresenta una delle sue lezioni più importanti. L’approdo kierkegaardiano a cui è giunta, almeno dal punto di vista della sua elaborazione di un’etica, come ci attestano un paio di saggi scritti da Vittoria Franco[viii], tra cui uno pubblicato su questo stesso numero, costituisce certamente una svolta importantissima nel suo pensiero verso un approccio che sia in grado finalmente di valorizzare appieno la ricchezza umana e spirituale della soggettività emancipandola da un’ingessatura troppo stretta, per quanto finemente e intelligentemente rielaborata, costituita per lungo tempo dal rassicurante e solido vecchio involucro marxista. Secondo Heller l’individuo moderno è consapevole della propria contingenza e nell’alternativa tra progresso e salto nella scelta di se stessi essa privilegia Kierkegaard rispetto a Marx abbandonando gli assunti universali per abbracciare un’etica individualizzata, autonoma e antimetafisica, il cui contenuto minimo è quello secondo cui «è meglio subire il torto che commetterlo», come recita Socrate nel Gorgia di Platone. Heller si richiama all’idea di Levinas di una responsabilità verso gli altri e sostiene che il tasso di moralità non è dato dalla conformità a norme e regole date, bensì uscendo dall’indifferenza, con ciò avversando l’etica della personalità pura di Nietzsche secondo cui il singolo è l’unico decisore senza norme e regole.
Siamo in grado di dire da dove provenga il nostro pranzo?
Tale approdo, che Heller definisce etica della personalità[ix] presenta a chi scrive, – accanto a posizioni di notevolissimo interesse, tanto da farne una delle più autorevoli pensatrici dell’età contemporanea in campo morale, – alcuni tratti di criticità, che mi limito sommariamente a sollevare. In primo luogo perché rifugiarsi nella scelta di se stessi come onesti, nel senso socratico che chi è posto di fronte alla scelta di fare un torto a qualcuno o subirlo preferisce subirlo[x], nella modernità è cosa assai problematica, come ben sottolinea sotto altri aspetti Heller discutendo dei dilemmi morali e dell’incertezza della responsabilità. Il compito complesso, ma che emerge con sempre maggior chiarezza dalle sfide del nostro tempo come ineludibile, è quello di formare una coscienza di specie non per abbandonare quella specifica che ci caratterizza e ci rende unici, bensì per comprendere la dimensione globale delle nostre vite personali, scoprire i nostri pregiudizi politici e religiosi, così come le nostre involontarie complicità con l’oppressione istituzionale. In epoca premoderna si sapeva molto bene da dove veniva il proprio pranzo, chi faceva i propri mocassini e quanti figli si dovevano fare per garantirsi un’assistenza nella vecchiaia. Nel nostro mondo moderno e globale le relazioni causali sono molto più misteriose e complesse. Siamo in grado di dire da dove vengono il nostro pranzo, le nostre scarpe o i soldi per la nostra pensione? La comprensione di queste relazioni causali complesse è necessaria qualora noi ci vogliamo porre come individui che compiono scelte morali e qualche domanda sulla giustizia e l’ineguaglianza nella ripartizione delle risorse. E non è facile capire se le relazioni a distanza che stabiliamo con gli altri popoli e l’ambiente sono di sfruttamento, e, se lo sono, se noi siamo da rimproverare per questo. Il comandamento non rubare è stato formulato in giorni nei quali rubare significava sottrarre qualcosa con le proprie mani a qualcun altro e appropriarsene. Oggi i furti riguardano scenari nei quali è difficile dire se si siano maturati degli interessi per un investimento grazie a danni ambientali o a sfruttamenti di vario tipo. Compiamo violazioni della morale in condizioni nelle quali non sappiamo, se non a prezzo di faticose e incerte indagini, quali siano le concatenazioni dei fatti rilevanti ai fini della qualificazione di un atto come furto o meno. Allora, se proprio ci poniamo un problema morale, ci rifugiamo nella morale della buone intenzioni e della virtù. Ma in un mondo in cui tutto è interconnesso, l’imperativo morale supremo dovrebbe essere quello di fare uno sforzo per conoscere la verità. I più grandi crimini della nostra epoca non vengono dall’odio, dalla violenza e dall’avidità, bensì dall’ignoranza e dall’indifferenza. Questo è un punto sottolineato anche da Heller. Molte delle ingiustizie nel mondo contemporaneo risultano da tendenze strutturali piuttosto che da pregiudizi individuali e noi semplicemente viviamo con un cervello di cacciatori-raccoglitori che non è adatto a comprendere le faziosità strutturali di cui siamo involontariamente complici, ma che non abbiamo il tempo, la capacità, l’energia e la voglia di comprendere[xi]. Questa ignoranza dipende sia dal fatto che come europei apparteniamo all’élite globale piuttosto che ai gruppi più svantaggiati, sia dal fatto che anche i gruppi svantaggiati non per questo comprendono i punti di vista di altri gruppi svantaggiati stessi. Ma il punto è che di fronte alle sfide planetarie che abbiamo di fronte, tra cui i cambiamenti climatici, le ineguaglianze crescenti o l’intelligenza artificiale, occorre maturare una coscienza planetaria che tenga conto di tutti i punti di vista. Per Heller invece, per quanto «dobbiamo pensare di più, calcolare di più i pro e i contro»[xii], sarebbe fuorviante considerare le conseguenze delle nostre azioni, in quanto la conoscenza non dovrebbe servire come fondamento per il giudizio morale, poiché se la conoscenza ha la precedenza sulla legge morale ne risulterebbe un inevitabile relativismo e il nichilismo.[xiii] Distinguendo tra relativismo e prospettivismo Heller sembra rivendicare un’etica della personalità prospettivista vincolata agli assoluti definiti di volta in volta dai singoli individui nella rilevanza che assumono rispetto all’essere meri rappresentanti della specie[xiv].
Ma Kierkegaard si può scindere dalla fede?
Un secondo limite dell’etica della personalità di Heller mi pare sia costituito dal fatto che la scelta esistenziale di cui parla Kierkegaard affronta il tema della scelta etica nel senso di una sottolineatura del vissuto del singolo, dell’assunzione di responsabilità e di una valorizzazione della relazionalità, ma in ultima analisi i limiti cui lo stadio dell’etica va incontro (sacrificio della singolarità all’universalità, peccato e rimorso, quindi scacco dell’etica) sembrano funzionali piuttosto al salto in una fede che è quanto di più antietico si possa pensare. Com’è noto Kierkegaard divarica il rapporto orizzontale delle relazioni tra gli uomini da quello verticale con Dio («non ci si salva in compagnia»). Valgano a questo proposito le importanti considerazioni svolte a più riprese da Vito Mancuso[xv] nella sua interpretazione di Genesi 22, ovvero il Sacrificio di Isacco. Per Kierkegaard Abramo è il paradigma del singolo davanti a Dio, cioè del salto che ogni credente deve compiere dalla sfera etica a quella della fede; perché è la fede il fondamento della morale e non viceversa. Ora, se Abramo è il simbolo della manifestazione corretta della fede, come emerge da Timore e tremore, ciò avviene nella completa imperscrutabilità dei disegni di Dio e della prova inflitta ad Abramo. Lo scacco dell’etica e il salto nella fede corrisponde all’impossibilità dell’uomo di salvarsi con le proprie forze, o quantomeno collaborando con Dio, e all’abbandono non della vita terrena, ma della capacità di dare un significato all’assurdità del tragico. «La differenza fra l’eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L’eroe tragico rimane ancora dentro l’etico (…) Abramo ha potuto sospendere l’etico». «Egli agisce in forza dell’assurdo; poiché proprio questo è l’assurdo, che egli come singolo è più alto dell’universale»[xvi]. Per Kierkegaard solo come singoli si entra in un rapporto assoluto con l’Assoluto e ciò in completa avversione col versante umanistico, liberale e dialogico, della teologia cristiana. Occorre notare a questo proposito in primo luogo che nella Bibbia stessa esistono antidoti a una tale tesi di radicale sospensione dell’etica, quale quella sostenuta da Kierkegaard. Mentre nelle parole del profeta Michea non c’è nessuna sospensione dell’etica, in Kierkegaard vi è, com’è noto, uno scacco di essa[xvii]. In secondo luogo Kant stesso ritorna su Genesi 22 e sostiene che qualunque cosa sia in contrasto con la legge morale non viene da Dio[xviii]. In terzo luogo lo stesso Martin Buber, filosofo e teologo ebreo, critica Kierkegaard sostenendo che occorrono due tipi di cautela: il primo di ordine oggettivo: occorre sempre chiedersi «Chi è colui di cui si ode la voce?»; il secondo di ordine soggettivo: siamo sicuri di avere udito bene? Ciò è attestato ancora una volta in un altro passo del Salmo 62 della Bibbia: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite»[xix]. Infine lo stesso David Grossmann, nel commentare Genesi 22, svela un’astuzia che reca un’impronta troppo umana per essere quella di Dio in quanto affetta da una discriminazione di genere: «Rivolgendosi al padre, Dio si è dimostrato molto intelligente. Se invece che ad Abramo si fosse rivolto alla madre, non sarebbe successo niente. Sara gli avrebbe risposto come si fa con un pazzo, che chiede qualcosa di impossibile. Si sarebbe opposta con tutte le sue forze: non avrebbe neppure preso in considerazione la richiesta»[xx]. Occorre quindi «(…) diffidare da ogni tendenza a pensarsi come singoli e a strapparsi dalle regole universali» dell’etica, conclude in modo assai convincente Vito Mancuso[xxi]. Perciò scindere aspetti dell’etica di Kierkegaard dal suo rapporto con la fede, come fa Heller, per quanto interessanti e utili possano rivelarsi le sue considerazioni sull’etica, pare a chi scrive un’operazione assai problematica.
E il bisogno di trascendenza?
In terzo luogo, il rischio, sia detto con tutto il rispetto e l’ammirazione per un’autrice del calibro di Agnes Heller, è quello, – per dirla con Panikkar -, di voler costruire su tale radicale contingenza, di volerla consolidare, facendo del condizionato un nuovo Assoluto e rischiando così il crollo del nuovo edificio[xxii]. Occorre infatti non dimenticare che noi non siamo solo relazione, ma anche realizzazione, ovvero esperienza vissuta della presenza pura e non mediata con l’assoluto, che si manifesta attraverso una variegata gamma di attività, non solo spirituale, ma anche materiale e fisica. Tale apertura a un mondo infinito, naturale e sovrannaturale, costituisce un bisogno di trascendenza, rispetto al quale Heller sostiene che la filosofia può solo farsi domande senza poter rispondere[xxiii]. È forse a questa sfera che trascende tutti i limiti dell’etica che allude quando si chiede «le persone giuste esistono, come sono possibili?» Per la verità qualche traccia, sia pur frammentaria, di apertura in questo senso la si trova: «Non c’è assolutamente nessuna morale senza un riconoscimento appassionato di qualcosa (o qualcuno) al di sopra di tutti i singoli uomini. La si può chiamare “legge divina”, “libertà trascendentale”, “l’Altro sofferente”, o qualcos’altro, ma tale valore, legge morale o voce trascendente deve essere presupposta»[xxiv]. Non mi pare però che Heller abbia raggiunto risultati soddisfacenti in questa direzione, malgrado l’enorme mole dei suoi scritti..
Il pensiero di Heller non si lascia racchiudere in formule semplici dal momento che questa pensatrice rifugge sistematicamente dal già detto e dal già pensato da altri, generando nel lettore delle sue opere la sensazione di una estrema mobilità del pensiero che cerca di aderire alla complessità del reale sfuggendo ad ogni schema precostituito. Ciò può generare talvolta la sensazione dell’assenza di rigore, ma è piuttosto un tratto distintivo di uno stile sistematicamente aporetico che permette all’autrice di aderire a tutte le pieghe del vissuto umano, da lei scandagliato senza soluzione di continuità in così tante direzioni. Credo sia proprio questa la grande lezione che ci lascia in eredità, che è quella stessa che le ha permesso di sfuggire alle secche di sistemi ideologici chiusi che finiscono per non farci comprendere il mistero dell’esperienza umana.
[i] Mi riferisco a Á. Heller, Oltre la giustizia, Il Mulino, Bologna 1986; Á. Heller, General Ethics, Basil Blackwell, Oxford 1988; Á. Heller, Filosofia morale, Il Mulino, Bologna 1997; Á. Heller, Un’etica della personalità, Mimesis, Milano 2018.
[ii] Cfr. Á. Heller, Il valore del caso. La mia vita, Castelvecchi, Roma 2019 p. 104.
[iii] Cfr. Á. Heller, La filosofia radicale, Saggiatore, Milano 1978, p. 68.
[iv] Cfr. Á. Heller, Il potere della vergogna, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 76.
[v] Cfr. Á. Heller, Habermas and marxism, in AA.VV., Habermas critical debate, edited by J.T. Thompson and David Held, MacMillan, London 1982, p. 33.
[vi] Cfr. Á. Heller, Marx e la modernità, in «Critica marxista», n. 2-3, 1983, pp. 115-116.
[vii] Á. Heller, Vita quotidiana, razionalità della ragione, razionalità dell’intelletto, in Á. Heller, Il potere della vergogna, cit., p. 173.
[viii] Cfr. inoltre V. Franco, Á. Heller interprete e testimone del ‘900, in «Iride» 3/2019, Il Mulino, Bologna 2019.
[ix] Cfr. Á. Heller, Un’etica della personalità, cit.. In quest’opera Heller passa dal tentativo di elaborare una filosofia morale (oggetto di Etica generale e di Filosofia morale) ad accompagnare le persone oneste sul loro cammino: cfr. Á. Heller, Breve storia della mia filosofia, Castelvecchi, Roma 2016, p. 122.
[x] Cfr. Á. Heller, Breve storia della mia filosofia, cit., p. 129.
[xi] Traggo questi spunti da Y. N. Harari, 21 Lessons for the 21st Century, Jonathan Cape, London 2018.
[xii] Cfr. Á. Heller, Un’etica della personalità, cit., p. 208.
[xiii] Ibidem, p. 203.
[xiv] Ibidem, pp. 203-204.
[xv] Cfr. V. Mancuso, Io e Dio, Garzanti, Milano 2011, pp. 176-182. Cfr. anche V. Mancuso, Dio e il suo destino, Garzanti, Milano 2015, pp. 334-337.
[xvi] Cfr. S. Kierkegaard, Timore e tremore, Mondadori, Milano 1991, pp. 58-70.
[xvii] Cfr. La Bibbia, Michea, 6,6-8. Il Profeta Michea critica Genesi 22: «Con che cosa mi presenterò al Signore, mi prostrerò al Dio altissimo? Mi presenterò a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà il Signore migliaia di montoni e torrenti di olio a miriadi? Gli offrirò forse il mio primogenito per la mia colpa, il frutto delle mie viscere per il mio peccato? (…) Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio»; cit. in V. Mancuso, ivi.
[xviii] «Può servire come esempio il mito del sacrificio che Abramo voleva offrire, per ordine divino, scannando e bruciando il suo unico figlio (il povero fanciullo, per giunta, portò inconsapevolmente la legna). A quella presunta voce divina A. avrebbe dovuto rispondere: “Che io non debba uccidere il mio caro figlio, è assolutamente certo; ma che tu che ti manifesti a me sia proprio Dio, di ciò non sono né posso diventare sicuro”, anche se tale voce risuonò dall’alto del cielo (visibile)». Cfr. Kant, Il conflitto delle facoltà, in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989, p. 272, in V. Mancuso, Io e Dio, cit..
[xix] Cfr. Salmo 62,12, in V. Mancuso, Io e Dio, cit..
[xx] Cfr. David Grossmann, intervento a una tavola rotonda in occasione del Festival «Puerto de Ideas», Valparaiso, Cile, 9 novembre 2014, cit. in L. Zoja, Psiche, Boringhieri, Torino 2015, pp. 75-76; Il commento di Zoja a Grossmann, da cui ho tratto la citazione, è il seguente: «Anche quando Dio parla in modo diretto, non è affatto detto che questo sopprima completamente il libero arbitrio. All’uomo restano dei margini per una decisione personale. Nella Bibbia, Dio non dà solo ordini ai fedeli, ma può dialogare con loro (…) Nel monoteismo la voce divina è più lontana di quella del politeismo (…) Col passare del tempo, far risalire le azioni degli uomini a un intervento diretto di Dio causa sospetti sempre più fondati (…) Del resto, a lungo guerre e massacri saranno compiuti in suo nome (…) quanto più si affina l’etica e la razionalità di una religione, tanto più dovrebbero ingentilirsi i comportamenti quotidiani».
[xxi] Cfr. V. Mancuso, Io e Dio, cit..
[xxii] Cfr. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha, Oscar Mondadori, Milano 2006, pp. 253-255.
[xxiii] Cfr. Á. Heller, Breve storia della mia filosofia, cit., p. 124.
[xxiv] Cfr. Á. Heller, Un’etica della personalità, cit., p. 176.