UNA VITA PARADIGMATICA
di Severino Saccardi

Una vita paradigmatica, quella di Ágnes Heller. Che si è trovata, da vicino e dall’interno, a confronto con tragedie e contraddizioni del «secolo breve» e con le speranze, ma anche le delusioni, che esso ha generato. Passione e ragione sono le parole chiave per capire un percorso umano (animato da un forte amore per lo spettacolo del mondo) e un’avventura intellettuale che l’ha portata all’originale elaborazione di un «pensiero aperto», capace di mettere al centro i temi dei Bisogni, dei Diritti e dei Doveri.

Ragione e passione
Ragione e passione. Sono due parole chiave per inquadrare il percorso umano e l’avventura intellettuale di Ágnes Heller. È quanto scaturisce anche dagli scritti delle amiche e degli amici (tutti da ringraziare sentitamente) che, con una pluralità di accenti e di voci , hanno contribuito a dare forma, spessore e sostanza a questo volume speciale della nostra rivista. La figura che ne emerge ha contorni netti: era una piccola donna, Ágnes Heller, che ha saputo elaborare un pensiero capace di potenti evocazioni. La sua vita, sia a livello politico, sia sul piano personale, non è stata una vita facile. Ma certo è stata una vita paradigmatica. Un’esistenza, la sua, in cui si sono riverberati sentimenti, idee, illusioni che hanno percorso il «secolo breve». Un’esistenza che si è trovata, da vicino e dall’interno, a confronto con i drammi, le tragedie e le contraddizioni da cui il Novecento è stato segnato. Con la guerra e con la Shoah, prima di tutto. E poi con una «liberazione» (v. Goldkorn) che non vuol dire libertà. C’è l’eco, nei suoi lavori e nelle sue ricostruzioni biografiche, della cesura del Sessantotto. Un passaggio che generò speranze e che produsse, anche, molte illusioni e conseguenti delusioni. Ha sentito il richiamo dell’eco del Sessantotto anticapitalistico dell’Occidente ed ha respirato da vicino il Sessantotto dell’Est[1]. Che fu soprattutto la ricerca di una Primavera di libertà[2]. Una ricerca che ebbe però gli esiti che sappiamo. Con i carri armati a Praga il 21 agosto dell’«anno indimenticabile» e con la campagna antiebraica del generale Moczar in Polonia. Ágnes sarebbe stata animatrice ed esponente di una riflessione dalla chiara «radice socialista» (Vigorelli) che, nondimeno, l’avrebbe condotta sulla strada amara dell’espatrio (con Ferenc Fehér e György e Maria Márkus).

Teoria dei bisogni e dittatura sui bisogni
E sarà con Fehér e Márkus che scriverà La dittatura sui bisogni[3], che è non solo un’analisi socio-politica della realtà est-europea[4], ma anche un testo che permette di gettare complessivamente nuova luce sulla stessa, più generale, teoria dei bisogni (molto apprezzata e, a volte, forse fraintesa), rispetto alla quale costituisce un utile complemento. La società deve respirare, ed è velleitaria, oltre che politicamente e moralmente da combattere, un’impostazione che punti a comprimerne le istanze con meccanismi autoritari. Ma d’altra parte l’obiettivo non può essere quello (anch’esso a suo modo totalizzante) di vagheggiare una «società sazia» (Costanzo), capace di configurarsi come un incubo. C’è, a volte, una sottovalutazione, nella ricostruzione della vicenda culturale della pensatrice ungherese, del periodo degli anni Ottanta e dei contributi ad esso legati. Eppure, si tratta di un passaggio caratterizzante, connotato, appunto, dalla critica radicale al «socialismo reale» (per cui una parte della sinistra occidentale, non dimentichiamolo, non era ancora pronta) e dall’interlocuzione critica che Fehér ed Heller ebbero con i movimenti occidentali per la pace (allora molto vitali). È di quel periodo, ad esempio, il loro Apocalisse Atomica. Il movimento antinucleare e il destino dell’occidente[5]. Le loro posizioni, all’interno dei movimenti e della sinistra occidentale (se non nella parte più aperta e più attenta alla situazione dell’Europa centro-orientale), spesso non furono capite e poco furono gradite. Era ancora il tempo, non va scordato, in cui, nonostante la stagnazione del lungo inverno brezneviano, certi assetti e certi equilibri sembravano non scalfibili. Parlavamo, sì, di superare l’«ordine di Yalta»[6], ma sembravano parole al vento o sogni destinati a realizzarsi chissà quando. Il Muro (che invece sarebbe crollato da lì a pochi anni) sembrava destinato a durare ancora a lungo e idee, che so, come l’indipendenza della Lettonia, Estonia e Lituania erano viste, a seconda dei casi, come pure utopie o come provocazioni. Posizioni critiche (verso il pacifismo occidentale o almeno verso le sue componenti più unilaterali) come quelle di Fehér e di Heller erano viste con sospetto e accusate di sottovalutare l’importanza e l’urgenza del «tema disarmo». A ben vedere, però, Fehér, Heller e coloro che sostenevano analoghi punti di vista, avevano certamente a cuore la pace (mi pare possano esservi pochi dubbi considerando i valori di riferimento della nostra pensatrice ungherese), ma sostenevano che non può esservi pace senza il rispetto della libertà e dei diritti umani fondamentali. Il concetto, da loro sostenuto con forza, era che la condizione per la pace non può essere la Cambogia (quella di Pol Pot, in una situazione di sostanziale schiavitù) con qualche razione alimentare in più. Una provocazione intellettuale, certo. Ma, dietro, essi avevano l’esperienza e il senso dell’uso strumentale e propagandistico che, non di rado, nell’Europa dell’Est, si faceva della bandiera della pace. Che rimane, però in sé, una bellissima bandiera. D’altra parte, non ci furono solo incomprensioni. Ci furono tra le componenti più attente dei nostri movimenti per la pace[7] e alcuni movimenti e gruppi indipendenti dell’Est (Solidarnosc, Charta 77, Dialogus) anche importanti momenti di dialogo, di scambio e di collaborazione. C’erano obiettivi comuni: il superamento dei Blocchi, un continente in cui esistesse piena libertà di movimento, l’adesione all’idea dell’Europa come «casa comune»[8].

Poi ci fu l’Ottantanove
 Poi ci fu l’Ottantanove. E anche per Ágnes (che poté tornare a Budapest, ricorda Argentieri) si apre una nuova fase della vita. Hanno un peso, anche per la sua vicenda umana e culturale, le periodizzazioni. Aiutano a ricostruire l’insieme, e anche gli elementi di discontinuità, di un percorso. Ma c’è una costante che va considerata: quella della sua dedizione alla dimensione del pensiero. Detto in termini più semplici, la sua vocazione filosofica. Quella che il suo maestro Lukács (rispetto al quale si sarebbero poi evidenziate non poche diversità) le aveva fatto scoprire. Di questo aspetto parlano con competenza molti contributi di questo volume. Tanti, i riferimenti. Mi si perdonerà se posso qui richiamarne solo qualcuno: dal confronto della pensatrice ungherese con Kant, Kierkegaard e Nietzsche (Franco), al rapporto fra Filosofia e Tragedia (Vestrucci), alla considerazione nuova (al Simposio della filosofia) del ruolo della donna (Brezzi). Heller non dà vita a un sistema filosofico, ma a un «pensiero aperto» (Zani). Ma quale era la finalità verso cui si orientava il pensiero di Ágnes? Quale la bussola di riferimento? Quella del perseguimento di una «vita buona» (Boella) a cui gli individui sono chiamati con adeguate scelte esistenziali per abitare un mondo pur segnato dalle contraddizioni, dal dramma e dallo scandalo della sopraffazione e dell’ingiustizia.

C’era il pensiero e c’era l’amore per la vita
C’è, però, un aspetto che va messo in luce e su cui tornano puntualmente, in diversi passaggi, gli interventi dei nostri autori (come Mazzeo, Noseda, Bizzarri) e su cui convergono ricordi come quelli di Cristina Guarnieri (editor di una casa editrice, la Castelvecchi, che ha il merito di pubblicare i libri di Ágnes Heller) e quelli di Francesco Comina. Che di Ágnes ha potuto verificare, in anni di incontri e frequentazione, l’amore per la bellezza delle piccole cose della vita. L’amore per la filosofia non la confinava, dunque, in una qualche dimensione di astrattezza. C’era in lei (di cui si possono, come per ognuno, rilevare anche limiti o contraddizioni, certo) la levatura del pensiero. Ma pensiero e vita andavano insieme. Ho potuto sperimentarlo personalmente. Ricordo quando, insieme a Francesco Comina, organizzammo, con «Testimonianze», a Firenze, la presentazione del libro I miei occhi hanno visto[9]. Un bell’incontro, come succedeva sempre con lei, pieno di gente. Prima dell’iniziativa, andammo a visitare Palazzo Vecchio, invitati dall’Amministrazione comunale. Heller, memore dei suoi studi sul Rinascimento italiano, ne sapeva però più di chi, pur colto e preparato, cercava di farle da guida. Poi, la cena. Una cena toscana (c’era con noi anche Vittoria Franco), in cui mi colpì come la nostra illustre ospite apprezzasse il buon cibo e il buon vino Chianti. Finita la cena, mi stavo premurando di chiamarle un taxi per raggiungere l’auto dei suoi fedeli accompagnatori bolzanini, parcheggiata lontano. Ma Ágnes, pur zoppicante, borbottò e rifiutò. Come perdersi una camminata in una luminosa serata nel centro storico di Firenze? E, arrivata al complesso delle Murate (l’ex carcere di Firenze, riqualificato da un sapiente recupero urbanistico), ha visto le luci e si è voluta infilare dentro, in mezzo ai giovani del «Caffè Letterario» che bevevano birra e ascoltavano musica. Non avevo mai avuto occasione di incontrare Heller così da vicino (anche se avevo assistito a sue conferenze). Ne fui sinceramente colpito. Sì, è stata paradigmatica la vita di Ágnes Heller, i cui occhi hanno visto le tragedie (e il fallimento di molte speranze) del secolo. Ma è stata comunque la vita di una persona innamorata dello spettacolo del mondo e della forza delle idee. Un pensiero, il suo, radicale, democratico e, potremmo anche dire, pur in un tempo in cui i vecchi riferimenti vacillano, «di sinistra», in senso antidogmatico e antiautoritario. Si è opposta alle derive xenofobe, nazionaliste e sovraniste ed ha finito per sentirsi di nuovo quasi come straniera nel suo Paese. Era (v. intervista di P. Meucci) sicuramente una cittadina europea. Che ha saputo parlarci di Bisogni. Di Diritti. Ma anche (toccando un tema che a noi italiani aveva proposto già Mazzini) di Doveri. Che è come dire, di responsabilità verso se stessi, verso l’altro, verso l’ambiente e verso le generazioni future. Una lezione su cui sarà importante tornare a meditare.


[1] È anche a questo clima (e a ciò che ne rimase per alcuni anni) che bisogna riandare per capire (al di là dell’analisi puntuale dei contenuti e della sua genesi culturale) l’interesse e la considerazione che ha potuto registrare quella considerata, a torto o a ragione, come l’opera-simbolo della pensatrice ungherese, cioè La teoria dei bisogni in Marx (edita in Italia da Feltrinelli, Milano 1974).
[2] Su questi temi (anche sul rapporto fra 68 occidentale e quello dell’Europa centro-orientale) v. anche il volume di «Testimonianze» n. 402 del 1998, con un’ampia sezione monotematica dedicata a Ripensare il ’68.
[3] F. Fehér, Á. Heller, G. Márkus, La dittatura sui bisogni, SugarCo, Milano 1982.
[4] Era, questa, secondo la definizione che ne danno gli autori, una realtà in cui «il sistema può funzionare nella sua forma pura solo imponendo una drastica dittatura sui bisogni dell’assoluta maggioranza della popolazione» (La dittatura sui bisogni cit., p. 123).
[5] F. Fehér, Á. Heller, Apocalisse Atomica. Il movimento antinucleare e il destino dell’occidente[5], SugarCo, Milano 1985.
[6] Sono temi presenti anche nei Convegni di «Testimonianze» del ciclo Se vuoi la pace prepara la pace. V. gli atti dei convegni: Disarmo, diritti umani, autodeterminazione dei popoli (del 3-4 Marzo 1984) in «Testimonianze», nn. 264-265; Continenti e popoli oltre i Blocchi (del 16-17 Novembre 1985), in Testimonianze», nn. 282-284; Dall’Atlantico agli Urali per un’Europa di pace (del 6-7 Dicembre 1986), in «Testimonianze» nn.294-295.
[7] Da considerare, per quel che riguarda in particolare il nostro Paese (a cui, tra l’altro, Ágnes Heller ha sempre guardato con attenzione e che ha molto amato), in quegli anni, il dibattito non privo di novità, innescato, ad esempio, nella sinistra allora comunista dalle dichiarazioni di Berlinguer sull’«esaurimento della spinta propulsiva» dell’Ottobre e sulla democrazia come valore universale. Immagini ed evocazioni di un tempo ormai lontano, che pur avvertiva la preparazione del profondo sommovimento che era alle porte.
[8] V. in proposito S. Saccardi, Il continente ritrovato. Da Helsinki alla «Casa Comune Europea», Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole, 1990.