L’Europa al voto: la (scampata) ondata sovranista e una «casa comune» da rinnovare

di Severino Saccardi e Simone Siliani

Un commento «a caldo» sull’Europa «a macchia di leopardo» uscita dalle recenti elezioni che se, da un lato, ha posto un argine alla spinta sovranista (nonostante i risultati della Lega, del Front National e di Orban), richiama anche l’attenzione sulla necessità di dare un nuovo smalto e vera sostanza politica alle istituzioni dell’Unione.

 

Chi vince in Italia, chi ha vinto in Europa

Questo volume è dedicato in gran parte al «tema Europa». Ci sono gli atti del Convegno Cittadini d’Europa, organizzato da «Testimonianze» e da «Europe Direct», dello scorso 5 marzo e c’è uno spazio dedicato agli specifici problemi dell’Europa centroorientale (a 30 anni dal 1989) e alle politiche del «gruppo di Visegrad». In un contesto simile, a costo di far ritardare di alcuni giorni l’uscita del numero, ci è sembrato opportuno aprire con un «Tema» dedicato ad un commento «a caldo» (certo, di carattere molto generale, come è possibile ad urne appena chiuse) sui risultati delle elezioni europee. Che cosa è possibile dire, al riguardo, in poche battute?

Partiamo dall’Italia. Dove c’è un solo vincitore, la Lega di Matteo Salvini che sfonda il muro del 30% , quintuplica i risultati delle precedenti elezioni europee e raddoppia quelli delle ultime politiche. C’è uno sconfitto ed è il M5S, che perde un terzo dei suoi elettori rispetto allo scorso anno. Il Pd è tornato ad essere il secondo partito italiano, con un risultato molto migliore di quello del 2018, ma la sua rappresentanza nel Parlamento europeo è quasi dimezzata. Il resto è niente (a sinistra) e poco (a destra). Il vincitore Salvini dice che non cambierà niente nel Governo (che avrà un asse evidentemente più a destra), ma non è facile crederlo.

Ma se guardiamo all’insieme dei risultati europei il quadro è ben diverso. Qui, nel Parlamento europeo, le forze sovraniste e di destra non sfondano; anzi, restano sostanzialmente marginali, per quanto inquietanti siano alcune presenze nuove (AfD in Germania, Vox in Spagna), mentre in alcuni paesi sono decisamente ridimensionate (Alba Dorata in Grecia, PVV in Olanda, FPÖ in Austria). Un sollievo per ogni democratico.

Infatti, se è vero che le due grandi e tradizionali famiglie, i popolari e i socialdemocratici, escono indebolite dalle elezioni europee è altrettanto vero che esse escludono ogni alleanza con la destra e assicurano che costruiranno una maggioranza parlamentare fondata sulla loro alleanza, insieme ai liberali e/o ai verdi, le due forze politiche che hanno avuto risultati decisamente positivi e che esprimono un europeismo diverso fra loro e da quello espresso fin qui da popolari e socialdemocratici. La conseguenza, dal punto di vista italiano, sarà che la voce del nostro Paese sarà flebile all’interno dell’Unione, ma di ciò potremmo anche poco preoccuparci se queste elezioni portassero, comunque, ad una maggiore e diversa assunzione di responsabilità nel processo di costruzione europea. Questo era in gioco, davvero, nelle elezioni appena concluse. Certo, i risultati della destra sovranista e antieuropea in Francia e in Italia fanno impressione e rischiano di minare la credibilità democratica di alcuni paesi fondatori della Comunità europea.

 

Una riflessione da non eludere

La composizione complessiva del nuovo Parlamento europeo presenta, comunque, una sostanziale novità politica: il bipartitismo popolari-socialdemocratici è tramontato, ma non nel senso auspicato dai sovranisti e dagli euroscettici. La Großekoalition necessaria per la maggioranza sarà allargata a gruppi più europeisti (Alde e/o Verdi). La sfida lanciata dai sovranisti, che tanto ha preoccupato le istituzioni europee e evidentemente anche i cittadini che si sono recati in massa alle urne (un po’ meno in Italia) non è riuscita a svellere il sistema. Scampato pericolo, si direbbe. Che dovrebbe però spingere le forze europeiste da un lato a marginalizzare le loro componenti ambigue (come Orban nel PPE) e a dare al progetto europeista un respiro nuovo, non più fondato solo sul riferimento al pareggio di bilancio, sulle problematiche finanziarie e sul metodo intergovernativo. Ciò non avverrà automaticamente, ma solo se emergerà una classe politica dirigente nuova, formatasi dentro la crisi che da 10 anni affligge le nostre società e alla quale le ricette europee e il metodo intergovernativo non hanno saputo, in molti casi, dare risposte eque ed efficaci. Gruppi dirigenti in grado di comprendere la portata delle nuove sfide (ecologiche e sociali) che l’Europa non può affrontare né con una impostazione confederale, né con istituzioni politiche deboli, ma con una ritrovata volontà di dare rinnovato smalto e sostanza ad una «casa comune», nata da un grande progetto ideale e più che mai necessaria di fronte alle sfide poste dalla complessità del mondo globale.