Esilio e ricostruzione dell’identità in Hannah Arendt
di Vittoria Franco
Hannah Arendt, che si trova a vivere personalmente, negli Stati Uniti, la condizione di esiliata apolide, sviluppa una profonda riflessione di carattere culturale sulle condizioni degli ebrei dopo le persecuzioni e lo sterminio. L’analisi della diaspora ebraica, che le offre lo spunto per analizzare le diverse risposte possibili alla nuova condizione nella faticosa, e talora impraticabile, ricerca di ricostruire un’identità personale, la fa pervenire alla conclusione che tale compito non può essere affidato al singolo individuo, bensì al lavoro di un’intera collettività, perché solo sentendosi parte di un popolo, ognuno può sentirsi parte di una umanità che vive nella (e della) pluralità delle identità.
We refugees
Quando, nel 1943, Hannah Arendt consegnava alle stampe l’articolo We refugeessi trovava da due anni negli Stati Uniti, dove era approdata dopo un viaggio avventuroso attraverso la Spagna. Proveniva dalla Francia dove – lei, ebrea – era emigrata nel 1933 subito dopo l’avvento di Hitler al potere, avendo capito ben presto che in Germania, la sua patria, il vento dell’antisemitismo avrebbe soffiato sempre più forte. A Parigi cominciò una nuova vita di impegno sociale e politico in un’organizzazione sionista che si occupava di trasferire in Palestina e collocare nei kibbutzbambini e ragazzi ebrei da salvare. Privata della cittadinanza tedesca nel 1937, si ritrova a vivere la condizione di apolide; nel 1940 viene internata, insieme ad alcune migliaia di ebrei e stranieri, nel campo di Gurs per decisione del governo di Vichy in quanto «straniera sospetta». A tal proposito, constata sconsolata: «Sembra che nessuno voglia riconoscere che la storia contemporanea ha creato un nuovo genere di esseri umani – quelli che sono stati messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici»[1]. Riesce fortunosamente ad evadere e a imbarcarsi per gli USA dal porto di Lisbona.
Solo sul suolo statunitense può sentirsi finalmente al sicuroe avviare una riflessione sulla sua condizione di «esiliata» apolide e sulle condizioni degli ebrei dopo le persecuzioni, i campi di concentramento, la scoperta dello sterminio fra il 1942 e il 1943, la nuova diaspora.
Chi è la nuova Hannah? Cerca di definirlo indagando in se stessa e nelle vite degli ebrei che come lei conoscevano persecuzioni e umiliazioni, ma anche in personalità della letteratura come Kafka, Heine, Brecht, Lazare – definiti «pariahconsapevoli» – in una ricerca che durerà, con diversi baricentri, fino alla fine della sua vita. Certamente restò a lungo apolide (ottiene la cittadinanza americana solo nel 1951), condizione che le pesò più di quanto non appaia. Rivelatore il passaggio di Le origini del totalitarismoin cui descrive il senso teorico, ma anche l’enormità nelle vite personali della privazione della cittadinanza: «Quando l’appartenenza alla comunità in cui si è nati non è più una cosa naturale e la non appartenenza non è più oggetto di scelta (…) quando il trattamento subito non dipende da quel che si fa o non si fa», ciò significa che è in gioco qualcosa di molto più essenziale della libertà e della giustizia[2].
La compassione verso se stessi
Per cominciare, rifiuta di definirsi «profuga», preferendo il termine «immigrata». I profughi sono coloro che vengono indotti a lasciare il paese per motivi politici, e non era questa la condizione di molti dei nuovi arrivati, costretti, certo, a cercare asilo, senza tuttavia aver mai espresso opinioni politiche radicali. Il suo è invece l’esilio di un’ebrea, cioè di una persona appartenente a una religione, vittima di leggi e di persecuzioni razziali, non politiche. Per questo – Arendt ci tiene a precisare – «(…) con noi il significato del termine “profugo” è cambiato. Ora “profughi” sono quelli di noi che hanno avuto la grande sfortuna di arrivare in un paese nuovo senza mezzi, e che per questo hanno bisogno dell’aiuto dei Refugee Committees»[3]. Sono persone, cioè, costrette a lasciare il loro paese, dove non era più «opportuno» rimanere: «Volevamo ricostruire le nostre vite, e questo era tutto».
C’era bisogno di ricostruire se stessi dopo aver perso tutto, la casa, «(…) che rappresenta l’intimità della vita quotidiana», il lavoro, «(…) che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate»[4]. Ecco, la condizione dell’esiliato è quella della de-privazione, di una persona privata di tutto, che non ha perso solo i beni materiali, ma una parte di se stessa e della sua identità, costretta a ricostruire la sua vita quasi dal nulla. È importante il richiamo che Arendt fa alla lingua materna come parte essenziale dell’identità. Quando, nel 1964, in una conversazione televisiva il giornalista Günter Gaus le domanda che cosa le sia rimasto della Germania prehitleriana, lei risponde con decisione: «la lingua» e ribadisce di essersi sempre rifiutata, «(…) consapevolmente, di perdere la lingua materna. (…) Mi dicevo: che cosa ci si può fare? Non è la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna»[5], strumento di creatività linguistica e mediazione irrinunciabile delle relazioni affettive più intime, ma soprattutto dimora sicura ed elemento di identificazione non sottraibile.
Nel modo in cui lei descrive la condizione degli esiliati vi è anche in parte quella compassione verso se stessi, che anche Brecht scolpisce nei versi che descrivono la sua condizione di fuggiasco da un paese all’altro, quando, sconosciuto nei paesi di lingua inglese, è costretto anche lui a mettersi in fila e a ricominciare tutto da capo: «Devo battere di nuovo le vecchie strade / che ha levigato il passo dei disperati! / Mentre vado, non so ancora: da chi? / Dove arrivo, sento dire: “Spell your name!” Ah, questo “name” contava tra i famosi!»[6]. Il non essere riconosciuti nelle proprie identità produce uno spaesamento disperante, che spesso porta al suicidio per incapacità di continuare a stare in questo mondo divenuto alieno, nel quale è impossibile essere trattati come esseri umani dotati di una propria dignità. Condizione disperante che porta all’incapacità di scorgere cause e valori più alti di quello della vita. Arendt lo esprime con una tensione drammatica che percorre tutto l’articolo We refugees: «Invece di lottare – o di pensare a come riacquistare la capacità di lottare – i profughi si sono abituati a desiderare la morte per gli amici e i parenti», pensando che così evitino tanti guai e sofferenze.
Lottare per l’onore di tutto il popolo ebraico
Nel nuovo approdo anche Hannah Arendt deve capire come stare al mondo in un paese straniero, da ebrea perseguitata ed esclusa dalla società nella quale era cresciuta e si era formata. Anche per lei si pone il problema dell’identità personale nelle nuove condizioni in cui si sono venuti a trovare gli ebrei sopravvissuti. Per questo dà inizio a una ricerca di scavo sulle possibili identità degli ebrei nelle società in cui vivono. Lo fa soprattutto negli anni 40 fino a Le origini del totalitarismo. Si era convinta che «(…) meno siamo liberi di decidere chi siamo o di vivere come desideriamo, più ci sforziamo di presentare una facciata, di nascondere i fatti e di recitare una parte», che sia l’appartenenza a uno statussociale ed economico o a una cittadinanza, e concludeva: «Mancando del coraggio di lottare per un cambiamento della propria condizione sociale e giuridica, molti di noi hanno invece deciso di cercare di cambiare l’identità»[7]. In questa semplice frase è contenuta una ferrea convinzione che diventa la premessa di un programma di lavoro lungo tutto l’arco della sua vita: «cambiare la realtà sociale e giuridica e non l’identità degli ebrei». Il campo della soluzione del problema si spostava dall’ambito privato e individuale alla sfera squisitamente politica. I più consapevoli cominciavano a capire che la politica non è più e non può essere un privilegio dei gentili; era ormai acclarato che alla proscrizione del popolo ebraico in Europa era seguita subito quella della maggior parte delle popolazioni europee e che per la prima volta la storia ebraica non si presentava separata, ma strettamente legata a quella di tutte le altre nazioni. Arendt era convinta che «(…) il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in frantumi quando, e perché, permise che i membri più deboli fossero esclusi e perseguitati»[8].
Il disinteresse per la politica aveva portato personalità come Stefan Zweig a non accorgersi dell’antisemitismo che cresceva in Austria come in Germania e a ritenere che la celebrità conquistata potesse essere un salvacondotto per essere accettati nella società; che «(…) davanti a un ebreo celebrela società avrebbe dimenticato le sue leggi non scritte», togliendo forza e potere discriminatorio ai pregiudizi nazionali[9]. Zweig era infatti convinto che far parte di un consesso di celebrità internazionali potesse garantire una patria anche a chi era senza dimora. Ma con la Seconda Guerra mondiale anche questa illusione era crollata e alla fine, oltre a perdere beni, «rimase senza patria e senza una lingua propria». Egli tentò di fuggire la condizione di pariahrifugiandosi nella torre d’avorio della celebrità, «(…) ma non fu in grado di combattere contro un mondo che marchiava l’ebreo». La conclusione che Hannah Arendt ne trae è che «(…) l’onore non sarà mai conquistato col culto del successo o della celebrità, con la coltivazione del proprio Io, o anche con la dignità personale. Non c’è che un modo per fuggire la “vergogna” di essere ebreo – lottare per l’onore di tutto il popolo ebraico»[10].
Non aveva ragione perciò Gershom Scholem quando, dopo la pubblicazione del libro sul processo ad Eichmann[11], le rimproverava di non avere amore per il popolo ebraico. È noto il passaggio polemico della lettera in risposta (24 luglio 1963) nella quale Hannah Arendt rivendica orgogliosamente la sua ebraicità: «La verità è che io non ho mai avuto la pretesa di essere qualcosa d’altro o diversa da quella che sono, né ho mai avuto la tentazione di esserlo. Sarebbe stato come dire che ero un uomo, e non una donna – cioè qualcosa di insensato. So, naturalmente, che esiste un “problema ebraico” anche a questo livello, ma non è mai stato il mio problema – nemmeno durante l’infanzia. Ho sempre considerato la mia ebraicità come uno di quei dati di fatto indiscutibili della mia vita, che non ho mai desiderato cambiare o ripudiare. Esiste una sorta di gratitudine di fondo per tutto ciò che è così come è; per ciò che è stato datoe non è, né potrebbe essere, fatto; per le cose che sono physeie non nomo»[12].
Pariah consapevoli
Del «problema ebraico» Hannah Arendt aveva cominciato a occuparsi ben prima della catastrofe con la sua ricerca su Rahel Varnhagen[13]negli anni giovanili. La riprende negli anni 40 con un’altra prospettiva, servendosi delle categorie weberiane di pariahe parvenusociali. Il modo in cui rappresenta questi ultimi rappresenta una critica forte e chiara dell’assimilazionismo; esso porta a mutare la propria identità assumendo quella che meglio si confà al Paese e alla situazione in cui si vive, come degli «Ulissi-erranti» che rinunciano a sapere chi sono. Il cambiamento dell’identità in quegli anni di diaspora era frutto in verità di fattori sia soggettivi che oggettivi, dovuti cioè a esigenze dei paesi ospitanti e al loro modo di considerare i rifugiati: «La nostra identità viene cambiata così di frequente che nessuno può scoprire chi siamo realmente»[14]. Lei si schiera coi pariah«consapevoli», come li aveva definiti Bernard Lazare[15], con coloro che preferiscono restare ai margini della società e non rinnegarese stessi, ma conservando una loro identità e dignità. A questi Arendt attribuisce tutte le qualità ebraiche, «(…) il “cuore ebraico”, l’umanità, lo humor, l’intelligenza disinteressata», e ai parvenusociali tutti i difetti: «(…) la mancanza di tatto, la stupidità politica, i complessi d’inferiorità e l’avidità di denaro – sono caratteristiche dei nuovi ricchi»[16], convinti che la ricchezza faciliti l’assimilazione. Volevano essere «ebrei e al tempo stesso non ebrei», secondo l’espressione del teologo ottocentesco H. E. G. Paulus, ripresa da Bernard Lazare. Essi non volevano e non potevano più appartenere al popolo ebraico, ma «(…) volevano e dovevano rimanere ebrei – eccezioni tra gli ebrei», «(…) “uomini come gli altri per la strada, ma ebrei in casa”. D’altra parte, sentivano, in quanto ebrei, di essere diversi dagli altri uomini per la strada e diversi dagli altri ebrei in casa, perché erano superiori alla massa del popolo ebraico»[17].
Le difficoltà dell’assimilazione sono quelle magistralmente descritte da Kafka in Das Schlossgià nel 1922. Il protagonista K. non è ufficialmente un ebreo. È un personaggio astratto, ma le dinamiche di cui è protagonista e vittima descrivono al meglio la condizione dell’ebreo costretto a scegliere fra essere pariaho parvenu. K. rappresenta il dramma di chi cerca di essere se stesso in una comunità; «(…) nel romanzo parla l’ebreo che vuole solo quello che gli spetta di diritto: una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di cittadinanza»[18], né più né meno. Lotta per i suoi diritti, per poter diventare membro di una comunità, e non accetta elargizioni dall’alto, doni misericordiosi dal Castello. Non vuole vivere da pariahin un angolo sperduto della società e della terra coltivando solo l’illusione di un’esistenza libera ed umana, ma cerca l’integrazione attraverso il riconoscimento dei suoi diritti individuali, attraverso l’anonimato.
Il «diritto ad avere diritti»
La conclusione di K. è tuttavia improntata al pessimismo: nel villaggio «(…) non c’è posto per uomini di buona volontà che vogliano decidere della propria vita» e godere dei diritti fondamentali. Muore spossato e sconfitto, anche se le sue aspirazioni erano quelle giuste: trovare una terza via fra il pariahche si tiene lontano dalla politica e dalle lotte sociali rifugiandosi in una libertà interiore e il parvenuche si illude di aver creato una sua invulnerabilità. Quella ricerca di una nuova via è però divenuta necessaria dopo le tragedie del XX secolo. Ora – sostiene Hannah Arendt – «(…) non ci si può più isolare come uno “Schlemihl” o un “principe del mondo di sogno”. Non ci sono più “scappatoie individuali”»[19]per nessuno, né per il parvenuche nel tempo ha cercato di costruirsi «(…) di propria mano una sua libertà nel mondo in cui l’ebreo non era considerato un essere umano», né per il pariahche pensava di poter fare a meno di un mondo simile rifugiandosi in una soluzione individualistica giacché «(…) il realismo dell’uno non era meno utopico dell’idealismo dell’altro»[20]. Bisognava uscire da questi recinti protettivi ed entrare nel mondo. Il pariadoveva farsi ribelle, come aveva auspicato Bernard Lazare[21], essendo divenuto chiaro «(…) che la “libertà insensata” dell’individuo apre solo la strada alla sofferenza insensata del suo intero popolo»[22]. Arendt traduce quel «farsi ribelle» in un necessario duplice movimento: superamento della worldlessness, dell’acosmiache caratterizza la condizione di pariahe conquistadel mondo e delle sue relazioni.Mondo nel senso di sfera pubblica, di politica, di spazio in cui «(…) l’uomo dimora e si deve mostrare in modo conveniente»[23]. È utile ricordare che la concettualizzazione di questo «mondo» dove abitano gliuomini al plurale continuerà a essere una costante nella elaborazione arendtiana, sicuramente fino a Vita activa. Sono acuminate come pietre le parole scritte già in Le origini del totalitarismoa proposito della perdita dei diritti umani: «La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione (…), ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge (…) La privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto»[24]. Ci si è accorti che esiste un diritto preliminare ai diritti fondamentali – il «diritto ad avere diritti» – solo quando esso è stato perso, scomparso perché sono stati resi superflui gli individui, annientati nella figura del Müselmann, morti che camminano, privati della volontà e della loro individualità; privati del mondo, appunto.
Quell’«idea di umanità, che non esclude nessuno»
Quando parla del pariah consapevole nei primi anni 40 e della necessità che esso entri nel mondo Arendt sa già bene che neanche la rivendicazione di diritti ha efficacia se rimane confinata ai singoli individui e non diviene l’obiettivo di un popolo, rinunciando al rassicurante «stare-al-di-fuori-di-tutti-i-legami-sociali». È questa la differenza che Arendt aggiunge alla giusta intuizione di Kafka. Lo esprime in termini esemplari e decisi: «Poiché questa modesta intenzione di realizzare i diritti umani è, proprio per la sua semplice essenzialità, il progetto più grande e più difficile cui un uomo possa aspirare, nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana». Solo se è parte di un popolo il singolo può vivere come un uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forze; «(…) e solo un popolo in comunità con altri popoli può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini»[25].
Compare già in questi primi scritti dell’esilio la categoria di umanitàlegata a quella di pluralitàche sarà approfondita nelle opere che hanno reso celebre la filosofa politica. In termini politici – sostiene sulla scia di Kant – «(…) l’idea di umanità, che non esclude nessuno e che non attribuisce a uno solo tutta la colpa, è la sola garanzia che le “razze superiori” di ogni tempo possono non sentirsi obbligate a seguire la “legge naturale” del diritto del più forte e a sterminare “le razze inferiori che non sono degne di sopravvivere»[26]. Sono parole che dovrebbero restare scolpite nella mente di ciascuno, sempre. Non che Arendt non si rendesse conto di quanto fosse difficile conservare la fiducia nella costruzione di un mondo non razzista, sapeva che diventava sempre più pesante per l’uomo il «fardello del genere umano», ma riteneva importante non rinunciare a un orizzonte che da un lato, facesse fare un passo avanti verso il superamento del dualismo paria-parvenu e, dall’altro, delineasse l’idea – che ritornava a essere nuova – dell’appartenenza di ogni individuo, con la sua diversità, all’unico genere umano.
Parlando di Herzl e della sua convinzione circa la necessità di creare uno stato ebraico, dove «(…) gli ebrei potessero al tempo stesso sistemarsi e isolarsi» (1946), Hannah Arendt ripropone questo suo orizzonte ideale, la «terza possibilità», che chiama in causa gli uomini, le loro responsabilità e il genere umano in quanto comunità e afferma programmaticamente: «Solo quando arriviamo a sentirci parte integrante di un mondo in cui, come chiunque altro, lottiamo contro le disuguaglianze enormi e talvolta invincibili, ma con una possibilità di vittoria, per quanto piccola, e con alleati, anche se pochi; solo quando riconosciamo il backgroundumano che gli eventi recenti hanno travolto e ci rendiamo conto che quanto è accaduto è opera degli uomini – solo allora saremo in grado di liberare il mondo dalla sua qualità di incubo», un incubo che «(…) può inibire totalmente l’azione ed escluderci completamente dalla comunità degli uomini»[27].
[1]H. Arendt, Noi profughi(1943), in Ead., Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 1993, p. 37.
[2]H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano 1977, p. 410.
[3]H. Arendt, Ebraismo e modernitàcit., p. 35.
[4]Ibidem, p. 36.
[5]H. Arendt, La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, a cura di A. dal Lago, Mimesis, Milano 1993, pp. 41- 42.
[6]H. Arendt, Bertolt Brecht: il poeta e il politico(1966), in Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino, Bologna 1995, p. 105.
[7]H. Arendt, Ebraismo e modernitàcit., pp. 43-44.
[8]Ivi, pp. 48-49.
[9]H. Arendt, Ritratto di un periodo(1943), in Ead., Ebraismo e modernitàcit., p. 60.
[10]Ivi, p. 63
[11]H. Arendt,La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001.
[12]H. Arendt, Ebraismo e modernitàcit., pp. 221-22.
[13]H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, a cura di L. Ritter Santini, il Saggiatore, Milano 1988.
[14]Ivi, p. 43.
[15]Ivi, p. 48.
[16]Ibidem.
[17]Ibidem, p. 122.
[18]H. Arendt,Franz Kafka. L’uomo di buona volontà, (1944) in Ead., Il futuro alle spallecit., p. 14.
[19]Il riferimento è ad Heine di cui si occupa nel bel saggio Heinrich Heine. Lo schlemihl e il signore dei sogni(1944), contenuto in Ead., L’ebreo come paria.Una tradizione nascosta, a cura di F. Ferrari, Giuntina, Firenze 2017.
[20]H. Arendt, Il futuro alle spallecit., p. 21.
[21]H. Arendt, Bernard Lazare. Il paria consapevole, in Ead., L’ebreo come paria cit., p. 36.
[22]Ibidem, p. 60.
[23]H. Arendt, La lingua maternacit., p. 48.
[24]H. Arendt, Le origini del totalitarismocit., p. 410.
[25]H. Arendt, Il futuro alle spallecit., p. 21.
[26]H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale(1945), in Ead., Ebraismo e modernitàcit., pp. 75-6.
[27]H. Arendt, Lo Stato ebraico: cinquant’anni dopo dove ha portato la politica di Herzl?(1946), in Ead., Ebraismo e modernitàcit., p. 135.