METTERE AL CENTRO LA DIGNITÀ DELLA PERSONA
di Vannino Chiti
Non è sufficiente la pur necessaria analisi dei fenomeni che hanno portato alla vittoria dei partiti populisti in tanti paesi dell’Occidente e dell’Europa se non si va al cuore dei problemi che ne hanno favorito l’affermazione, denunciando i rischi autoritari che ne conseguono e cercando di prospettare sbocchi alternativi alle nostre società in crisi. La strada per una rifondazione della sinistra democratica non può che partire dalla constatazione che essa non è riuscita a comprendere la natura e la portata dei cambiamenti in atto e dalla consapevolezza che soltanto a partire dalla ricostruzione di un’etica pubblica e di valori condivisi sarà possibile contrastare la forza di movimenti fondati sull’esaltazione acritica e strumentale del «volere del popolo».
Una nuova fase della storia
Il mondo intorno a noi è cambiato e sta cambiando profondamente. Ormai non si tratta più di valutare l’intensità e i tempi delle trasformazioni. Stiamo vivendo una nuova fase nella storia dell’umanità. La rivoluzione tecnologico-informatica ha modificato modi di produrre, di viaggiare, di comunicare, stili, valori, modelli della vita quotidiana. Non potevano restare immuni la politica né la democrazia rappresentativa. Infatti così non è stato. La politica nel mondo occidentale vede negli ultimi tempi il trionfo dei populismi, la democrazia sta perdendo parte del suo fascino, la capacità di attrarre i popoli. Chiariamo subito: i populismi non sono un sinonimo per indicare la necessità di una stretta relazione tra istituzioni e cittadini. Rappresentano movimenti che hanno in comune l’esaltazione acritica e strumentale del popolo; la sua contrapposizione alle classi dirigenti – economiche, politiche, culturali – senza criteri di valutazione e distinzione nel merito dei comportamenti – il nazionalismo identitario e l’avversione agli stranieri e ai «diversi»; concezioni e obiettivi innervati di autoritarismo nell’organizzazione dello Stato. Sono queste impostazioni che rendono possibile l’incontro con partiti reazionari e fascisti. Se vogliamo cominciare a dare alla realtà parole che le corrispondano e non usare espressioni che ce la sfumino, forse perché ci impressioni meno, dobbiamo avere chiaro che il lepenismo è il fascismo del XXI secolo. La democrazia oggi è sfidata in modo non meno insidioso di quello dei totalitarismi di destra e di sinistra del Novecento. Si ammanta tutto con riferimenti gioiosi alla democrazia diretta: qualche centinaio di voti via Internet, sulla piattaforma «Rousseau» dell’Azienda Casaleggio, guida sostanziale del Movimento 5 Stelle, designano i candidati al parlamento, alcune decine di migliaia incoronano il candidato premier! Non scherziamo e soprattutto non culliamoci in sottovalutazioni: la storia dovrebbe avere insegnato ai popoli che la contrapposizione di una cosiddetta democrazia diretta alla democrazia rappresentativa sfocia in regimi di tipo autoritario. Il sogno politico che hanno in Europa le forze populiste e quelle della destra leghista è il modello realizzato in Ungheria da Orban: la democrazia illiberale. I termini si eliderebbero, la sua concreta attuazione è invece in corso: le elezioni danno ai vincitori un potere che va ben oltre la distinzione tra sfera del governo e terreno delle regole fondamentali, quelle che sono patrimonio comune dei cittadini, presidiate dalla Costituzione. La libertà di informazione viene ad essere condizionata e fortemente limitata; la Corte Costituzionale, la Banca Centrale rese subalterne ai governi; il Parlamento sostanzialmente esautorato. Le differenze tra questo ordinamento e quelli della Russia di Putin o della Turchia di Erdogan sono di assai minor rilievo di quelle esistenti con la Germania, la Francia, la Spagna o il Regno Unito. Si è insomma di fronte a quel dispotismo della maggioranza in cui già Alexis de Tocqueville vedeva un pericolo per le democrazie. Come siamo arrivati a questo punto? Come si è arrivati a questi rischi, che oggi occupano il nostro presente, nell’indifferenza di tanti?
Non sono sufficienti a spiegarli gli albori di una nuova epoca nella storia. Abbiamo conosciuto una crisi economica devastante, la cui durata ha superato quella della Seconda Guerra mondiale. Dalla crisi non si è usciti come eravamo prima: le disuguaglianze, che già esistevano, si sono ampliate a dismisura. Le ricchezze ancor più concentrate, i ceti medi, i lavoratori, le classi popolari impoveriti. È vero che nel mondo, gli ultimi tre decenni, con l’esplodere di questi processi che semplifichiamo con il termine «globalizzazione», hanno visto alcuni miliardi di persone, in Asia, Africa, America del Sud, affrancarsi da una situazione di povertà, ma anche in quei continenti sono cresciute le ingiustizie, le disparità. In Occidente l’accentuarsi dei divari di reddito, ha accompagnato il restringersi in poche mani dei poteri: quello finanziario, di controllo delle informazioni, della politica. Milioni di persone hanno visto ridursi il benessere, conosciuto una situazione di permanente incertezza. Il welfare è stato ridimensionato nella sua universalità e nella capacità di realizzare uguaglianza anche nella formazione, tanto che in Italia si è bloccato l’ascensore sociale che dà speranza di futuro, e nella sanità. In questo scenario si sono poi inserite possenti correnti migratorie: non è la prima volta, basti pensare a quelle di fine Ottocento – primi del Novecento o del dopo Secondo Conflitto mondiale, che hanno riguardato anche l’Italia come nazione dalla quale si partiva, a differenza di oggi. Questi enormi flussi di persone, spinte a fuggire da carestie, disastri ambientali, guerre spesso accese da nazioni occidentali, basti pensare all’Iraq o alla Libia, si sono però mosse in un quadro di gravissima crisi economica ed hanno rappresentato per alcuni paesi europei un incontro inedito con etnie, culture, religioni. La risposta alla crisi economica ed alle migrazioni è stata poi governata dalle forze di destra, affidata spesso a soluzioni nazionali; soprattutto, la sinistra non si è mostrata capace di una autonoma lettura critica dei processi in atto e della costruzione di programmi realmente alternativi. La globalizzazione ci ha incantato. Ora, per me, è evidente che essa è irreversibile e che rinchiudersi in ideologie sovraniste è tanto irreale, quanto reazionario. La globalizzazione tuttavia non si sviluppa attraverso percorsi unici, scontati ed automatici. In un’epoca nuova porsi l’alternativa tra innovazione o suo rifiuto pregiudiziale, porta a sconfitte certe, ma non esiste una «sola» innovazione, neutra e obbligata. Vi sono le innovazioni del neoliberismo, dettate dal dominio della finanza sull’economia reale, sul ridimensionamento dei diritti, la precarietà dei lavori, l’impoverimento della democrazia e vi sono le innovazioni di segno esattamente contrario, alternativo.
Un imperdonabile errore politico
Abbiamo pensato che la terza via, elaborata nel Regno Unito e divenuta bandiera di successo del New Labour, fosse il progetto giusto: nei primi anni Duemila si è mostrato non adeguato; l’insistervi oltre, negli anni della lunga crisi, è stato un imperdonabile errore politico. I ceti medi franavano, le condizioni di benessere si riducevano e la sinistra, in Italia e in Europa, andava alla ricerca di un centro sociale e culturale moderato. La separazione tra impegno sui diritti civili e politici e iniziativa su quelli economici e sociali ha, come sempre accade nella storia, allontanato i ceti popolari e il mondo del lavoro non solo dalla sinistra, ma dalle istituzioni della democrazia. Da qui occorre ripartire, da una rifondazione della cultura politica, dalla necessità di ritornare egemoni nella società, consapevoli di non sapere quanto questo tragitto, questa traversata saranno lunghi. Uno dei primi compiti è quello di impegnarci ad affrontare le povertà, a superarle, a ridurre le disuguaglianze: il fisco deve restare progressivo, il welfare universale. Lo sviluppo da realizzare, sostenere, è quello fondato sull’ecologia e la giustizia sociale. Il diritto ad un lavoro degno ed alla piena occupazione non sono superstizioni del passato, ma obiettivi dell’oggi: per riuscire a renderli possibili bisogna che i benefici della rivoluzione tecnologico-informatica si redistribuiscano non su pochi, dando vita a privilegi, ma sull’insieme della società, realizzando giustizia e condizioni di uguaglianza. Si tratta di introdurre innovazioni nel «cosa e come produrre», nella riorganizzazione e riduzione degli orari di lavoro, in attività nuove di sostegno alle famiglie e all’uguaglianza tra donne e uomini. Si tratta di conquistare innovazioni nei diritti sui luoghi di lavoro, facendo nostra la legislazione che in Germania da quasi cinquant’anni prevede una rappresentanza dei lavoratori nei consigli di garanzia delle imprese, dove si nominano i manager, si controlla il loro operato, si valutano e decidono le strategie. Non è questo che richiede un’economia nella nuova epoca, se si vuole che a prevalere siano la dignità della persona e profitti coerenti con la funzione sociale delle attività produttive? La democrazia non vive se chiusa nelle sole istituzioni: richiede una sua estensione nei luoghi dove si produce, si studia, nella convivenza quotidiana. Si incontra qui la questione della democrazia posta di fronte alle sfide del XXI secolo: limitata all’interno dei soli stati-nazione,la democrazia è destinata a non incidere sulla vita dei cittadini, a smarrire ogni funzione di rappresentanza dei popoli. In questo quadro il successo dei populismi e dei fascismi, nella varietà di forme e sigle con cui potranno presentarsi, sarebbe sicuro. Bisogna far diventare orientamento prevalente nei popoli, nell’opinione pubblica mondiale, la necessità di un rilancio e di una riforma delle Nazioni Unite. È all’ONU, non all’arbitrio dei più forti, che deve essere assegnato il ruolo guida per affrontare la sfida del clima, garantire la tutela dei diritti umani, prevenire e spegnere i conflitti. Dobbiamo far tornare ad essere vincente nei popoli del nostro continente il valore e l’obiettivo di una democrazia federale europea. L’alternativa non è «se» l’Unione Europea, ma come trasformarla in una compiuta democrazia federale alla quale siano affidate le competenze sulla politica estera, di difesa, di sicurezza, nelle scelte macro-economiche, nel riequilibrio solidale tra i suoi cittadini e territori; e come individuare e realizzare i passi graduali che scandiscano il raggiungimento di questo traguardo, dalla cooperazione rafforzata alla coincidenza tra presidente della Commissione e del Consiglio europeo, dalla elezione in questo ruolo del candidato che ha visto prevalere il suo schieramento nel voto per il Parlamento europeo alla sua elezione diretta da parte dei cittadini. Superare il deficit di democrazia che ancora pesa sull’Unione Europea è il passaggio necessario per ricollegarla alla vita delle persone, ai loro bisogni, alle loro aspirazioni, per restituire futuro ad un sogno che fu di Altiero Spinelli e di tanti altri, per evitare la decadenza del nostro continente, la sua irrilevanza nel mondo, il suo riprecipitare in contese e scontri tra i rissosi staterelli che ne fanno parte.
Fiducia consapevole e speranza responsabile
Infine, ma è un aspetto decisivo, è indispensabile ricostruire un’etica pubblica, valori condivisi che orientino la società, la nostra convivenza, l’economia, la cultura, la scienza, la politica. Oggi, nel vuoto, ciò che si impone è l’individualismo egoistico e amorale, il mito del successo ad ogni costo, la ricchezza comunque accumulata come criterio assoluto di valutazione dei meriti. Su queste basi la democrazia non può che svanire. I valori da affermare sono la dignità della persona, di ogni persona, quale che sia la sua etnia, fede religiosa, cultura. È la persona il criterio con il quale valutare la qualità delle società, dello sviluppo, della scienza, dell’organizzazione degli Stati; una cittadinanza fondata non sul diritto di sangue ma su quello della residenza, rispettosa dei principi costituzionali e della legalità, dei diritti e dei doveri che ad ognuno sono affidati; l’ecologia, inseparabile ormai dalla giustizia sociale e dalla uguaglianza, senza cui non si ha sviluppo né futuro, per il pianeta e per le generazioni che verranno dopo di noi; la nonviolenza, il disarmo, la pace.
Affermare una nuova etica, come senso e cultura di vita, rinnovare la democrazia, altrimenti anche un successo nelle elezioni sarebbe effimero, sconfiggere populismi e fascismi non sarà né facile, né probabilmente racchiuso in un tempo breve. È tuttavia il cammino da intraprendere, per non gettare la spugna, rassegnarsi al presente, privarsi del senso critico nei confronti delle ingiustizie, delle disuguaglianze, dei rischi che gravano sull’umanità. Il nostro dovere è quello di recare un piccolo contributo di pensiero e di azione perché fiducia consapevole e speranza responsabile, diritti e doveri, riescano a caratterizzare in positivo la nuova epoca che sta sorgendo.