MA, INVECE DEL SOCIALISMO LIBERALE, ARRIVÒ IL LIBERAL-LIBERISMO
di Valdo Spini

Dopo il 1989, in base alla teorizzazione della «terza via» di Blair, e a seguito di una lettura ottimistica dalle prospettive della globalizzazione, con l’arrivo e il protrarsi della crisi, che in Europa ha indebolito soprattutto i ceti medi, la sinistra europea ed italiana in particolare, sembra aver perso la propria identità e soprattutto il rapporto con la sua tradizionale base sociale, ormai tutt’altro che insensibile al messaggio dei movimenti populisti e sovranisti. Urgente è ripartire dalla ricostruzione di quel rapporto fiduciario con le fasce più svantaggiate della popolazione che è stato da sempre prerogativa della sinistra, recuperando slancio ideale, riformando l’organizzazione delle forze politiche e resistendo alla deriva politica e culturale attualmente in atto.

Quando cadde il Muro
Dopo il 1989, anno della caduta del muro di Berlino, credevamo che il futuro appartenesse largamente al socialismo democratico e liberale, essendo il socialismo autoritario e dittatoriale, il comunismo realizzato, caduto con il muro stesso e con la dissoluzione, nel 1991 dell’Unione Sovietica. Invece ci siamo trovati di fronte al crescere dell’antagonista storico del socialismo liberale, cioè il liberal-liberismo, quello che oggi viene definito più polemicamente come ordoliberismo, che ha prodotto nuove e più sensibili disuguaglianze. Il fatto è che l’ordoliberismo si è trovato avvantaggiato, piuttosto che svantaggiato, come sarebbe avvenuto in altri periodi storici, da questa divaricazione delle disuguaglianze che caratterizza gli anni che stiamo vivendo. Oltre al fatto che tale divaricazione non ci piace come valore, essa è pericolosa socialmente e negativa economicamente e ha provocato e provoca uno scollamento tra politica e società. Ma c’è un paradosso che non abbiamo ancora affrontato e adeguatamente analizzato. In una tale situazione si è avvantaggiato il centrodestra piuttosto che la sinistra. A quel punto, molti nella sinistra hanno pensato di riguadagnare terreno imitando e portandosi sul terreno del liberismo attraverso la cosiddetta «terza via», ponendo soprattutto una fiducia incondizionata sugli effetti della globalizzazione. Per carità, spesso i partiti socialisti o di sinistra offrivano personale politico più giovane e brillante di quello conservatore o centrista, penso alla vicenda Blair, però poi si è visto che inseguire la destra e i conservatori, ha portato a perdere da tutte e due le parti. La globalizzazione ha favorito un progresso nelle condizioni di vita di centinaia di milioni di abitanti di paesi rimasti indietro nello sviluppo, ma non ha implicato automaticamente un miglioramento delle condizioni di vita e di potere delle classi lavoratrici e del ceto medio dei paesi già sviluppati. Credo che, in buona fede, i leader socialisti europei o quelli democratici Usa pensassero che la globalizzazione avrebbe portato ad un miglioramento delle condizioni di vita, reddito e potere, anche delle fasce sociali che tradizionalmente erano della sinistra, il che non è però avvenuto in varie aree sociali e/o territoriali. Ciò per via della delocalizzazione delle industrie, per la concorrenza al ribasso del costo del lavoro da parte dei paesi in via di sviluppo, per i processi migratori in atto. Tutto questo ha creato aree di sofferenza nella società e in particolare in aree elettorali proprie del Partito Democratico in America, nonché delle socialdemocrazie e comunque delle forze di centro-sinistra in Europa. Così, accanto al socialismo democratico e liberale e al liberal-liberismo è arrivato e si è affermato un terzo protagonista politico, il sovranismo identitario; anche per il massiccio flusso di immigrazioni, che, a causa dei conflitti in atto, e del mancato coinvolgimento dell’Africa nel processo di sviluppo, si è messo in movimento. Proprio la nostra base sociale, quella operaia lavoratrice e del ceto medio, ha reagito negativamente a questi fenomeni. Ci sono situazioni, penso ad esempio alla Svizzera, in cui votano il Partito Socialista i ceti medi ben ispirati, cioè chi ha dei valori positivi di accoglienza, fraternità e solidarietà, ma spesso le classi sociali che votavano un tempo a sinistra votano a destra. Si pensi alla Francia, dove aree del Paese votano a destra perché le cittadine e i cittadini ritengono che le loro conquiste vengano messe in crisi proprio dall’immigrazione. Se le sinistre e i partiti socialisti hanno un atteggiamento positivo e di integrazione, allora si pensa «abbandoniamo questi partiti e votiamo destra» per reazione alle tendenze in atto, di cui non si vede un prevedibile arresto.

Con l’unica eccezione di Corbyn
Questo è un tema comune a tutta l’Europa, fronteggiato, meglio o peggio, a seconda delle singole situazioni nazionali. Paradossalmente siamo stati più esposti noi a tali negative conseguenze, mentre le classi centriste-liberali se la sono cavata meglio. Si pensi al fenomeno politico Macron, che riesce a fermare la destra di Marine Le Pen dichiarandosi né di destra né di sinistra. Il Partito Socialista francese faceva un tempo da mediazione fra la sinistra più radicale e quella più riformista, (Mitterrand fu molto bravo in questo) ma una mediazione siffatta è oggi saltata. Del resto la vicenda americana presenta notevoli analogie. Donald Trump ha vinto le presidenziali americane prevalendo a sorpresa negli stati, come l’Ohio, dei cosiddetti Blue Collars, cioè della classe operaia bianca, che non si è sentita adeguatamente difesa dal suo tradizionale punto di riferimento, il Partito Democratico. L’unica eccezione a questo processo è stato Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, dove una ripresa di linguaggio, di pratica e battaglia socialista, non ha significato una emarginazione elettorale ma anzi, una minoranza così consistente da poter credibilmente porsi il problema di costituire una potenziale alternativa. Più recentemente si è delineata una tendenza diversa nell’Europa mediterranea, dove accanto ai governi del socialista Antonio Costa in Portogallo e di Alexis Tsipras, con il suo partito Syriza, in Grecia, si è affiancato il nuovo governo di Antonio Sanchez in Spagna: ma l’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo scorso certamente non si iscrive in tale quadro, che poteva presentare per il nostro Paese un aspetto geopolitico promettente di fonte alle altre costellazioni di stati che si sono formate nell’Unione europea, da quella dell’Est a quella baltica. Va sottolineato che il documento più organico e più ispirato sulle vicende del nostro pianeta e sulle sue contraddizioni, è venuto recentemente dalla Enciclica Laudato si’ di papa Francesco, non da un’organizzazione politica laica. Possiamo ricordare che nel 1979 era stato il Rapporto Nord/Sud, un programma per la sopravvivenza, steso per conto dell’Onu da Willy Brandt allora Presidente dell’Internazionale Socialista, a richiamare la nostra attenzione sui drammatici equilibri del mondo.

La narrazione stonata della sinistra italiana
In Italia le forze del centro-sinistra hanno veramente perso il controllo della situazione. Mentre il Censis, nel suo ultimo rapporto, sottolineava come fosse in crescita quella che definiva come «l’Italia del rancore» per il timore del declassamento sociale in vaste aree del ceto medio e delle classi lavoratrici, si continuava ad insistere da parte dei leader di centro-sinistra su una narrazione positiva della situazione economica e sociale che non trovava corrispondenza nel comune sentire della popolazione e provocava quella reazione di distacco elettorale cui abbiamo assistito il 4 marzo u.s. Nel frattempo la cifra della povertà saliva ai cinque milioni di cittadini e l’avvento concreto del ReI (Reddito di Inclusione) non veniva sottolineato con l’importanza che si meritava, a vantaggio della promessa, ancora tutta da realizzare, del Reddito di Cittadinanza, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle nel Sud del nostro Paese. Né, d’altro canto, esistevano più per la sinistra stessa rendite di posizione elettorale da andare semplicemente a ricercare, altrimenti non si spiegherebbe il deludente risultato elettorale di LeU. L’Italia è risultata percorsa da un gigantesco mutamento nei rapporti tra società e politica che andava aldilà dei tradizionali schieramenti e di cui molti apprendisti stregoni non si erano affatto accorti. Riflettiamo su di un fatto che, dal punto di vista politico-istituzionale si è rivelato molto importante. Nei tempi più recenti, si è proceduto a ben sei riforme elettorali in pochi anni: «(…) un’assoluta anomalia e un record poco invidiabile per un Paese democratico. Com’era prevedibile, questi cambiamenti non hanno risolto nessun problema né hanno garantito la governabilità. Anzi, hanno creato nuovi guai politici». (Così Gerhard Mumelter, in «Internazionale» del 20 marzo 2018). Si era diffusa e celebrata l’ideologia della rottamazione, riferendosi evidentemente alla sostituzione del personale politico esistente con uno del tutto nuovo, ma non si era compreso che l’opinione pubblica più in generale l’avrebbe intesa in senso più ampio, investendo e screditando proprio i filoni ideali e politici in cui erano cresciuti i potenziali rottamandi. Si è parlato del Senato della Repubblica da parte dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi paragonandolo a un tacchino: «È la prima volta al mondo che i senatori votano per la loro abolizione. È la prima volta al mondo che il tacchino vota per anticipare la festa del ringraziamento», così affermò a Firenze, aprendo la campagna referendaria per il Sì al referendum istituzionale. Ci si meraviglia poi se l’ispiratore del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, propone, scherzando ma non tanto, che il Senato venga scelto per sorteggio. Si è teorizzato il «partito leggero» e questo è divenuto tanto leggero da evaporare. In tante zone difficili delle nostre aree metropolitane o c’è una parrocchia di una chiesa che si prodiga nel sociale, oppure c’è il vuoto e si afferma magari un associazionismo criminale.

Recuperare le idealità
Sarà possibile riconquistare le nostre classi elettorali tradizionali? Certo, sappiamo quanto quella concezione della politica improntata alla sottovalutazione delle organizzazioni intermedie, all’abbandono delle aree sociali svantaggiate, del focalizzarsi solo sui ceti emergenti, del considerare chi non è emergente in fondo colpevole di non esserlo, con conseguente emarginazione, sia stata estremamente negativa, e si sia poi tradotta a livello di organizzazione in partiti talmente «leggeri», che non si occupavano di tenere i rapporti con il territorio. Su questo credo che un’idea chiara l’abbiamo, e dobbiamo assolutamente essere capaci di riconquistare questo rapporto, almeno in parte, con le nostre tradizionali classi elettorali e sociali. Ciò significa frequentare quartieri, gente emarginata e senza lavoro e non solo industriali, informatici, la classe dirigente in generale. Questo è il lavoro che deve fare la sinistra, non può essere lasciato soltanto alla Chiesa o ad altri. Qui c’è lavoro per una nuova generazione di militanti. Le possibili linee di ricerca di un recupero sono due. L’una ideale e l’altra organizzativa. Dal punto di vista ideale, tutti ormai denunciano che alla radice della situazione attuale del Partito Democratico vi è stata una fusione a freddo tra la tradizione postcomunista e quella postdemocristiana di sinistra, ma poco si fa per superare nei fatti tale stato di cose. Al massimo si parla di un ritorno all’Ulivo e al suo spirito originario, dimenticandosi che indietro non si torna mai e che l’Ulivo appartiene ad una fase storica, quella successiva alla caduta del Muro di Berlino negli anni Novanta, del tutto superata dal succedersi serratissimo degli avvenimenti politici internazionali. Allora si trattava ancora di gestire l’onda lunga delle divisioni della Guerra Fredda. Oggi bisogna, invece, ricostruire una forza riformista coerente, all’insegna dell’endiadi indissolubile di giustizia e di libertà che sappia e dimostri di saper affrontare quello che è il nodo delle scollamento politico-sociale e cioè il fatto che l’Italia sia il fanalino di coda della crescita dei paesi UE, nelle sue cause, nelle sue dimensioni, nei suoi rimedi e che su questo formi e mobiliti un nuovo blocco sociale nel Paese.

Ripensare l’organizzazione
Sul piano dell’organizzazione, penso che la politica di domani debba tener conto di tutti e tre i fattori in gioco nella rappresentanza politica. Il primo è quello del «Partito Comunità», un insieme di soggetti che lavoravano insieme, si conoscevano direttamente e selezionavano il personale dirigente sulla base della comune esperienza di militanza. Poi è arrivata la televisione a superare e a rompere il «Partito Comunità», perché con essa si poteva parlare direttamente ai soggetti che si volevano interessare senza bisogno di una conoscenza personale o giornalistico-libresca e quindi si procedeva a selezionare il personale mediante le primarie, il rapporto diretto tra il leader e i rappresentati permesso proprio dalla televisione. Poi ancora è arrivata la Rete, che può prescindere anche dalla televisione e costituire una comunità virtuale che riesce a coinvolgere le persone sui social. Penso che la politica di domani dovrebbe ricomporre tutti e tre questi momenti. Il «Partito Comunità» – cioè il conoscersi e lavorare assieme – a mio parere non può essere eliminato del tutto. Questo mi sembra un gran lavoro per le prospettive di domani: ricostruire momenti di partecipazione politica, in particolare giovanile. Questo per non abbandonare tutto il campo alle primarie e regolando le medesime. Bisogna evitare, cioè, di fare in modo che versando qualche Euro in occasione delle primarie stesse, di fatto si acquisisca più potere di chi milita in un circolo di partito e quindi scoraggiando tale tipo di partecipazione. Per quanto riguarda la Rete, se ne possono riscontrare molti positivi sviluppi democratici, in particolare la possibilità di non dipendere più solo dallo spazio che un personaggio o una forza politica può trovare sui media, ma di poter trovare un proprio spazio di presenza, di iniziativa e di dibattito incontrando le persone sui social. Meno ottimistici si dovrebbe essere circa la possibilità che consultazioni in Rete sostituiscano il voto come mezzo di selezione dei candidati o del personale dirigente. Spesso si assiste ad una selezione compiuta con quantità minoritarie di partecipanti rispetto all’area di potenziale o effettivo consenso. Viene quindi da domandarsi quanto queste siano rappresentative.

Una prospettiva riformista moderna
C’è poi l’aspetto politico. Ho fatto un’esperienza particolare: nel 2009 mi sono candidato sindaco in competizione con Matteo Renzi, alla testa di un gruppo di liste civiche e di sinistra, e conseguii quel buon numero di voti che lo portò al ballottaggio con il candidato di centro-destra. Solo che Renzi non volle costituire formalmente con noi una maggioranza, perché tanto sapeva che personalmente non avrei mai potuto dire «votate Popolo delle libertà», e quindi poté prescindere da qualunque impegno e rapporto con la nostra esperienza. Ma questa esperienza, in mezzo a molti difetti, aveva avuto comunque il pregio di mettere insieme forze autenticamente civiche, di contrapporre al «nuovismo» non la difesa del passato, ma una prospettiva riformista moderna all’insegna dei Rosselli. Oggi, a distanza di tempo, forse anche questa testimonianza assume un senso: quello di non arrendersi alle derive imperanti, di operare per mantenere aperte riflessioni, possibilità di presa, dibattiti e discussioni. Non dobbiamo infatti dimenticare che si verifica una crisi della società politica quando e se non c’è alle spalle una ripresa della società civile. Proprio «Testimonianze», con il suo movimento che continua oltre e in fedeltà con padre Ernesto Balducci, ne costituisce la conferma e la riprova vivente. È un luogo giusto e opportuno per pubblicare questo intervento.