QUELL’ANTICO MONITO DI BOBBIO
di Gianfranco Pasquino
Per capire la crisi di rappresentanza che caratterizza l’attuale situazione politica, non solo italiana, è opportuno formulare, criticamente e autocriticamente, alcune riflessioni relative all’analisi di tre fenomeni che hanno segnato la storia dell’Europa negli ultimi trent’anni, determinandone in gran misura gli esiti attuali: la fine del comunismo (ma non delle cause che ne avevano prodotto l’esperienza storica); l’allargamento frettoloso dell’unificazione politico-economica dell’Europa; l’affermazione della globalizzazione accompagnata dalla crescita delle diseguaglianze in molti paesi. Solo nell’impegno per la soluzione di tale problema trova la sua ragion d’essere una politica veramente rinnovata.
Un’autocritica non da «sinistra al caviale»
È arrivata l’ora dell’autocritica non come vezzo degli intellettuali radical-chic, della «sinistra al caviale» o di altre piacevolezze, ma perché una autocritica condotta a fondo è un esercizio pedagogico decisivo. Dagli errori si impara e diventa possibile andare oltre. Se è emersa una crisi della rappresentanza, se è cresciuto il divario fra società e politica, se i populisti attaccano con notevole successo l’establishment, se l’euroscetticismo è diventato più diffuso dell’accettazione, peraltro mai entusiastica, dell’Unione europea, se sono comparse nuove diseguaglianze, quanti di questi fenomeni gli studiosi avevano previsto, quanti sono giunti del tutto inaspettati, come è possibile cercare di porvi rimedio? Tre fenomeni di grande respiro e di enorme impatto hanno ridisegnato la storia dell’Europa e del mondo negli ultimi trent’anni: primo, il crollo del comunismo che sembrava realizzato nell’Europa centro-orientale e in Unione Sovietica e la fine del richiamo della sua ideologia, ma, come Norberto Bobbio mise immediatamente in rilievo, nessuna scomparsa dei problemi e delle ingiustizie alle quali il comunismo aveva inteso porre rimedio, e, oggi sappiamo, ritorno alla superficie di nazionalismi beceri; secondo, l’allargamento, forse un po’ affrettato, e l’approfondimento (Euro, monco sul piano fiscale) del processo di unificazione politico-economica dell’Europa; terzo, l’affermazione in ogni angolo del mondo, seppure con qualche differenza di intensità e di penetrazione, della globalizzazione. Non è facile tenere insieme questi tre fenomeni e offrirne un’analisi e una spiegazione unitari, ma è importante individuarne le connessioni e, di volta in volta, gli errori interpretativi.
La globalizzazione e i suoi critici
Consapevole della difficoltà di una precisa datazione, comincerò dalla globalizzazione poiché, praticamente per definizione, è il fenomeno più comprensivo. Fin da quando in maniera sparsa emerse la consapevolezza che determinati processi, in particolare economico-finanziari, si diffondevano sostanzialmente non filtrati e non controllati in tutti i sistemi politici del mondo e altri processi, quelli relativi alla comunicazione, non solo politica, acuivano la sensibilità di governanti e cittadini e accrescevano le informazioni disponibili, seppure in maniera differenziata, un po’ a tutti i protagonisti, la globalizzazione ebbe suoi numerosi, spesso un po’ improvvisati e superficiali, critici. Quei critici erano e sono rimasti un gruppo molto composito nel quale sembrano tuttora predominare i protezionisti e i comunitaristi. Le motivazioni dei primi nascono soprattutto dai timori per le attività economiche del loro Paese, delle industrie, dell’agricoltura, delle condizioni dei lavoratori dipendenti, ma anche di gruppi tanto potenti quanto inefficienti. Quelle preoccupazioni si sono tradotte nell’opposizione al libero commercio che, invece, è considerato dalla maggior parte degli economisti come uno dei motori fra i più importanti della crescita economica (e persino delle società aperte). Certo, il libero commercio unitamente alla libera circolazione dei capitali associati con la globalizzazione e dalla globalizzazione facilitati ha avuto conseguenze distruttive per alcune attività e creato forti tensioni sociali. I dati mondiali, dal canto loro, rilevano e rivelano una maggiore disponibilità di risorse, ma solo di recente hanno messo in evidenza anche che la ricchezza complessiva si è accompagnata alla crescita delle diseguaglianze economiche e sociali all’interno di una molteplicità di paesi, persino di quelli ricchi e, un tempo, «egualitari». Quanto ai comunitaristi, quasi tutti loro associano, in larga misura correttamente, la globalizzazione al multiculturalismo, opponendosi sia all’una sia all’altro. Lottano ostinatamente per proteggere stili e modalità di vita, culture specifiche, identità dei più vari generi. Ne sottolineano l’importanza e, di conseguenza, contrastano visioni e prospettive multiculturali acritiche. No, multiculturalismo non è bello. Anzi, secondo i comunitaristi, il multiculturalismo è una sfida portatrice di tensioni e di conflitti, foriera di perdita di identità e di sfaldamento di comunità che lasceranno/lascerebbero tutti, nient’affatto arricchiti dalle diversità, ma culturalmente più poveri e «spaesati». A questa sfida, al tempo stesso economica e identitaria, in alcuni paesi coinvolti forse più di molti altri nel processo di globalizzazione poiché vere e proprie società aperte, come la Svezia, come la Gran Bretagna, come gli USA, hanno fatto seguito reazioni sconcertanti. Ne sono testimonianza rimarchevole e inquietante il successo elettorale dei Democratici Svedesi, partito sicuramente xenofobo e identitario, la Brexit prodotta dal referendum del giugno 2016, la conquista della Presidenza di Donald Trump nel novembre 2016 all’insegna del motto America First.
Quel che Bobbio ricordava alla sinistra
L’elemento che accomuna queste esperienze è costituito dalla mobilitazione non organizzata di coloro che potrebbero essere definiti i perdenti della globalizzazione o che si ritengono tali. Che i voti decisivi per la Brexit siano venuti da uomini bianchi del Nord dell’Inghilterra, Liverpool, Manchester, Newcastle, mentre Londra ha votato con elevate percentuali per restare nell’Unione europea; che Trump sia stato portato alla Presidenza USA dai voti di migliaia di operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, del Wisconsin, malauguratamente, ma in maniera rivelatrice, definiti deplorable (da deplorare/compatire) dalla candidata Hillary Clinton; che nella Svezia, da molti giustamente considerata una (social)democrazia di grande successo, più del 10 per cento di elettori dia il suo consenso a un partito deliberatamente anti-europeo e xenofobo non sono accadimenti che possono essere liquidati scrollando le spalle e, nei due casi anglosassoni, sostenendo che quegli elettori hanno semplicemente sbagliato e se ne accorgeranno. Difficile dire se e quando se ne accorgeranno e con quali conseguenze, non soltanto sul loro comportamento di voto, ma sulla società. Prendiamo, però, atto che a fondamento del loro voto stanno motivazioni che non sono affatto deplorevoli e transeunti. Non sarà il miglioramento, peraltro non facile e non scontato, delle condizioni di vita di quegli elettori a produrre il cambiamento delle loro opzioni di voto. Né il cambiamento del voto risolverà problemi che sono identitari e culturali. Nel caso degli USA la capacità di mettere insieme le minoranze, afro-americani, latinos, donne (sic), potrà servire ai Democratici per vincere qualche elezione, persino per tornare alla Presidenza, ma di per sé non migliorerà la politica e neppure la società. Il grido Black Lives Matter non perderà il suo significato contro il razzismo persistente e strisciante. La preoccupazione per la crescente presenza di latinos con i loro stili di vita, la lingua, il tipo di legami familiari, non verrà meno. Le varie diseguaglianze, che non hanno soltanto una, importantissima, componente economica, ma che si traducono in una visione di società, non saranno neppure affrontate qualora non siano approntate le politiche opportune. Non saranno certamente i banchieri della City di Londra e i brokers di Wall Street, i signori della tecnologia della Silicon Valley e le donne e gli uomini dell’establishment della East Coast a presentarsi credibilmente come coloro in grado di rappresentare quei settori sociali, di proteggerne le identità e di operare per contenere e ridurre le diseguaglianze. Nessuno riuscirà a sostenere convincentemente la tesi che bisogna dare risposte che riguardano i diritti, di ogni tipo, in particolare quelli riguardanti gli orientamenti sessuali, finendo per sottovalutare le diseguaglianze in termini di riconoscimento e di opportunità, di sostenere che prima vengono le diversità, poi le ricompense, di considerare che lo ius soli è più importante e più qualificante del diritto al lavoro. La sinistra che non agisce prioritariamente per ridurre le diseguaglianze ha perduto, sosterrebbe Norberto Bobbio, la sua ragion d’essere, la sua anima. La sinistra continuerà anche a perdere consistenza e rilevanza politica a fronte delle sfide diversamente populiste che hanno fatto la loro comparsa un po’ dappertutto in Europa (e altrove). Infatti, è fra gli stati-membri dell’Unione europea che, a sessant’anni dal Trattato di Roma, i populismi sembrano avere trovato accoglienza migliore e spazi più ampi.
Popolo contro estabilishment?
I populisti vanno alla ricerca e alla conquista di coloro che ritengono sia più importante preservare e celebrare l’identità nazionale, se non addirittura quella locale, piuttosto che perseguire e conseguire quei vantaggi economici, la cui esistenza peraltro negano, che derivano dall’apertura alla globalizzazione e al libero commercio. I populisti mobilitano quello che considerano il «loro» popolo, mai tutto il popolo, contro l’establishment. Lo definiscono e lo ridefiniscono sostenendo di essere i soli in grado di rappresentarlo contro l’Europa dei banchieri e dei tecnocrati. Vogliono offrirgli protezione contro le ondate di migranti che non solo potrebbero rubargli il lavoro, ma che minacciano i loro stili di vita, le loro credenze religiose, le prospettive della loro prole. È stato profondamente sbagliato sottovalutare questi sentimenti, ritenendoli un retaggio del passato in via di superamento e, peggio, criticandoli come segno di arretratezza e deridendoli. In qualche convegno a Davos, in riunioni ristrette a Bruxelles, a un vernissage parigino, nel foyer di un teatro londinese, ad una prima della Scala, forse anche alla Freie Universität di Berlino è molto facile trovarsi d’accordo sul fatto che l’Unione Europea è un grande progetto di unificazione politica che sta mettendo insieme una pluralità di culture a partire da una base che si dice essere comune (ma, da qualche tempo, mi chiedo che cosa unisca Dante e Shakespeare, Leonardo e Picasso, Miguel de Cervantes e Franz Kafka, Thomas Mann e Albert Camus e se non siano patrimonio limitato ad una minoranza, le classi culturalmente meglio attrezzate), da una storia condivisa, ma intessuta di conflitti e di guerre civili, da prospettive ancora adesso nient’affatto precisamente definite. A fronte delle molte irrisolte problematiche economiche, di creazione e di distribuzione della ricchezza che non hanno ridotto vecchie diseguaglianze e ne hanno prodotte di nuove, la risposta in termini di cultura non (mi) è finora sembrata adeguata. Ha aperto spazi ai sovranisti che non sono stati contrastati convincentemente facendo notare che è molto improbabile che qualsiasi singolo Stato europeo riesca da solo a risolvere i problemi prima e meglio di quanto faccia l’Unione europea. È una lezione che persino la pur grande ed efficiente Gran Bretagna sta imparando a sue spese, il cui ammontare non sarà mai controbilanciato in toto dall’accentuazione tutta «culturale» dell’identità: la Britishness.
Un dramma contemporaneo
Il senso complessivo della mia riflessione su globalizzazione, Unione europea e diseguaglianze può essere condensato in due considerazioni e due conclusioni. La prima considerazione contiene anche una personale autocritica. Ho creduto che tanto la globalizzazione quanto l’Unione europea fossero processi in grado di produrre e offrire maggiori opportunità senza lasciare indietro nessuno, tranne per poco tempo, e che i costi di entrambe sarebbero stati distribuiti in maniera relativamente equilibrata fra tutti i settori sociali, pur implicando vantaggi, sperabilmente non eccessivi, per coloro che già sono privilegiati. Non è stato così. La seconda considerazione, ugualmente da accompagnarsi con una modica dose di necessaria autocritica, è che, affidate le problematiche economiche alla competitività e al mercato della globalizzazione e dell’Unione europea, ho creduto che tutti gli aspetti di cultura e di identità fossero, per così dire, da un lato, «privatizzabili», vale a dire, risolvibili in proprio dai vari gruppi oppure, questo, sicuramente, errore più grave, superabili con l’ascesa del repubblicanesimo delle regole e dei diritti delle persone. Non soltanto alcune delle tematiche identitarie si sono dimostrate irriducibili, anche perché spesso trattate con condiscendenza, ma sono anche risultate non negoziabili e i loro portatori non saranno, almeno nel loro e nel nostro tempo di vita, soddisfatti da nessuna promessa di scambio: «più risorse economiche meno esaltazione dell’identità», meno che mai se riguarda le loro famiglie e i loro figli. La prima delle due «code» riguarda direttamente le elaborazioni e le attuazioni della sinistra ovvero il suo lento, graduale, ma apparentemente inarrestabile, scivolamento verso posizioni incapaci di comprendere quanto nella vita delle persone contino gli elementi di comunità in senso lato: con chi si vive, con chi si lavora, quali nostalgie legittime si hanno per il passato, quali aspettative di cambiamento prevedibile per il futuro, ma anche quali siano le distanze sociali e le diseguaglianze inaccettabili prodotte dalla globalizzazione. La seconda coda è data dalla constatazione che non sono emerse personalità in grado di elaborare una narrativa di ampio respiro e di profondità della globalizzazione e di svolgere il compito di leadership a livello europeo. La mancanza nelle democrazie europee e negli USA di leadership dinamiche e capaci di disegnare il futuro, innovative e empatiche, è un vero e proprio dramma contemporaneo. Non sono alla ricerca di personalità carismatiche, ma di predicatori appassionati, credibili, capaci di delineare un percorso condiviso per popoli e per persone. Consapevole che quanto ho qui scritto è poco più di un insieme di spunti schematici, suscettibili di una molteplicità di approfondimenti, mi auguro che siano degni di attenzione e mi ripropongo di rivisitarli e ampliarli.