UN UNICO CORPO SONORO

di Mia Lecomte e della «Compagnia delle poete»

 

L’ensemble poetico-teatrale della «Compagnia delle poete» unisce poesia e teatro al femminile – una scelta che è nata inizialmente solo come un’intuizione – e si sviluppa nel lavoro sui testi, che rivela la vicinanza «carnale» dei versi, e nell’universo performativo del corpo, donando allo spettacolo una grande coerenza testuale e rappresentativa. I diversi vissuti personali, le diverse esperienze e lingue d’origine delle autrici, contaminano l’italiano, lingua comune, creando una sorta di trans-linguaggio che interagisce con il tessuto musicale, con le voci, con i corpi, in una dimensione collettiva che è il principale elemento di riconoscibilità di questa officina-laboratorio poetico.

 

A partire da diverse storie di migranza

La «Compagnia delle poete»  è un ensemble poetico-teatrale al femminile da me creato nel 2009 come strumento di condivisione e promozione dei percorsi poetici transculturali e translingui dell’attuale poesia in italiano. A comporlo siamo al momento diciannove poete da diversi continenti unite dalla scrittura italofona, ognuna con una personale storia di migranza e con competenze che, oltre alla poesia e alla letteratura, abbracciano teatro, danza e arti visive: Prisca Augustoni, Ubax Cristina Ali Farah, Anna Belozorovitch, Livia Bazu, Laure Cambau, Adriana Langtry, Mia Lecomte, Sarah Zuhra Lukani´c, Vera Lúcia de Oliveira, Helene Paraskeva, Brenda Porster, Begonya Pozo, Barbara Pumhösel, Melita Richter, Francisca Paz Rojas, Candelaria Romero, Barbara Serdakowski, Jacqueline Spaccini, Eva Taylor. Dal suo primo tentativo performativo, in otto anni la Compagnia è molto cresciuta, con la realizzazione di ben quattro spettacoli – Le altre, Madrigne, Novunque, La casa fuori –, diverse pubblicazioni a lei dedicate e il coinvolgimento sempre crescente in rassegne e incontri internazionali.

Le poete della Compagnia sono distribuite sul territorio nazionale e all’estero, e sono dunque costrette ad alternarsi in scena in spettacoli che, partendo da un canovaccio originario, propongono ogni volta testi e atmosfere differenti. Un progetto collettivo fluido, sempre in divenire, che si sta rivelando lo strumento ideale per esprimere la poesia che rappresenta. La scelta di circoscrivere l’ambito dell’esperienza della Compagnia al femminile delle poete, in principio è stata poco più che istintiva. Ma il lavoro sui testi destinati alla scena ha poi rivelato la forte vicinanza carnale di questi versi e ha permesso di realizzare spettacoli di grande coerenza testuale. Quello che identifica in realtà come «femminile» la peculiarità della Compagnia è la comparsa nell’universo performativo del corpo. I corpi delle poete si riuniscono in scena in un corpo unico, sonoro, che assume il significato più profondo di una convivenza armonica di parti comunque indipendenti fra loro, anche se interconnesse. Grazie a esso le lingue trascolorano l’una nell’altra e viene garantita una circolazione a contagio dei versi nel circuito poetico. Fondamentale, per questo, è la funzione svolta nelle performance dalla musica – anche i musicisti, e gli strumenti, cambiano a seconda delle rappresentazioni – la tramatura del tessuto musicale che interagisce con le voci. Con il corpo, la dimensione collettiva è il principale elemento di individuazione della nostra officina poetica. Essa è infatti il primo e più evidente risultato della frantumazione identitaria all’origine della poetica delle autrici che compongono la Compagnia, le cui identità in transito, perennemente in aggiornamento, consentono una relazione duttile e dinamica fra tutti gli elementi in gioco nella costruzione degli spettacoli. Un collettivismo concepito come il superamento del collettivo stesso, concretizzato in un gruppo, cioè, in cui le individualità sono garantite e promosse proprio dal loro singolo rapportarsi all’insieme. Questo ha evidentemente un’influenza importante anche sulla relazione che si viene a creare tra le varie scritture delle poete, i cui rispettivi testi, sottoposti al «reagente» di tale collettivo, si rapportano l’uno all’altro in un continuo sequenziale, legati tra loro da un filo rosso che li riunisce in un’unica voce funzionale alla performance. La «Compagnia delle poete» è stata definita da Armando Gnisci come «il luogo mobile della creatività e della concordia». Ed è giusto quindi che io lasci ora la parola ad alcune delle compagne, per approfondire a più voci alcuni degli aspetti a cui ho accennato. Chiudendo infine con un estratto del copione del nostro ultimo spettacolo, La casa fuori, lascio l’ultima parola alla poesia che siamo.

(Mia Lecomte)

 

Tra universalità e particolarità

Della pluralità delle nostre origini è già stato detto, anche della ricchezza e delle intersezioni linguistiche che inevitabilmente incidono nel corpo dell’idioma nazionale. Ma non solo di questo si tratta. Ci sono passaggi distinti nella poesia della Compagnia che superano il bilinguismo, il plurilinguismo e fanno intuire, prima di tutto a noi stesse, cosa potrebbe essere la comunicazione in una società realmente interculturale: il passaggio al trans-linguismo. È ciò che la Compagnia pratica, e lo fa in un modo fluido, naturale, che supera la comunicazione scenica e ci fa sentire il polso dell’altra, il suo battito anche fuori scena, nella scrittura, nelle nostre relazioni, oltre che nei nostri versi. La comprensività della diversità. Sentirsi a casa nella complessità. O meglio: vivere in transitu. È quello che scuote l’udienza monoculturale, che strania il lettore nazionale. E allo stesso tempo, è la particolarità non inseguita, non ricercata, né un must della Compagnia. Non vi è alcun patto di lealtà tra la poesia della migrazione e l’uso di lingua/e di appartenenza. Essa avviene in modo semplice, naturale. Come lo sono naturali le percepibili diversità culturali delle metafore che usiamo. Più che estraneità della lingua, sono le metafore culturali sconosciute che disorientano. L’auditorio o il lettore monoculturale non si trova più l’unico depositario della memoria culturale collettiva. Devono decifrare altri significati. Dove sta allora la particolarità dei luoghi della poesia della «Compagnia delle poete»? Sta in questa ricchezza di metafore culturali, nei luoghi espliciti e in quelli appena accennati della traiettoria di spostamento, di fuga, di dolore. E di ricomponimento, di rinascita, di apertura. La troviamo nella topografia geografica e in quella onirica che disegna le mappe dagli esiti sconosciuti, mappe punteggiate da indicazioni di direzioni confuse, antitetiche: luoghi di attesa come Zagrebacki, Maksimir, Mihaljevac (Spaccini); o l’isola nascosta tra i petali della rosa dei venti (Bazu). Sta «(…) sulla punta delle mie scarpe» dove si trascinano «(…) tracce di dolore» (Lukani´c), «(…) nell’andare sanza padre» (Rojas), nei tropici (Augustoni), sta nella Plaza de Mayo dove «(…) le madri hanno smesso di marciare » (Romero), nel Qua e Là di Adriana Langtry. E poi a Stoccolma (Romero), in un’Europa matrigna, la Casa comune dalle fondamenta molli (Richter), in quel «(…) luogo di residenza – Casa mia. Ma non ricordo più dove sia» (Bazu). Eppure – dirà l’altra autrice in cerca di questo luogo smarrito – «(…) qualche traccia / a prova del fatto che qui / – ripeto – c’era qualcosa» (Pumhösel). La poetica dello spazio investita dall’universale, nei versi delle poete si colora presto del particolare e allude a infinite immagini lampo come quella delle mani che non sono più «(…) macchiate di viola dallo sgranellare i corimbi di sambuco» (Pumhösel). Nella poesia delle Compagne, vi è una sotterranea esplosione di parole che grondano storia. Come «Quella mattina bigia a Fiume» quando «(…) avevano portato via il nonno» (Lukani´c). Oppure «Noi a quei tempi, nella scalata sociale verso il centro / di case ne abbiamo / cambiate giusto sette. / Una per ogni dittatura» (Langtry). Qui il poetico ritrova la propria corporeità esposta e il suo interno intimo viene mosso dall’agitazione dell’Universo. E sicuramente da molto altro. Ma la poesia è sempre molto altro.

(Melita Richter)

 

Una singolare coralità

È la coralità uno degli aspetti che più colpisce nella «Compagnia delle poete», esperienza molto potente frutto dell’incrocio di tante singolarità. Le nostre poesie infatti, benché a volte seguano una stessa linea tematico-emotiva, nascono da esperienze molto diverse e poliedriche. Ognuna di noi porta con sé il bagaglio delle proprie origini, un vissuto modellato da lingue diverse che lungo svariati spostamenti, esili, emigrazioni hanno trovano nell’italiano un luogo d’incontro, mai stabile né definitivo. Siamo inoltre diverse per carattere, età, presenza fisica, stile letterario. Eppure, una volta assieme sulla scena ciascuna individualità risulta temperata nella risonanza armonica che si crea. Contrappunto di voci, gesti, sguardi, ritmi che si stringono e dilatano nel gioco tra le parole e i suoni degli strumenti musicali. Avvicendarsi di corpi, cadenze, poesie che si rincorrono come fossero perle di una lunga collana, che sembrano nutrirsi l’una dell’altra, grazie anche all’abile sensibilità di Mia nell’imbastire i copioni.

In breve, un lavoro polifonico dove ogni singolarità è pronta e desiderosa di sacrificare qualcosa di se stessa per il bene del tutto, che come ben sappiamo, supera la somma delle parti arricchendo a mo’ di ritorno ciascuna di esse. E mi viene da pensare che una coralità così potente ed efficace, a detta degli spettatori, non può che fondarsi sull’antico ordito delle narrazioni orali, dove musica e parola s’incontravano per meravigliare le genti, per ravvivare sentimenti e memoria, per comunicare.

(Adriana Langtry)

 

L’ascolto

In una conferenza sento un noto poeta italiano fare l’elogio di una poesia raffinata e un po’ aulica, dicendo che non c’è più poesia nella lingua parlata e che tutto è ridotto a slogan e luoghi comuni. Gli chiedo, perplessa, se propone una poesia di nuovo lontana dal modo di vivere e di parlare delle persone «comuni», quelle che incontriamo ogni giorno mentre camminiamo, corriamo, siamo in coda per l’autobus e al supermercato. Mi ribadisce, in risposta, quanto detto prima, solo con altre parole. Mentre lo sentivo divagare sul bisogno di ritrovare una nicchia per la poesia ho pensato: perché non provi a sederti accanto a una persona malata, a una persona anziana, a qualcuno che sta per lasciare la vita; o a qualcuno che ha un figlio che soffre, che aspetta un farmaco che non può permettersi di pagare, che non ha chi lo ami o voglia essere amato da lui? Perché non provi ad ascoltare? Vedrai che c’è sempre verità e poesia in ciò che è verticale, nella parola più viscerale ed esile ed estrema, nel verbo che esce spezzato da dentro perché non ha gambe per arrivare intero in bocca. Per me, questo è poesia: l’ascolto. E la «Compagnia delle poete» fa proprio questo: ascolta. Per questo riesce a costruire ogni volta uno spazio che coinvolge non solamente le poete, ma spettatori che sanno che vogliamo parlare e sentire le nostre e le loro voci, i nostri e i loro respiri, volti che ci guardano e comunicano con noi e ci dicono cosa è davvero poetico. La poesia sgorga dagli incontri, perché da sempre essa è nata da un desiderio molto profondo di comunicare, anche negli spazi di confini, negli interstizi, nelle fessure e ferite delle lingue che parliamo e che ci parlano.

(Vera Lúcia de Oliveira)

 

Le storie

La «Compagnia delle poete»: voci e corpi delle poete che si alternano e si sovrappongono per rappresentare le loro storie. A volte sono storie basate sul vissuto personale, su amori, famiglie, case. A volte storie appartenenti alla nostra tradizione condivisa – racconti biblici, fiabe di Grimm, Andersen, Perrault, Lewis Carroll – e rese personali dalla fantasia e dalla sensibilità delle singole poete: l’Eva e l’Arca di Noè di Barbara Pumhösel; gli Hansel e Gretel di Eva Taylor; la Pelle d’asino di Barbara Serdakowski; le Alice e Mignolina danzante di Adriana Langtry etc. Particolarmente affascinanti per me sono le poesie basate su tradizioni meno conosciute, quelle che aprono nuovi orizzonti e ricordano quanto è varia la cultura mondiale e quanto abbiamo ancora da imparare dalla ricchezza dell’esperienza umana. Già gli stessi nomi sono suggestivi: nella poesia di Sarah Zuhra Lukani´c incontro Kosjenka, fata croata che incorpora la storia sanguinosa della sua terra; oppure c’è la saga di Manuelita la tortuga, una canzone per l’infanzia molto popolare in America Latina. Scoperte di luoghi e culture nuovi si trovano anche nelle stesse immagini: visive e uditive, musicali, ma anche olfattive, come il mazzo di erbe profumate in un’altra poesia della Lukani´c; oppure di cibi (latte di cammella) e piante africani, intervallate da una melodia nostalgica in una poesia di Cristina Ali Farah. Ed è grazie alla messa in scena della parola poetica con le voci e i corpi che le narrazioni delle poete-compagne vengono ad arricchire il nostro immaginario personale e collettivo.

(Brenda Porster)

 

Una strada, fatta di poesia, che porta al teatro

Fare parte della «Compagnia delle poete» ha un valore particolare per me, perché mi porta in una dimensione impensabile. La procedura per entrare in questa dimensione è articolata, consiste in varie fasi, è un percorso che mi si apre dopo la scrittura e l’invio dei testi a Mia. Lei prepara il copione, è l’inizio del percorso e capita che quella particolare poesia le piaccia. E così, insieme alle altre, diventa parte del copione. La «mia» poesia non è più solo mia, diventa il piccolo pezzo di un mosaico. In seguito, questo insieme torna da me, è il copione, è un’altra cosa e va letto attentamente, compreso e assimilato, non solamente memorizzato. Siamo ancora a metà del percorso, «the long, winding road». La memorizzazione della poesia del copione è come crescere un/a figlio/a, perché nel momento in cui pensi di aver capito come fare per «camminare» insieme, è già cresciuto/a, ti ha superato e tu la rincorri e ricominci da capo. Ed eccoci alle prove. Inizialmente è un momento di socializzazione, prevalgono l’amicizia, la tenerezza, il piacere di incontrarsi. Ma subito dopo cominciano le «buche». In questa fase ci si rende conto del ritmo, dove è giusto e dove arranca, ci accorgiamo degli elementi vitali per lo spettacolo, come la prossemica, la gestualità, l’espressione del volto, i movimenti, il tempismo. Ma esiste anche il mood, l’umore, l’«atmosfera» che va armonizzata con il resto, legata nell’insieme. Un breve aneddoto. Per lo spettacolo Novunque, avevo inviato a Mia la poesia Appuntamento al buio (da L’odor del gelsomino egeo). In una sera piovosa e buia arriva «lui»: «Sei arrivato poi, eri tu / poeta e lupo in gabbia a vita / che tu chiami farsa». Mia – per esigenze tematiche dello spettacolo – propone di sostituire la parola «poeta» con «principe». E quando recito «principe e lupo in gabbia a vita» è l’epifania. Il momento dell’ispirazione, che conosco solo io, s’incontra con l’istante della recita. Il principe-lupo mi arriva davvero, non recito più, non racconto più di una che s’incontra con il principe-lupo in quell’appuntamento al buio. Lo sono. La strada è lunga e tortuosa, ma quando ci si arriva è teatro.

(Helene Paraskeva)

 

Corpo teatro

Le poete declamano, oppure semplicemente recitano i propri componimenti in uno spazio scenico. Insieme, legate da un invisibile filo, le poesie, frutto di un lavoro creativo personale, condensati di memorie emotive individuali che qui si uniscono non come un coro ma piuttosto come un’orchestra, con strumenti vari che dialogano, interagiscono, si avvicinano e si allontanano in una sinfonia che insieme e separatamente racconta, immaginifica, il percorso di ognuna. I testi in italiano, con radici lontane o più vicine di pluralità di lingue e rami che si spingono l’uno verso l’altro. Ma oltre alle parole ci sono i corpi. Che cos’è un corpo? Risponde il filosofo Jean-Luc Nancy: «(…) è un’intensità (…) Perché il corpo rivela la verità dell’anima: verità che si spinge anch’essa sulla scena o più precisamente verità che si fa scena». Nancy precisa, che «(…) non c’è una presenza neutra che possa essere intensificata qua e là. La presenza vuole l’intensità» e il corpo, appunto, è intensità. La poesia in scena usa il corpo, i gesti, i movimenti, gli oggetti scenici per mettersi a nudo davanti a un pubblico e creare un flusso emotivo tra quest’ultimo e la scena; ma prima ancora il flusso emotivo si crea tra i corpi delle poete. Le poete non sono attrici, ma corpi di poete in scena. «La mia pelle diventa anch’essa un teatro», come scrive Mohammed Kahïr-Eddine.

(Barbara Serdakowski)

 

La casa fuori

prima avevo una casa gialla

aveva bei finestroni che io schiudevo

alla luce e tutto era giallo dalle posate

alle tende dalle finestre alle pentole

poi una casa nera una tutta nera

ed eri felice perché la notte non

la temevi ma io dentro la notte

ero caduta dicevo non ci so stare

non trovo l’entrata né mai sono

capace di ritrovare l’uscita

(Vera Lúcia de Oliveira)

 

***

 

Terracqueo

Le stanze della nuova casa

non sono mai state più lontane tra loro

Una mattina di marcia

per raggiungere la moka in cucina

superata la palude a guado il fiume

una scossa all’ultimo tronco malcerto

Per il bagno serve il periplo del vulcano

in alternativa due treni

piove se l’acqua gronda dalla pensilina

fino all’angolo più esterno del lavabo

I vestiti allineati nell’armadio

infittiscono la luce all’orizzonte

il mare è immenso da questa parte

oltre si inerpica la scala dello studio

i larici che lasciano il posto ai pini

fino alla distesa di muschio

tra le rocce sempreverdi della libreria

In salotto a precipizio con la cascata

per poi dirigersi verso la camera

sul primo aereo sospeso tra l’abat-jour

e alcune delle più semplici stelle

Da capo giorno dopo giorno

se non puoi uscire dalla casa

è perché fuori non ti è rimasto altro

il tuo al di là si assesta nell’impronta

lasciata in tempi morti su un cuscino

(Mia Lecomte)

 

***

poi ne avevo un’altra che lustravo

i vetri luccicavano i pavimenti

la casa doveva essere sempre

ripulita non so da cosa ma il

fatto è che era sempre sporca

(Vera Lúcia de Oliveira)

 

***

 

La natura morta della stanza da letto

Il letto a castello

Con le prese elettriche vicino alle testate

Inutili

Sopra l’armadio pezzi di ricambio della macchina incidentata

Inutilizzabili

Sulle pareti regna la linguaccia più famosa del rock disegnata da un giovane studente

inglese

Per sole 50 sterline

Nei vagheggi diurni della fanciulla accanto danzano Mick Jagger e la dea indiana Kalì

La radio sempre accesa per sentire dov’è ormeggiata la nave del papà

Pomorski Radio are committed

I calzini dispari

Le puntine della cancelleria infilzate nelle ciabatte

Sul parquet per disegnare

Traiettorie

Quelle più belle

Uno squarcio di luce stemperato con la danza della polvere

Che arrivava dalla fabbrica di cemento

Costruita in riva al mare

Una coperta patchwork per innalzare le vele sul letto

E navigare a vista

Nel bene e nel male

Per nascondersi dagli orchi rossi.

(Sarah Zuhra Lukani´c)

 

***

Aveva il tappeto rosso la mia stanza

stanze da imbiancare di continuo

la sola che ho potuto scegliere

le stanze succedono

perdeva i peli il tappeto rosso

ma quanto ero contenta.

Arrivano con le loro altezze angoli e sentore

finestre in posti diversi per la traiettoria dello sguardo

mi avevano fatto vedere tre tipi di carte da parati

non avevo capito che le altre costavano troppo.

Armadi, comodini, tutto in posizioni alterate.

Da sdraiata non riuscivo a vedere fuori, solo il cielo celato dalla tendina crema fatta

ad uncinetto da mia madre e la punta della siepe.

Vedute e sbocchi che mutano pensieri, idee, sogni,

L’altra volta era un muro con licheni e un cancello verde.

(Barbara Serdakowski)

 

***

 

Sul tavolino

Quell’anno arrivò

improvviso l’inverno.

La sera prima era autunno

ancora sul tavolino tondo

profumavano i fichi mielati

dimenticati in fretta.

Di notte, inspiegabilmente,

la passione si placò.

E la mattina dopo,

dal nord il vento gelido

spazzò via il tavolo di latta,

l’amore eterno

e la magia degli avanzi.

(Helene Paraskeva)

 

***

ho quattro finestre cardinali

nel mio salotto aria

e all’ora casa apro le imposte

senza guardare nella direzione dei reticolati

delle punte d’acciaio

scelgo un riquadro sicuro libero

da qualsiasi tipo di linea o filo

spinato e brucio i pensieri che insistono

per tenere acceso qualcosa oltre

(Barbara Pumhösel)

 

***

 

I due alla finestra

Vibra la primavera nelle fibre scure

pesanti d’un calore blu promesso

fuori dalla finestra nostra, cade

con fiocchi invisibili dal cielo.

Sera perfetta per la passeggiata lenta

lasciando che il tempo accarezzi

le pelli pallide che hanno atteso tanto,

teso il naso ai profumi riaccesi.

Serata ideale per cambiare piani

uscire insieme mano nella mano

piano, ricercare nei silenzi familiari

quelli intensi dell’amore neonato.

Ma noi no, noi non usciremo:

saluteremo qui il tiepido imbrunire.

Saremo i due nella finestra illuminata

per chi, nel passeggiare, alzerà gli occhi

(Anna Belozorovitch)

 

***

 

Una mattina fortunata

Spalanca le finestre Lucia e fai entrare le buone notizie!

Così possiamo mordere le nostre mele più volentieri

Così possiamo aggiungere nuovi nomi nella rubrica

Il telefono squillerà in continuazione.

“Finalmente si respira”

Mi dirai con gli occhi vitrei e sgranati

E da tanto che non sbattono le ali di fanciulla

Dentro la casa famigliare.

E da tanto che non si odono passi svelti e leggeri

Lungo l’androne che porta alle nostre stanze.

Spalanca le finestre Lucia e fai entrare le buone notizie!

Chiameremo l’accordatore per il nostro Bösendorfer

Utilizzeremo il servizio di fine bone china di Wedgwood,

E solleverò di nuovo la tazzina sottile verso la luce.

Sosterà in cima al salone come una piuma leggera

Come il tutù color cipria con il quale giravo per casa

Quando non c’era nessuno.

Spalanca le finestre Lucia e fai entrare le buone notizie!

(Sarah Zuhra Lukani´c)

 

***

 

È già il tempo per altro

sono le sette

spingere il peso del cane sdraiato dietro la porta

sei ancora sveglio

come in quell’altra casa

forse passa un treno, ora tutto trema

le cose in fondo non cambiano.

Ci sono troppi angoli in queste stanze

scomporre le scatole rimaste

meno luce nella sala

trovare foto perse da tempo

terrazzi con piante non mie

e ordinare nuovamente

tutto in cucina.

Il cotto è freddo sotto i piedi

cercherò per anni il sale dove ora vanno i bicchieri.

Vorrei essere da sola ad annusare le mura

mi chiami da lontano

sentire le voci d’altri impresse qua e là

e chiedi se so dov’è quel libro.

(Barbara Serdakowski)

 

***

 

Il ripostiglio

tutti i ripostigli hanno una porta segreta

in fondo

tutti i bambini lo sanno

così quando ho raccontato alla mamma

con la faccia tosta della convinzione

del ripostiglio della vicina di casa

lei ci ha creduto davvero

e ha concluso che lì stava

il loro denaro nascosto

invece sapevo

che oltre quella porta

c’era un torrente cristallino

dove nuotavano pesci d’oro

e che l’erba di smeraldo assoluto

era fragrante di voci

(Brenda Porster)

 

***

 

Corridoio

All’inizio del corridoio

la porta. E prima ancora,

“Coccodè!” E poi l’Uovo.

E intorno fango, melma

incendi, filo spinato.

A metà corridoio,

dietro alla scopa,

coltelli d’argento

le parole che hai lanciato.

Alla fine del corridoio

la bocca e l’ano

– indifferentemente –

dell’antico scarabeo.

Porta bene.

E lì, in fondo,

inaccessibile, sul muro

si arrampica leccandolo

leziosa lei, Lula lucertola

(Helene Paraskeva)

 

***

 

in questa casa metto le fotografie al rovescio

così esse faranno cadere dalle poltrone i loro morti

protesteranno ma poi capiranno che non si può

stare immobili su questi nuovi divani e incominceranno

a raccontarsi tutto quello che hanno visto

per decenni fermi nelle loro cornici

(Vera Lúcia de Oliveira)

 

***

 

Mosche

Forse i nostri spiriti sono come le mosche

finite dentro casa per errore

che sbattono, impazienti, contro i vetri,

percorrono avanti e indietro i corridoi,

fino a convincersi che non esiste il fuori,

che il cielo è soltanto uno sfondo.

Così galleggiano al centro delle stanze, fosche,

attente a compiere un giro sempre più rotondo

(Anna Belozorovitch)

 

***

 

la prima cosa che si è rotta

è stata la campana di vetro

troppo tardi comunque

la mosca sotto era già morta

sbattendo contro il diafano

che la proteggeva dal mondo

fuori

qui intorno alle rovine l’erba

è più dolce e nel sambuco vedo

abitano ancora i versi

le ultime

parole-ortica che

quando il vento soffia freddo

bisbigliano

per non dimenticare

gli spiriti della casa

se ne sono andati

alle abitazioni di oggi non serve

l’anima protettrice e nemmeno

la sua antica sede

hanno sensori

sistemi antifurto alarmi

(Barbara Pumhösel)

 

***

 

Bella di notte

La mia gente non faceva i giardini

forse perché aveva il deserto nel sangue

ma io il giardino ce l’avevo in testa

(chi sa da dove sono arrivati i semi).

il primo anno era difficile vangare

con le mie mani bambine

ho fatto solo un’aiuola minuscola

dove uno per uno li ho piantati

duri come noccioli di ciliegia

(Brenda Porster)

 

***

 

Pietà di noi, pietà

dell’erba che non cresce, pietà

del tetto e la facciata, degli usci

senza chiave, pietà, dei nostri

ambienti vuoti, pietà del suono e

della luce ancora spenti

pietà di noi qua dentro, pietà

con le finestre finte

pietà, dell’abitarci assente

del non poterci stare

pietà, pietà

di noi in questa casa, pietà

in questa nostra altrui

(Mia Lecomte)