QUELL’ANTICA DOMANDA DI SOCRATE

di Sergio Givone in dialogo con Severino Saccardi

 

Che cos’è la poesia? I poeti medesimi (a partire da quelli qui citati: da Ione, interpellato da Socrate, a Rilke, da Neruda alla Szymborska) dicono di non saperlo. Eppure essi riconoscono quel fuoco che arde dentro, che si manifesta in uno sguardo che vede il mondo in modo «altro» e che spaventa chi non lo sa riconoscere. Ci sono un’ispirazione e una musica interiore che vanno tradotte (come dice Dante: ciò «ch’e’ ditta dentro vo significando») in espressione poetica con estro, ma anche con sapienza, con studio e con fatica. Un fuoco che ogni animo umano può avvertire, anche se non tutti lo riescono a tradurre in versi. E la poesia, che con la religione condivide l’afflato mistico e il riconoscimento del mistero (anche quando parte da premesse materialistiche o irreligiose, com’è per grandi autori come Lucrezio e Leopardi) ha radici popolari, come dimostrano i grandi poemi omerici, e dà espressione ad un sentire universale. Un sentire che si traduce, talora, in forme, in linguaggi e in esperienze che sfidano anche la tradizionale, e datata, distinzione (come hanno evidenziato poeti-menestrelli come il Nobel Bob Dylan e il nostro Fabrizio De André) fra cultura «bassa» e cultura «alta».

 

Lo sguardo di Rilke

Saccardi. Se sei d’accordo, partirei con una riflessione di carattere generale, relativa al lavoro di «Testimonianze» per questo volume particolare. Come sai, noi non siamo una rivista letteraria, né tantomeno (in tale ambito) specialistica; ma, in senso ampio, la nostra è una rivista che ha un’ispirazione umanistica; dunque, questo della poesia è un tema che ci sentiamo, in qualche modo, un po’ abilitati a trattare e di cui è interessante comunque parlare con te. Con gli occhi dei poeti è il titolo di questo lavoro e se credi potremmo iniziare il nostro ragionamento proprio dalla domanda: Cosa può voler dire oggi, di fronte a una realtà spesso così ambivalente, davanti a una materia così opaca, oscura, così contraddittoria e complessa come è quella della contemporaneità, guardare al mondo con occhi diversi, con l’ottica della poesia, con l’animo, con lo sguardo dei poeti?. Questa non è che un’evocazione e vorrei chiedere a te cosa questa evocazione fa venire in mente.

Givone. Mi viene in mente una bella pagina di Rilke, che parla del giovane poeta e ne parla così: egli è a tavola insieme con i genitori, chiacchierano di cose comuni, e improvvisamente questo giovane alza gli occhi, apre gli occhi, alza lo sguardo e i suoi genitori sorprendono in questo sguardo qualche cosa di assolutamente incomprensibile: non lo riconoscono più. Egli getta sul mondo questo suo sguardo e il mondo non è più quello che è, lo vede da una lontananza che risulta misteriosa, incomprensibile ai genitori (eppure sono i suoi genitori ed egli è poco più che un bambino), ma lo sguardo del poeta è questo, è la capacità di guardare il mondo come da un altrove, da un aldilà, in una prospettiva utopica inaudita: da un aldilà, da un altrove, in modo altro. Com’è possibile questo? Ecco, se dovessimo rispondere a questa domanda, è difficile non ricordarsi di quello che diceva Socrate a questo proposito nel dialogo Lo Ione (Ione è un poeta, un giovane poeta, proprio come il giovane poeta di Rilke). Dunque, Socrate pone a Ione la stessa domanda che ha fatto a tutti gli altri cittadini di Atene: «Cosa fai? Cosa ci stai a fare qui? Qual è la ragione per cui fai quello che fai?». Tutti hanno dato una risposta: il politico ha osato dire che è lì alla ricerca, insieme con gli altri, del bene comune, il calzolaio ha spiegato perché fa le scarpe e a cosa servono, e così via. Ione non sa rispondere – «perché scrivi poesie?» «non lo so» – e allora Socrate sbotta: «Allora tu sei il più sciocco degli uomini? Tutti mi sanno dire perché fanno quello che fanno, solo tu non mi sai dire perché scrivi poesie, perché fai quello che fai» e, da quel sublime ironista che sappiamo essere Socrate, lo guarda di sottecchi e gli dice «Tuttavia, tu che sei il più sciocco degli uomini sei anche il più saggio, perché questo tuo non sapere è segno del fatto che il “sapere” poetico è enthusiasmòs, viene da Dio», cioè viene da un’ispirazione profonda che ci spossessa della nostra quotidianità e della nostra realtà e ci costringe a guardare il modo altrimenti, ce lo restituisce come non lo abbiamo mai visto e in modo da scoprire ciò che si nasconde nel cuore del mondo. Questo è il poeta. C’è un arco che va dalla Grecia a Rilke e ai grandi poeti contemporanei, anche se ora non più tanto, che dicono la stessa cosa, sulla quale vale la pena di interrogarsi. Osando semplificare, è giusto dirlo, sia Socrate sia Rilke riconoscono la natura religiosa della poesia. Questo è un punto che credo meriti riflessione: la natura religiosa della poesia.

 

Rimane il mistero

Saccardi. È la dimensione della sacralità, quindi, anche se oggi sembra che questa sacralità sia venuta meno, non credi?

Givone. Certo, e qui tocchiamo un punto essenziale. La poesia è un discorso molto ambiguo, è un discorso religioso e irreligioso al tempo stesso. Pensiamo a Lucrezio, che è alla radice di un poeta come Leopardi. La sua poesia è tutta intonata alla desacralizzazione, alla filosofia di Epicuro: uomo liberati dal timore degli dei.

Saccardi. È una immanentizzazione del punto di vista sulla vita.

Givone. È una radicale immanentizzazione: guarda il mondo per quello che è, abbi il coraggio di guardare il mondo per quello che è. E questa poesia irreligiosa, desacralizzata, si trasforma in una sorta di canto cosmico, in una forma di sacralizzazione del mondo.

Saccardi. Un grande soffio vitale…

Givone. Sì, il primo canto è dedicato proprio alla vita, a Venere, alla vita nascente (è quel soffio vitale a cui si è ispirato Botticelli per la sua Venere). È il canto della vita, il primo dei sei grandi canti di cui è composto il De Rerum Natura, che si conclude col canto della morte. Questa religiosa irreligione che è la poesia di Lucrezio comprende questo grande arco dalla vita alla morte. L’universo è come sospeso, è sradicato dal quel suo fondamento che era Dio, che erano le strutture religiose di comprensione del mondo, ed è una sorta di liberazione del mondo a se stesso; in questo senso la poesia ha un grande valore cosmico, la poesia è il mondo senza fondamento che è come sospeso al suo nulla. Questo genera stupore, costringe a guardare il mondo in un altro modo, e questo altro modo, essendo stupore, meraviglia di fronte alla vita, meraviglia di fronte al mistero dell’universo, torna a essere religione. In questo senso, dico, la poesia è ambigua, è religiosa e irreligiosa al tempo stesso.

Saccardi. D’altra parte, prima citavi Leopardi e tu da maestro mi insegni che Leopardi, poeta che attinge pienamente dalla lezione del materialismo, dell’immanentismo, è però il poeta dell’Infinito.

Givone. Esattamente, Leopardi come Lucrezio. Perché c’è una derivazione lucreziana non solo indiretta, ma anche diretta. Leopardi è poeta di tradizione settecentesca, la cui filosofia è quel materialismo del quale abbiamo due grandi interpreti, Timpanaro e poco distante Luporini, il quale parlava di un Leopardi «progressivo», Leopardi che libera dalla superstizione religiosa, Leopardi materialista, progressivo perché materialista (Timpanato sosteneva questa tesi). Ma, come gli appare alla fine l’universo? Come «(…) quell’arcano mirabile e spaventoso» che prima che si potrà mai spiegare «perderassi», prima di essere spiegato e inteso si perderà. Ecco, questo è un arcano irreligioso, nel senso che non c’è nessun Dio.

Saccardi. Ma rimane il mistero.

Givone. Certo, rimane il mistero. Su questo hanno scritto non solo i materialisti che abbiamo citato in precedenza, Luporini e Timpanaro, ma anche Bobbio ha delle pagine bellissime in merito. La ragione alla quale Leopardi diceva di attenersi, la ragione, la sola ragione, quel lumicino che fa un po’ di luce nel grande buio, è proprio quella che ti dice che sei circondato da un grande buio e il grande buio è il mistero. Certo, un conto è riempire quel mistero di risposte di tipo religioso, un conto è considerarlo soltanto mistero, ma mistero è, per gli uni e per gli altri, per coloro che lo riempiono di risposte religiose e per quelli invece che lo custodiscono nella sua misteriosità.

Saccardi. Su questo, ovviamente, ci sarebbero tantissime cose da dire, perché c’è il Leopardi che in qualche modo recupera le ragioni della speranza, e di questo, nella Ginestra, troviamo infinite occasioni di riflessione. Però, sull’origine dello sguardo poetico, della poesia che nasce da qualcosa di molto profondo, che si ritrova in tanti autori, io, se permetti, avrei da proporti qualche verso di Neruda che può offrire uno spunto interessante:

 

La poesia

Accade in quell’età… La poesia

venne a cercarmi. Non so da dove

sia uscita, da inverno o fiume.

Non so come né quando,

no, non erano voci, non erano

parole né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

bruscamente fra gli altri,

fra violente fiamme,

o ritornando solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

 

Salto e vado alla conclusione:

 

Ed io, minimo essere,

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza, a immagine

del mistero,

mi sentii parte pura

dell’abisso,

ruotai con le stelle,

il mio cuore si sparpagliò nel vento.

 

Givone. Dimmi se non ha saputo dire, molto meglio di quanto noi, con fatica, abbiamo appena detto. Non solo, questi bellissimi versi che hai appena letto mi sembrano un commento, una prosecuzione di quello che ha detto Socrate nello Ione che abbiamo citato prima, «non so da dove mi venga il canto ma mi viene», non solo, ma «mi viene e mi rende ebbro». La parola di Socrate enthusiasmòs, vuol dire ebbrezza, essere entusiasti, non per aver bevuto un bicchiere di vino, magari anche per quello, ma è l’ebbrezza di chi è invaso, enthusiasmòs vuol dire questo, da Dio. Cosa è Dio? Non dobbiamo immaginarlo in senso idolatrico, ma proprio come la voce che ex profundo ci parla e a noi non resta che riconoscerla. Il poeta continua a dire «non so, non so che cosa sia questa cosa che mi accade, non so»; nello Ione: «Cosa ti spinge?» chiedeva Socrate a Ione e lui, «Non lo so», «Ma allora sei il più stupido degli uomini? In certo senso sì, ma anche il più sapiente perché sai la cosa essenziale, la cosa che ti riempie entusiasta». Questa è la poesia. Davvero lo si può fare in poesia come in nessun’altra disciplina, non lo si può fare ad esempio in filosofia: la filosofia di San Tommaso è un’altra cosa rispetto a quella di Platone o a quella di Aristotele, anche se ne è un’interpretazione. In poesia i poeti sono tutti contemporanei e sullo stesso piano, sono tutti poeti. Là dove nel mondo delle scienze, delle diverse discipline, è la differenza quella che conta, nel caso del poeta è invece l’identità. Tu chiedevi prima «Ma che cosa è?». Difficile dirlo, però la riconosciamo ogni volta che c’è, anche se non la sappiamo definire, ogni volta che un poeta si esprime, in modo sempre nuovo, sempre diverso, perché questo è il carattere della poesia, noi la riconosciamo. Questa è poesia.

 

Da solo a solo

Saccardi. D’altra parte, ciò che hai espresso così bene citando Socrate e hai ripreso ora commentando i versi di Neruda, è una raffigurazione della nascita dello sguardo poetico che si trova in tutti i tempi: anche in Dante, mi sembra di ricordare nel XXIV del Purgatorio, quando parla di amore, del Dolce Stil Novo. C’è sostanzialmente questo tipo di ispirazione quando dice «(…) e a quel modo / ch’e’ ditta dentro io vo significando». C’è qualcuno, c’è qualche cosa che dentro ti detta e tu devi esprimerla, devi tradurla, devi portarla agli altri.

Givone. Quel che «ditta dentro» è enthusiasmòs, il Dio in te ha fatto sentire la tua voce. In tutto questo c’è una sorta di traduzione secolare di ciò che avveniva nei Misteri, in quella religiosità misterica che è precedente rispetto alla religiosità olimpica e al mondo classico dei greci, che però ne porta una propaggine, una discendenza, che viene da lì. Quale? L’idea di spogliarsi di sé – questo prevedeva il rito in coloro che praticavano la religione dei misteri – e quindi lasciare tutto. Lasciare che cosa? Lasciare i pregiudizi, le proprie convinzioni, le proprie fedi, portarsi davanti a Dio nudo, in quella nudità di chi è disposto ad ascoltare. Naturalmente, in una situazione di insicurezza totale, perché nessuno ti garantisce che la voce che ti parla sia davvero la voce di un dio, di una verità possibile e non sia invece una tua illusione, una tua ossessione. E in questa assoluta insicurezza, in questa nudità (da solo a solo, diceva Plotino) tu ti disponi a farti da tramite di questa voce che ti possiede e che chiede di essere detta da te. Quel che «ditta». Dante con questi suoi versi, ma la stessa poetica del Dolce Stil Novo è tutta fondata su quest’idea, traduce quella che è un’antica tradizione, dove esperienza religiosa ed esperienza poetica sono tutt’una, non possono essere separate perché sono la stessa cosa. A me ha sempre colpito, non solo e non tanto il fatto che la poesia dichiaratamente religiosa e quella interamente irreligiosa (atea, materialista) abbiano uno sfondo mistico, ma che questo sfondo mistico abbracci comunque ogni poesia. La poesia, quale che essa sia, si esprime misticamente.

Saccardi. Ci sono anche i grandi poeti mistici, come San Giovanni Della Croce.

Givone. Ci sono i grandi poeti mistici, ma ci sono anche i grandi atei, poeti, che hanno questo senso mistico della vita, fra cui Leopardi, un materialista con un senso mistico della vita. Ma non è solo questo che mi colpisce, prima ancora mi stupisce che le religioni, tutte le religioni, non hanno potuto fare altrimenti che esprimersi in poesia. Il contenuto, il proprium di ogni religione come si è espresso se non in poesia? Penso a me: vorrei essere uomo di fede e di preghiera, sono soltanto un uomo di pensiero, lasciamelo dire, magari con un po’ di retorica ma è così, la fatica del pensiero, la fatica del concetto, il pensiero miserrimo, consapevole, questo è quello che faccio, però nel mio professarmi cristiano qualche preghiera la dico anche io, poche, raramente. Il Padre Nostro, l’Ave Maria, forse le sole preghiere che qualche volta mi ricordo di dire, sono poesie. Il Padre Nostro è un salmo, l’ottativo «sia santificato il tuo nome», questo ottativo, questo rendimento di grazia, questo riconoscimento, è proprio di un genere letterario che si chiama salmo. Quindi il Padre Nostro è una poesia. Gesù insegna a coloro che si professano suoi amici, suoi fedeli, a pregare con una poesia. L’Ave Maria è una poesia. La Bibbia è tutta una poesia, sebbene con generi letterari diversissimi, i poemi omerici, che sono il fondamento della religiosità olimpica, di una certa forma di religione ellenica, non a caso sono detti poemi. Tutto questo dà da pensare che la poesia abbia un’anima religiosa, ma prima ancora che la religione abbia un’anima poetica. Noi moderni leggiamo questa cosa in modo un po’ sbrigativo dicendo che tutto questo è finito, la poesia è il motore che ha aiutato a desacralizzare il mondo, cioè che ha svuotato il mondo della sua sacralità e quei contenuti sacrali ce li ha resi in forma secolarizzata. Non che questa interpretazione sia del tutto campata in aria ma dimentica che, anche se è vero che la poesia presenta i contenuti della religione in forma irreligiosa (non è questione di credere o non credere ma del godere della bellezza), anche se è vero che la poesia fa questo, nel cuore di questo fare c’è pur sempre la riscoperta di un senso cosmico e misterioso della vita, del fatto che noi siamo qui ma «Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».

Saccardi. C’è quindi il senso del mistero, il senso del dramma dell’esistenza.

Givone. Dal niente al niente, ed è subito sera, ma un raggio di sole ti obbliga a do mandarti da dove e verso dove. Pensa al nostro Luzi, poeta religioso semmai ce n’è stato uno. Nella raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti ritorna continuamente la domanda «Da dove e verso dove?». Sarebbe interessante vedere quante volte ritorna questa domanda, che resta però senza risposta, perché la poesia non ha una dogmatica, una rivelazione da darti.

 

La poesia è in ognuno di noi

Saccardi. La poesia è evocazione, è interrogazione, è espressione di un’inquietudine e di una meraviglia. È anche espressione e comunicazione, ed è molto di più. Molti possono avere un animo poetico ma non sapersi esprimere in poesia. Il poeta sente questa voce e deve saperla tradurre. Ecco che la poesia in qualche modo prende forma, con tutta la particolarità di questa espressione letteraria, nella scrittura. Quindi è ispirazione ma, come in ogni forma di espressione, è lavoro su se stessi, è disciplina, è incanalamento di questo soffio, che non tutti riescono a tradurre in musicalità e versi. Io sono convinto che siano moltissimi coloro che hanno immagini poetiche dentro di sé, ma pochissimi riescono veramente ad esprimerle in modo che queste assumano una modalità che abbia significato per tutti, che abbia una portata universale.

Givone. Proprio così, scrivere poesia è la cosa più difficile che ci sia, proprio perché ciò che tu hai chiamato ispirazione, soffio poetico, in realtà è presente in ognuno di noi, e non è un caso che tutti scrivano poesia. Noi sorridiamo di questo fatto per via dei risultati per lo più modesti, proprio perché i veri poeti sono pochi. Però credo che questo fenomeno non meriti affatto irrisione, anzi deve essere compreso, cominciando a capire che tutti, magari una volta nella vita, magari tutti i giorni, ma tutti sentono prima o poi questa ispirazione, questo soffio, questo tocco dello spirito, questa corda che viene toccata da un dito misterioso. Tradurla, renderla comune, parteciparla, questo fa il poeta quando decide di mettere nero su bianco quel che ha provato, e non sempre ci riesce perché la poesia è una cosa difficile e riuscire a comunicare questo incanto, questo momento magico, questo tocco, questa ispirazione in versi, dove tutti gli altri si riconoscano e riconoscano la stessa esperienza, è la cosa più difficile. È difficile tecnicamente, ed anche per mille altre ragioni. Cominciamo a partire da qui, dal fatto che la poesia è l’attività forse in assoluto più comune: tutti abbiamo tentato di scrivere una volta o l’altra qualche poesia: sarà solo narcisismo o velleitarismo?

Saccardi. Molti scrivono poesie e poi, per pudore, non le fanno vedere.

Givone. Quanti scrivono poesie e poi non le fanno vedere, certo, ma se lo fanno, evidentemente riconoscono che è una cosa che non solo meritava di essere fatta, ma doveva essere fatta. Ecco che ritorniamo ai nostri grandi interrogativi: la poesia è qualcosa di cui si può fare a meno o è qualche cosa di essenziale? Torniamo alla domanda di Socrate: «Perché scrivi poesie?» «Non lo so», però le scrivo e quando le scrivo mi rendo conto di non poter fare a meno di prestare ascolto a questa voce, anche se poi la rendo male questa voce, perché, ahimè, non ho la capacità, che è di pochi, non ho il dono di renderla traducibile, partecipabile, ma come tutti, una volta o l’altra l’ho riconosciuta essenziale.

 

Una musica interiore

Saccardi. Ci sono poi tantissimi altri aspetti, ed una concatenazione di ragionamenti che potrebbe portarci lontano, perché la poesia è soffio, è ispirazione – e questa magari, in qualche modo e a vari livelli, la sentono tutti – ma poi, come d’altra parte succede per la musica, essa deve avere un ritmo preciso e possedere una musicalità. Allora, come avevano intuito i pitagorici, e Platone, per quel che riguarda la musica, c’è un rapporto della poesia non solo con la mistica, con la religiosità e il mistero, ma anche con la matematica, perché ci deve essere un ritmo, che viene scandito, e anche quando non c’è una versificazione tradizionale, con una metrica precisa, ci deve essere comunque un qualcosa che quando viene letto ti accompagni con il suo suono e ritmo preciso e scandito. C’è quindi questa combinazione fra poesia, musica e matematica, che non è semplice da affrontare e che diventa anche più problematica nella produzione più recente. Inoltre, va ricordato che la poesia, tradizionalmente, come sai bene, si leggeva soprattutto a voce alta, veniva recitata, detta.

Givone. Per i greci era inconcepibile una poesia che non fosse anche musica, che non fosse detta con un certo ritmo e quindi musicata. Ma questo vale non soltanto per i greci, continua a valere anche per noi, sebbene noi abbiamo allentato molto questi legami, li abbiamo addirittura volontariamente spezzati, perché tutto ciò che lega è destinato ad essere spezzato. È come l’armonia, viene rotta e fatta esplodere per poterla poi ricostruire aldilà di questa rottura. Pensa alla musica contemporanea, che nasce sull’esplicita distruzione del concetto di armonia, sul concetto di dissonanza.

Saccardi. La musica dodecafonica…

Givone. Certo: la musica dodecafonica, che non cessa di essere musica, continua ad esserlo. E lo stesso vale per la poesia. La poesia che rinuncia al ritmo, alla scansione ritmica tradizionale, alla rima, alla composizione armonica, che è alla ricerca di qualcosa che sfugge a questi imperativi linguistici è pur sempre poesia con una nuova musicalità, perché la poesia senza musica non esiste. E anche quando la leggiamo nella nostra mente, come ormai abitudinariamente facciamo mentre dovremmo leggerla a voce alta, non leggeremmo poesia se dimenticassimo che in quei versi, in quelle parole c’è un suono. C’è un famoso aneddoto di Agostino che, andando a trovare Sant’Ambrogio lo sorprende nella sua stanza a leggere i Salmi (che sono musica, sono poesia) in silenzio. Rimasto interdetto, Agostino lo interroga: «Cosa state facendo maestro?» – o padre, non so – «Leggo» «Ma come? Così in silenzio?» «Sì. In silenzio». Agostino non capisce: l’altro, è vero, leggeva in silenzio – cosa che fino ad allora nessuno aveva fatto –, ma, come egli stesso disse, per ascoltare meglio, nel silenzio, la musica interiore.

Saccardi. Leggeva in silenzio, ascoltando la musica interiore.

Givone. La musica interiore, elemento su cui è retto il dettame poetico di cui parlerà Dante e di cui era perfettamente consapevole Sant’Ambrogio. Non perché la musica o il suono siano qualcosa che si aggiunge e che in definitiva è superfluo rispetto al pensiero. Nient’affatto, la musica è essenziale alla poesia. È pensiero in musica, la poesia.

 

Come parlarne con i giovani?

Saccardi. Non è semplice avviare i giovani all’ascolto di questa voce interiore. È cosa diversa l’insegnamento della materia poetica da quello della storia della letteratura, perché insegnare poesia vuol dire educare ad ascoltare un testo, a sentirne la musicalità, perché non diventi qualcosa di scolastico e di arido, da cui ci si allontana. Salvo poi riscoprirne il valore in età adulta, quando i ricordi scolastici sono remoti. Ci sono a questo proposito delle interessanti esperienze di laboratori di poesia, che stanno diventando importanti nel panorama dell’insegnamento di questa materia.

Givone. Non so molto di quello che avviene nei laboratori di poesia, quali risultati si possono ottenere e non ti nascondo che nutro un certo sospetto nei confronti di un qualche cosa che ritengo importante, ma anche molto molto difficile, come insegnare la poesia. Perché? Perché credo che l’unico vero insegnamento della poesia è quello che ognuno può dare a se stesso.

Saccardi. Con l’affinamento della sensibilità.

Givone. È un affinamento che devi fare da te, non c’è maestro che te lo possa insegnare. Bisogna imparare a gustare la poesia, a capire, prima ancora che a scrivere, a godere al tempo stesso della poesia, altrimenti non si potrà mai essere in grado di scrivere, neanche il verso più insignificante. Questo apprendimento è qualcosa di molto personale, per questo i laboratori mi lasciano perplesso, ma si può insegnare a imparare da sé, anche se sembra un paradosso, e questo è ciò che questi laboratori dovrebbero fare: insegnare a ciascuno dei partecipanti al laboratorio a scoprire ciò che più ama, cosa vuole, cosa gli piace, a trovare la propria strada, a trovare i propri autori, a riconoscerli. Solo se trovi la tua strada, riconosci i tuoi autori, scopri quella che si chiama «congenialità». Ci sono autori con i quali basta aprire una pagina per trovare qualcosa di grande, di bello, e ci sono poeti che non mi dicono e non mi diranno mai niente. Allora, non devi insegnare ai tuoi allievi la poesia come si insegna letteratura, cioè quanto sia bello o importante un autore che magari a te non dice niente. In poesia questo non funziona, in poesia devi insegnare ai tuoi allievi a trovare la propria strada e quando l’avranno trovata, allora la sensibilità si raffinerà e ciascuno farà da sé.

Saccardi. Ci sono aspetti che sono stati molto trascurati e andrebbero rivalutati. Ricordo, in anni abbastanza lontani, quando cominciai il mio percorso di insegnamento (iniziando, come insegnante elementare, un lavoro faticosissimo ma entusiasmante), che ai miei alunni facevo imparare a memoria qualche poesia, cosa considerata all’epoca reazionaria e rappresentata quasi come una tortura. Lo facevo per abituarli ad avere il senso del ritmo, alla musicalità. Ecco, il mandare la poesia a memoria è un aspetto molto trascurato che credo andrebbe, in parte, recuperato. Non credi?

Givone. Imparare a memoria la poesia è essenziale, perché non c’è niente di più bello, a distanza di anni, di quando improvvisamente ti affiorano, da chissà quali depositi della memoria, dei versi. Essi ti vengono ridonati, pur avendoli dimenticati per anni. È come se tu non li avessi mai ascoltati e tuttavia ti risuonano dentro, perché li avevi assorbiti e capiti, ti risuonano dentro e hanno riacquistato una potenza evocativa che è quella che il poeta aveva saputo dare quando li ha scritti.

 

«La vendetta d’una mano mortale»

Saccardi. Facendo un passo indietro e tornando alla domanda da cui siamo partiti e cioè da dove nasce questo sguardo dei poeti, questa ispirazione o questo soffio che muove a esprimersi, a produrre e a scrivere, ho qui un paio di passaggi che proporrei alla nostra riflessione, di una grande poetessa che io amo molto, Wislawa Szymborska, che parla appunto della gioia di scrivere:

 

La gioia di scrivere.

Il potere di perpetuare.

La vendetta d’una mano mortale.

 

È un qualcosa, la poesia, che rimane al di là del momento nel quale si scrive. E in un altro testo, (Ad alcuni piace la poesia è il titolo), questa grande autrice così si esprime:

 

Ad alcuni –

cioè non a tutti.

E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.

Senza contare le scuole, dov’è un obbligo,

e i poeti stessi, ce ne saranno forse due su mille

La poesia –

ma cos’è mai la poesia?

Più d’una risposta incerta

è stata già data in proposito.

Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo

come all’ancora d’un corrimano.

 

Givone. Ancora una volta si nota il ricorso a questa espressione: «Non lo so». I poeti interrogati, che fosse lo Ione di Socrate, che fosse Neruda citato prima, o fosse la Szymborska appena ascoltata, danno la stessa risposta a cos’è la poesia, cioè «Non lo so». Ma fino a un certo punto non lo sanno, e la Szymborska un po’ sembra saperlo e infatti lo dice fin troppo bene: «La vendetta d’una mano mortale». Di cosa si vendica questa mano mortale? Della propria mortalità. Siamo consci di essere mortali «trafitti da un raggio di sole / ed è subito sera», ma sappiamo anche che la mortalità è la condizione per essere quello che davvero siamo. Noi non ci ameremmo, per esempio, se non fossimo mortali; gli dei non sono amati, l’unico degli dei che ha voluto farsi amare si è fatto mortale, ha dovuto morire, farsi uomo. Gli dei del pantheon greco o di altre religioni possono essere invidiati, ammirati nella loro immortalità ma non sono oggetto d’amore. La mortalità è la condizione per attingere a qualche cosa di grande, a qualche cosa che ci fa essere davvero quelli che siamo, l’amore per esempio, l’eternità. Difatti, Szymborska cosa dice della vendetta di questa mano mortale? Che essa consiste nel perpetuare, cioè nello scoprire qualcosa che dura, qualche cosa che non tramonta nel tramonto di tutte le cose, è l’accendersi di una luce intramontabile. Questa è la vendetta di una mano mortale. La poesia, questa cosa povera, finirà in polvere, anche le poesie più grandi probabilmente finiranno in polvere e tuttavia in questa polvere, in questa cenere, ci sono braci che ardono per sempre; si accende una fiammella che una volta accesa è per sempre. «Perpetuare » è la vendetta della mano mortale, ci vendichiamo della nostra mortalità assumendola, non solo riconoscendola, ma questa mortalità diventa la condizione del nostro incontro con l’Eterno. C’è il sonetto Orfeo di Rilke [Sonetti a Orfeo – I/XIX – ndr], che dice «Sono molti i cammini e molti i dolori ai quali dobbiamo prepararci» e non sappiamo – di nuovo – perché, ma, dice, «solo il canto li consacra». Questo andare, al poeta appare come un destino a cadere. Soffriamo, questo è certo, ma per che cosa? E chi lo sa! Di nuovo, il mistero. «Solo il canto li consacra», solo il canto, a questo insensato camminare, andare, a questo soffrire di cui non sappiamo la ragione, solo il canto dà una luce di senso. Non è una risposta, è il riverberare di un qualcosa con un senso possibile. Hölderlin, ci indica «l’aperto», questa nozione: guardiamo all’aperto, das hoffener. Che cos’è questo spazio aperto dove lui ci invita tutti a guardare, come se tutti fossimo poeti? È lo spazio dove il finito (la nostra mortalità, la nostra fragilità) incontra l’infinito; è lo spazio dove il bene incontra il vero. E il bene, si scopre, non è una cosa effimera. Magari lo è, è cancellato dal male che è infinitamente più grande, ma è la verità della vita. Il bene incontra il vero, il finito incontra l’infinito, il mito incontra il senso della vita, questo fa la poesia. Queste citazioni di poeti molto diversi, che vengono da mondi lontani, dicono la stessa cosa: guardiamo all’aperto, solo il canto consacra questi cammini e questi dolori, «la vendetta della mano mortale», è sempre la stessa cosa, è riscoprire quella fiammella, quella luce che è solo una piccola luce nel buio, ma è per sempre. «Perdurare», dice Szymborska.

 

Una grande compagna della vita

Saccardi. Certamente. I poeti, ognuno a proprio modo, hanno la capacità di rimandare per immagini, senza passare per i concetti della filosofia o attraverso il credo di una religione, ai grandi temi dell’esistenza. In questo senso la poesia è una grande compagna della vita. A questo proposito vorrei introdurre, come stimolo, due testi di Nazim Hikmet, che mi sono sempre piaciuti moltissimo. Uno riguarda proprio il tema della morte, ed è Il mio funerale, ma è un funerale che dà un senso di ariosità e di nostalgia animosa della vita, che dice così:

 

Il mio funerale partirà dal nostro cortile?

Come mi farete scendere giù dal terzo piano?

La bara nell’ascensore non c’entra

e la scala è tanto stretta.

Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni

forse nevicherà. I bambini giocheranno strillando

forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia

e al solito ci saranno i bidoni per l’immondezza.

Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come usa qui,

forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,

che ci sia o no la fanfara, i bambini accorreranno

i bambini sono sempre curiosi dei morti.

La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo

il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso.

Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice.

Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.

 

È una poesia molto bella, che mi ha fatto compagnia nei momenti dolorosi della mia vita, perché c’è un senso di confronto con la morte che però esprime amore per la vita. Ne propongo un’altra dello stesso autore, anch’essa piena di significato, che è Arrivederci fratello mare, nella quale ritorna il confrontarsi con i temi ultimi e con la bellezza della vita, ché sono un tutt’uno, sono aspetti intimamente legati e l’uno rimanda all’altro:

 

Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti

arrivederci fratello mare

mi porto un po’ della tua ghiaia

e un po’ del tuo sale azzurro

un po’ della tua infinità

e un pochino della tua luce

e della tua infelicità.

Ci hai potuto dir molte cose

sul tuo destino di mare

eccoci con un po’ più di speranza

eccoci con un po’ più di saggezza

e ce ne andiamo come siamo venuti

arrivederci fratello mare.

 

Sono due esempi in cui l’amore per la vita – in questo caso un aspetto particolare dell’amore per la vita, l’amore del mare – e il confronto con la finitezza dell’esistenza fanno parte di una stessa suggestione di fondo. E poi c’è la capacità (tipica dei poeti) di parlare a tutti, in maniera immediata, di questi temi.

Givone. Volevamo un esempio di quello sguardo della poesia rivolto all’aperto, uno sguardo più alto. Ecco, questo è un esempio: la morte, e si tratta della sua morte, diventa occasione per scoprire la vita in tutta la sua piccola meraviglia quotidiana (il sole, il piccione, la felicità). Viene in mente un altro verso di Luzi che, facendo riferimento alla primavera dice: «(…) c’è tutto, tutto incredibilmente», in una fogliolina, in una gemma che sboccia, nel cinguettio, in un niente c’è tutto. La poesia è questo. La poesia ha questa capacità di scoprire il tutto nel niente e ci vuole lo sguardo del ragazzino di cui parlava Rilke, quando dice che i genitori rimangono interdetti perché non sanno più chi gli sta di fronte, pur essendo il loro figlio. Questo figlio però guarda il mondo come nessuno l’aveva guardato mai, e quindi desta negli altri sconcerto, stupore, quasi paura, perché il bello è terribile. Come dice Rilke, il bello è l’inizio del terribile: l’aprirsi, lo schiudersi di un nuovo mondo dove tutto è possibile, e questo inquieta.

 

La poesia è sempre popolare, perché universale

Saccardi. Avviandoci verso le ultime riflessioni, mi piacerebbe affrontare con te un aspetto che è un po’ in ombra, trascurato o rimosso, quello delle radici popolari della dimensione poetica. La poesia, che ha questa ispirazione profonda di cui abbiamo parlato, quando viene assunta dall’accademia viene in qualche modo nobilitata, ma questa nobilitazione può diventare un impoverimento, proprio perché restano in ombra le radici e le tradizioni popolari dell’ispirazione poetica. La poesia che ha camminato nella polvere delle strade, nei borghi, con i cantastorie, attraverso l’ottava rima. Collegata a questo elemento di riflessione, ti sottopongo una seconda questione: la rimessa in discussione di un’impostazione, che dipende anch’essa da una visione un po’ angusta delle questioni culturali, fondata sulla distinzione tra cultura «alta» e cultura «bassa». Ci sono espressioni di poesia vera in esperienze come quelle di Fabrizio De André, menestrello-poeta, o di Bob Dylan, che addirittura ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. C’è una contaminazione di generi, di linguaggi, in cui l’ispirazione poetica «elevata» e i linguaggi popolari in qualche modo si fondono. Ci sono molte questioni da riconsiderare, in modo nuovo e aperto, in questo ambito, non credi?

Givone. Comincio dal primo punto, cercando di chiarire questo concetto di poesia popolare, anzi di poesia come fatto eminentemente popolare. Perché la poesia è un fatto popolare? Perché è di tutti. Se c’è una cosa che gli uomini hanno in comune è proprio la poesia. Tant’è vero che tutti scrivono poesie, la pratica più diffusa che si possa immaginare, anche se nascosta, anche se non dichiarata. Malgrado quel soffio poetico presente nella religione, non è la fede ma è la poesia che unisce; le fedi, le religioni, dividono gli uomini, tendono quantomeno a dividere, perché si trasformano in dogmi, cessano di essere ispirazione poetica e si dividono per appartenenze, per gruppi sociali, ecc. Se c’è qualcosa in cui gli uomini si sentono accomunati è proprio la poesia, non la religione, anche se il nesso poesia-religione è strettissimo, come dicevamo, non lo nego certamente. Quindi, se la religione divide la poesia fa il contrario: dove c’è un poeta che non vuole essere altro che un poeta, gli uomini, che possono venire da paesi, tradizioni, abitudini diversissime, si siedono lì e lo ascoltano. C’è quasi un moto istintivo ad ascoltare il poeta, il quale non crea inimicizia, crea sempre e soltanto amicizia, nel senso greco della philia, del riconoscersi come tutti appartenenti all’unico popolo che esiste, che è il popolo degli uomini, il popolo degli abitanti della terra. Parlare di poesia non significa contrapporre una poesia bassa ad una poesia alta, questa è una sciocchezza, tant’è vero che se c’è una poesia popolare, questa è rappresentata proprio dai poemi omerici, che hanno espresso la più bella poesia che si può immaginare e, come la collochiamo?: è poesia alta o è poesia bassa? Ciò non toglie che il problema esista, ma esiste come problema creato artificialmente dai letterati, più che dai poeti, dagli eruditi, da coloro che della poesia, che richiede delle competenze seppur involontarie ma pur sempre competenze, ne hanno fatto un sapere per pochi, separato, riservato a coloro che ne conoscono tutti i segreti meccanismi. E coloro che conoscono tutti i meccanismi segreti, saranno pure degli eruditi, dei conoscitori, ma quando arrivano a scrivere un verso, scrivono i versi peggiori.

Saccardi. Ci sono i versificatori e ci sono i poeti…

Givone. Invece di distinguere fra poesia alta e poesia bassa cerchiamo di partire invece dalla differenza fra poesia buona e poesia cattiva. Se si vuol parlare di poesia popolare dobbiamo riconoscere che ogni grande poesia è popolare, perché popolare vuol dire universale; la poesia elitaria è quindi per pochi. La poesia elitaria, quella per pochi, è la poesia degli eruditi e come tale è poesia bassa, non alta. Evitiamo quindi queste categorie che non hanno ragion d’essere.

 

Non è detta l’ultima parola

Saccardi. Ha un significato che oggi molti si confrontino con la poesia, scrivano o provino a scrivere versi? Ci sono manifestazioni che si occupano di poesia, più o meno valide, ma con una diffusione, e talora con uno spessore, notevole. A questo proposito mi piacerebbe soffermarmi su un paio di esperienze particolari: nella nostra città abbiamo «Semicerchio», diretta da Francesco Stella, una rivista che fa un lavoro assolutamente notevole di poesia comparata. E poi pensiamo alla rivista «Poesia» di Nicola Crocetti, che offre un esempio importante dell’interesse suscitato da questa materia, pubblicando monografie e testi, occupandosi della scoperta di nuovi autori, redigendo ritratti di poeti, in un lavoro di anni che ha conquistato un gran numero di lettori e ha suscitato molto interesse. Si tratta di divulgazione di alta qualità, che evidentemente risponde a un bisogno e che contribuisce a diffondere sensibilità e conoscenze in materia. Direi che non tutto, nel nostro tempo, così controverso è sotto il segno dell’appiattimento e dell’impoverimento, ci sono anche dei segni di speranza, dal punto di vista della vivacità culturale, che percorsi come questi fanno intravedere.

Givone. Che sono tanto più meritevoli, se si pensa a Crocetti ma anche a Olschki, se si comparano con i grandi editori, che pubblicano sempre meno poesia. Pensa a «Lo Specchio» e pensa alla «Collana di Poesia» di Einaudi, per fare gli esempi più noti, che hanno fatto la storia della poesia italiana degli ultimi decenni. Oramai si contano sulle dita di una mano i titoli che escono nell’una e nell’altra collana. Però hai ragione, non è tutto perduto, non andiamo verso un appiattimento per cui la poesia esce dall’ambito della cultura, perché ci sono dei fenomeni che ci sorprendono, di editori coraggiosi che pubblicano riviste o pubblicano poesie. Certo, la grande quantità di poesie che si pubblica, la si pubblica a spese proprie con i libri che uno fa da sé in rete (una volta si usava il ciclostile). Quindi, non andiamo verso un naufragio, uno scomparire della poesia, ché, se scompare da quelli che erano i teatri deputati, riappare, come sempre, in altri luoghi o in altre forme.

Saccardi. Ci sono molte esperienze di giovani poeti e questo lascia intravedere possibilità nuove.

Givone. Sì, mi è capitato recentemente di leggere cose sorprendenti per novità di stile di poeti di ultimissima generazione (ventenni, trentenni).

Saccardi. Abbiamo una fiamma che si mantiene viva.

Giovone. Abbiamo il nostro Piero Meucci che ha inaugurato una collana di poesia, io stesso ho curato una piccola prefazione a uno dei giovani poeti da lui pubblicati. Tanto per citarne uno, Piccinini mi è sembrato notevole, ma potrei citarne molti altri. Non è detta l’ultima parola.

Saccardi. Non è detta l’ultima parola quindi.

Givone. Non è detta l’ultima parola, anzi, l’ultima parola è quella della poesia. Ne riparleremo tra vent’anni, se saremmo ancora qui.

Saccardi. Grazie.