«IL MONDO HA BISOGNO DI BELLEZZA»

di Bernardo Francesco Gianni

 

«Il mondo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione», queste le parole di Paolo VI, secondo cui la bellezza è sinonimo di verità, di umiltà, di giustizia e di gioia, in contrapposizione alla «cattiveria» del mondo. Una dimensione da inquadrare alla luce delle riflessioni ispirate di Simone Weil e della rilettura dei Padri della Chiesa, in un percorso che va dalla creazione dell’uomo a immagine di Dio, alla perdita della bellezza con il peccato di Adamo, al sacrificio di Cristo che indica all’uomo la strada per il recupero del suo più autentico significato in Dio.

Le ispirate parole di Paolo VI

«Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani (…) Che queste mani siano pure e disinteressate! Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo». Con questi ispirati termini Paolo VI l’8 dicembre 1965, al termine del Concilio Vaticano II, si rivolgeva agli artisti stabilendo una singolare e forte equazione fra arte, bellezza, verità, tempo ed eternità. Ci affascina questa missione di custodia del creato assegnata a chi con l’umiltà delle mani, la fantasia del cuore e la fatica dell’intelligenza è chiamato a dare futuro al nostro presente con la forza umile e fragile della bellezza, una bellezza oggi troppo volte negletta o troppe volte esaltata. E qui vogliamo includere tanto la bellezza riposta nel cuore quanto la bellezza che dà forma e splendore ai lineamenti di ogni persona, specchio e istanza di quell’altra bellezza, quella che vorremmo sempre circondasse ogni istante della nostra vita, riempiendo di sé ogni nostro sguardo, ogni nostra generica sensazione guardando al mondo e agli altri.

 

Giorni «cattivi»

Ma il paesaggio oggi è cambiato, la vita veloce contrae la qualità del tempo vissuto e se non prestiamo attenzione tutto pare davvero inghiottito nel niente e nel caos. Scriveva a proposito fra’ David Maria Turoldo, in una lirica intitolata E ridiamo: «La profezia è spenta / La poesia è muta / La musica un urlo… // Dio non c’è nel nuovo Caos: / non più lo Spirito / si libra su questi abissi / a guidare l’esodo verso le nuove Forme: / la Bellezza è stata sconfitta! / Siamo tutti sul palco / Straccioni / Sporchi / Insanguinati! // E ridiamo». Pesante il tono disperato e disperante della diagnosi di fra’ David. La percezione diffusa e dominante, tuttavia, in questi nostri giorni, che san Paolo non esiterebbe a definire «cattivi», mi pare confermi un senso di disordine, di frammentarietà, di squilibrio, di muta e refrattaria tecnicizzazione dell’umano, che assieme cospirano nel confermarci la perdita di una dignità e di una misura dentro e intorno al cuore dell’uomo, sempre più maschera sul palco di una vita ridotta a meccanismo scenico e sempre meno trasparente testimonianza di un mistero che si rivela nei passi del tempo quale dignità impressa dal Creatore fin nelle fibre più segrete del nostro essere. Non è un caso se i nostri giovani paiono tentati o da un narcisismo esasperato che esalta la mera esteriorità formale sia come strumento di facile imposizione di sé nelle relazioni, sia come rassicurante e frivola cittadinanza nel mondo, o invece tentati da un ancor più tragica patologia, quell’anoressia, che è di fatto la sistematica e progressiva dissoluzione della propria corporeità, la guerra quotidiana condotta contro la propria integrità psicofisica, per denunciare o quantomeno manifestare l’assoluta perdita di riferimenti o di orientamento affidabile nella propria esistenza.

In un altro contesto storico, certo ben più drammatico almeno in Europa, ma non per questo inattuale in molte geografie del nostro mondo, Simone Weil annotava analoghe percezioni: «La vita della nostra epoca è in balia della dismisura. La dismisura invade tutto: azione e pensiero, vita pubblica e privata. Per questo vi è decadenza dell’arte, per esempio, e molti tentativi di artisti risultano vani. Qualcosa è rimasto intatto nella liturgia delle cerimonie religiose. Ma il più delle volte non ha alcun rapporto con il resto dell’esistenza. Ogni equilibrio è viziato. Ma proprio questo andrebbe cercato: un equilibrio tra l’uomo e se stesso, tra l’uomo e le cose. Noi viviamo in un’epoca che non ha precedenti, e che esige un certo tipo di santità, anch’essa senza precedenti. Essa deve scaturire d’improvviso, come un’invenzione, e mettere a nudo tutta la verità e la bellezza che sono nel mondo, nascoste sotto strati di polvere e di marciume. Noi siamo nella irrealtà e nel sogno. Aprire gli occhi sulla realtà, vedere la luce, ascoltare il vero silenzio. Questo significa rinunciare alla nostra illusione di essere al centro».

 

Tracce e mistero della bellezza

Sono parole esigenti e lucide, che ci illuminano su due tratti qualificanti e irrinunciabili dell’esperienza cristiana: da un lato non esiste autentica santità cristiana che rinunci a fotografare con fedele realismo la verità della storia, un’immagine che purtroppo sovente ritrae il mondo scosso da «guerre e voci di guerre» (Mt 24,6) e l’uomo disumanizzato in logiche estreme di sfruttamento di sé, del prossimo e del tempo donato da Dio, dall’altro ogni autentica ricerca di bellezza evangelicamente ispirata non potrà mai essere estranea e indifferente alle aspirazioni più alte, agli ideali più nobili, alla vita stessa dell’intera famiglia umana. Stiamo dunque indagando tracce e mistero della bellezza insieme, in questo istante, perché siamo appassionatamente convinti della sua rilevanza in ordine alla salvezza dell’uomo e del mondo e prima ancora in ordine alla stessa veritas cristiana sull’uomo e sulla storia. Se Simone Weil ci avvertiva come «la dismisura invada tutto

», noi vogliamo essere ben consapevoli come altrettanto totalizzanti siano l’esperienza e la fecondità della bellezza, nella sua mirabile capacità di sollecitare i sensi e il senso del nostro esserci, nella sua ineliminabile e inscindibile unità dello «spirituale» e del «materiale» e ancora – come ci avverte Pierangelo Sequeri – «(…) della legge con la grazia, della logica con l’emozione, del desiderio con la conoscenza». Al mondo tentato di sopravvivere anestetizzando il proprio cuore alla verità e all’amore che salvano e responsabilizzano, vorremmo sommessamente suggerire una estetica della bellezza che è e vorrebbe essere «la santità senza precedenti» di cui con felici accenti parlava sopra Simone Weil, quella chiamata a riscoprire da chi, per che cosa e come è fatta la nostra umanità nel suo posizionarsi nel mondo tov, il mondo bello/buono architettato dal Dio genesiaco per i nostri talenti, una «santità senza precedenti» che, mossa dal desiderio di bellezza, ricordi al nostro cuore l’intima inerenza fra amore, verità e bellezza in ordine alla salvifica riscoperta della nostra creaturalità, antitetica ad ogni «illusione di essere al centro», ancora la Weil, un «essere al centro» senza Dio, che è la riedizione quotidiana, a pensarci bene, del peccato degli inizi. Questo perché si sappia con le parole di Pavel A. Florenskij che «(…) la verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza. Il mio stesso amore è azione di Dio in me, e mia in Dio». Nella verità, nell’amore, nella bellezza, dunque, il cristiano lascia agire Dio nella propria vita – e viceversa – ed evidentemente assolve all’esortazione che sola qualifica appieno il senso dell’ethos cristiano: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché, vedendo le vostre opere belle/buone (kalà) rendano gloria al Padre» (Mt 5,16). Sappiamo come questa luce non sia certo la luce propagandistica di un certo agire anche ecclesiale talvolta segnato da un banale efficientismo, bensì la luce che brilla nel profondo del nostro cuore, la luce che sgorga solo da una vita interiore mossa da una fede ogni giorno rinnovata nel Cristo morto e risorto per noi. È la luce che è apparsa per la prima volta nella nostra storia sul monte Tabor, una luce di bellezza che pur nell’estasi insostenibile ha davvero svegliato – per riprendere ancora le suggestive immagini della Weil – i discepoli «(…) erano oppressi dal sonno, tuttavia restarono svegli» (Lc 9.32), ha loro mostrato la più integra autenticità del loro Signore «(…) il suo volto brillò come il sole» (Mt 17,2), li ha come tentati nell’ingenuo e inaccettabile desiderio di arrestare il fiume della storia, tanto era bello per loro rimanere lassù «Maestro, è bello per noi stare qui» (Lc 9.33), inghiottiti dalla luce che rivela la gloria del Figlio, l’energia dello Spirito, l’amore del Padre ma anche «(…) questo è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo» (Lc 9.35) la parola che sollecita la nostra responsabilità, più che etica, estetica, in ordine al mondo e alla storia!

«Aprire gli occhi sulla realtà, vedere la luce, ascoltare il vero silenzio. Questo significa rinunciare alla nostra illusione di essere al centro»: queste parole appena udite di Simone Weil ci riaccompagnano su quella montagna di luce per scorgere, in silenzioso ascolto della Parola di Dio, che il vero realismo cristiano non è fermarsi agli «strati di polvere e marciume», ma è contemplare il nuovo Adamo nella sua gloria di luce, il bagliore dello Spirito che investe, come primavera e promessa pasquale, la carne del Figlio, la nostra stessa carne, nel suo farsi obbediente ai disegni di salvezza del Padre. Ascoltare l’ascolto del Figlio e obbedire all’obbedienza del Figlio, saranno dunque per noi la tecnica privilegiata nel restaurare la nostra consapevolezza di essere figli nel Figlio. Solo con questa conformazione al «(…) più bello fra i figli dell’uomo » (Sl 45,3) possiamo sperare di tornare ad ascoltare nel nostro cuore l’originale compiacimento che Dio manifestò nella creazione dell’uomo: «E Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1.31), compiacimento che torna a riecheggiare nella storia sul monte Tabor, luogo della manifestazione come gloria e bellezza della comunione trinitaria, esperienza estetica in cui la Luce di Presenza e il Silenzio di ascolto fecondano la Parola del Padre: «Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».

 

La bellezza del primo uomo

Potremo tornare anche noi a riscoprirci, in Cristo, i prediletti da un Padre che si compiace della nostra vita, una vita che sia segno, prova e manifestazione del desiderio infinito di Dio di ritrovare anche in noi la bellezza del Figlio? Sappiamo bene dal salmista quanto fosse già pieno di bellezza il primo uomo, Adamo, quando uscì dalle mani di Dio, un Dio compiaciuto di fronte all’uomo, da lui voluto e desiderato come il compimento libero e dunque sommamente dignitoso dell’intera creazione: «(…) di gloria e di onore hai coronato» (Sl 8.3) l’uomo chiamato a vivere in relazione armonica con Dio, con se stesso, con la creazione, con la storia. Sappiamo al contempo come nel racconto genesiaco il Creatore imprima la sua stessa immagine nel volto dell’uomo: «(…) e creò Dio l’Adamo betsalemu», «(…) nella sua immagine» o «(…) per mezzo della sua immagine». Dio restando altro (Coda 21) crea l’uomo guardando a Sé e nell’uomo, senza gelosia, senza narcisismo, rispettando alterità e libertà, osando specchiarvi se stesso. Ecco perché dobbiamo posizionare accanto al nostro desiderio di Dio, il desiderio di Dio verso di noi. Anzi, esso andrà anteposto, come desiderio sorgivo di ogni desiderio di bellezza. Non a caso Paul Beauchamp, commentando i Libri Sapienziali scrive: «Se la bellezza non si spiega, è perché manifesta che l’inizio è prima del pensiero sull’inizio»1.

Bellezza dunque come manifestazione originaria e originante dell’inizio di Dio nei riguardi dell’uomo, bellezza come riflesso reciproco di una medesima immagine e, allargando indistintamente all’umanità il titolo col quale il Signore si rivolge a Daniele: his hamudòt, «uomo prediletto » (Dan 9,23 e 10, 11, 19; così traduce G. Wallis, hamad in GLAT 2,1080-1092, qui 1083), bellezza come emozione nell’uomo e in Dio se è vero che Hamad è un impulso che viene da una emozione intensa, quella della bellezza e della grazia («(…) la grazia e la bellezza entusiasmano l’occhio» dice Eccl. 40,22). His hamudòt, ovvero «uomo scelto», «uomo prezioso», «uomo dell’amabilità», ritroviamo così nell’uomo e solo nell’uomo il compimento del desiderio creativo del Padre: fare dell’«uomo vivente» la «gloria di Dio» e al contempo lasciar scoprire ad Adam come «(…) la gloria dell’uomo sia Dio» (Ireneo, Contra Her. IV, 20, 5). Credo infatti sia assai doveroso, come fondamento di un ragionevole umanesimo cristiano, insistere sull’amabilità dell’uomo, amabilità agli occhi e nel cuore di Dio, in un tempo in cui una certa contemporaneità rimprovera la convinzione cristiana, quasi che questa fosse del tutto surreale e per certi versi onirica, circa la profonda e irriducibile alterità fra l’uomo e la natura, come se questa, diversamente da quel che noi sosteniamo, con le sue leggi «necessariamente» meccanicistiche e puramente biologiche, davvero potesse assorbire in sé oltre ogni ragionevole quadro assiologico, l’humanum, il suo mistero, la sua oggettiva libertà e il suo compimento. È una insistenza, quella relativa all’amabilità dell’uomo nonostante la sua strutturale disobbedienza, che trova a mio avviso la sua ragione e non la sua smentita proprio rileggendo in questa stessa luce d’amore la drammatica vicenda del peccato dell’uomo. Soccorre a proposito una mirabile riflessione di Romano Guardini. Egli scrive: «Un animale è immediatamente identico a se stesso. Diciamo più esattamente: per un animale non esistono domande. È come è, inserito e risolto nel proprio ambiente. Di qui l’impressione di “naturalezza” che l’animale ci fa: esso è tutto quanto come deve essere in rapporto alla sua essenza e alle condizioni ambientali. Con l’uomo le cose non stanno così. Egli non si risolve in ciò che è e in ciò che esiste riferito a lui. Egli può porsi in distanza da se stesso e riflettere su se stesso; può giudicarsi; può desiderarsi al di là di ciò che è in direzione di ciò che vorrebbe o dovrebbe essere».

 

Immagine dell’Immagine

Guardini evidentemente allude al di più che è l’uomo in ordine alla natura, allude alla drammatica responsabilità che comporta ed esige la misura di dignità e di libertà propria dell’uomo e solo dell’uomo. Questa dimensione dinamica e quasi avventurosa della vita è ben evocata nello stesso Vangelo: l’uomo deve infatti «trovarsi» secondo quel che leggiamo in Mt 16.25: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita a motivo di me, la troverà». È perennemente in gioco la possibilità che rende l’uomo aperto all’esperienza di Dio o ad essa radicalmente estraneo, in forza di una peccaminosa autoreferenzialità. È quanto tratteggia, fra i tanti loci biblici consultabili a proposito, il profeta Ezechiele, dove la lamentazione sul re di Tiro è nondimeno una meditata allusione e riflessione sul misterioso dramma degli inizi di Adam: «Così dice il Signore Dio: tu eri un modello di perfezione, pieno in sapienza, perfetto in bellezza; in Eden, giardino di Dio, tu eri coperto di ogni pietra preziosa: rubini, topazi, diamanti, crisòliti, onici e diaspri, zaffiri, carbonchi e smeraldi (…) Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re che ti vedano» (Ez 28). E poco prima: «Ripeterai ancora: “Io sono un dio”, di fronte ai tuoi uccisori? Ma sei un uomo e non un dio, in balìa di chi ti uccide. Oracolo del Signore Dio». Questa è la condizione dell’uomo, potenzialmente aperto a riconoscersi immagine di una bellezza altra e superiore a sé o viceversa tentato di rinchiudere in sé con improvvida autosufficienza il senso che lo apre al mistero. In altri termini, più attinenti al tema in questione, l’uomo corre il rischio di trasformarsi, in una tragica caricatura di sé, da immagine modellata kat’eikona Theou a idolo, a maschera, a reificazione di un volto che di fatto vive in pienezza e in benedizione solo se lascia che «(…) il Signore faccia brillare il suo volto su di sé» (Nm 6.24-26). Non a caso la Scrittura ci informa di come Adamo dopo il peccato sia corso a nascondersi (Gn 3.10), segnalandoci così l’incipit della rottura di quella intima e trasparente reciprocità di luce e di sguardi fra Dio e l’uomo. E la storia davvero assomiglia ad un drammatico ritornello di questa medesima tensione fra perdersi e ritrovarsi, fra tentazione a mascherarsi dietro la fittizia e smaltata rigidità dell’idolo e umile audacia nel consegnarsi al Signore e al prossimo nella pur fragile ma fragrante verità della nostra carne scolpita dalla sua mano creatrice, mano rispettosa delle nostre umili, ma pur sempre gloriose fattezze kat’eikona Theou. Questa è la nostra biografia più vera e questa è molto della tensione che agita i nostri giorni. Una biografia dunque contraddittoria ma che è e resta amabile agli occhi di Dio, per la potenza della sua misericordia e del suo amore. Sì, è l’incarnazione del Signore Gesù, e solo essa, ad illuminare e a riorientare questa inquietudine profonda dell’uomo, questa sorta di potenziale straniamento dalla sua più vera vocazione «responsoriale» all’amore creatore e creativo di Dio, questa perenne tentazione di nascondersi dal Volto che riporta la bellezza dell’uomo alla sua immagine archetipale: «(…) guardate a Lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti», ci fa cantare il salmista (Sl 34.6)! Sì, perché se davvero siamo «a immagine», significa che siamo stati plasmati sulla base di un modello, il modello che è la vera e autentica immagine del Padre, il Verbo incarnato, «immagine del Dio invisibile », come ci assicura Paolo (Colossesi 1.15): in forza della incarnazione l’uomo partecipa di Colui che è l’immagine, divenendo così immagine dell’Immagine, necessaria irradiazione della luce che viene dall’alto, ben oltre il pallido e malfermo riflesso sul volto di Mosè (2 Cor 3.13): «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3.18). In un passo di vertiginosa bellezza Ireneo ci ripropone tutto questo: «Ora questo si mostrò vero allorquando il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all’uomo e l’uomo simile a sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Figlio, l’uomo divenga prezioso di fronte al Padre. Infatti, nei tempi passati, si diceva bensì che l’uomo è stato fatto a immagine di Dio, ma non appariva tale, perché era ancora invisibile il Verbo, a immagine del quale l’uomo era stato fatto: e appunto per questo facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne, confermò l’una e l’altra cosa: mostrò veramente l’immagine, divenendo egli stesso ciò che era la sua immagine, e ristabilì saldamente la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo che si vede» (Adv. Her. V,16,2).

 

A immagine del Verbo

Fondamentale sintesi è che l’uomo è a immagine del Verbo incarnato ed è proprio per la mediazione del Verbo incarnato che l’uomo è immagine di Dio. Riemerge altresì un carattere decisivo dell’antropologia cristiana, su cui già prima si insisteva: partecipando della carne del Cristo Gesù, l’uomo recupera la sua preziosità agli occhi del Padre, quella amabilità che tanto dice di quell’onore e di quella gloria con cui il Creatore aveva circonfuso di ineffabile bellezza l’uomo e la donna. Tale bellezza torna a risplendere nella nostra storia giacché «(…) con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo a ogni uomo» (GS 22). Sì, mediante il Signore Gesù che Gregorio di Nissa – commentando il Cantico (Omelia 4, PG 44,836B), chiama «(…) il solo veramente bello. E non soltanto bello, ma la stessa essenza eterna e personale della bellezza» e nel Contro Eunomio II (PG 45.496D) «(…) il bello ed è oltre tutto il bello», Dio ama l’uomo riscoprendone la bellezza e compiacendosi di essa. Ogni creatura è e resta infatti un assoluto per Dio e per il suo salvifico desiderio di bello e di bene per noi. «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6.39). Molte correnti di pensiero, nel passato e nel presente, scriveva Giovanni Paolo II in Dives in misericordia 1, «(…) sono state propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio». Il papa Giovanni Paolo alludeva qui senz’altro a molti fondamentali passaggi, fra l’altro, di Gaudium et Spes, fra cui quello, celebre e celebrato, del numero 22 che merita anche qui di essere riportato ai fini del nostro argomentare: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato si chiarifica veramente il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo era figura di quello futuro (Rm 5.14), e cioè di Cristo Signore. Cristo che è il nuovissimo Adamo, nella rivelazione stessa del mistero del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo all’uomo stesso e a lui fa nota la sua altissima vocazione». In massima sintesi i Padri del Vaticano II ci hanno ricordato un assunto fondamentale, purtroppo talvolta opacizzato nella tradizione teologica precedente all’assise conciliare: è in Cristo e in vista di lui che l’uomo è creato e salvato. Possiamo così constatare il pieno e provvidenziale recupero dell’antropologia paolina: il vero uomo è l’Adamo ultimo, adempiuto, il Cristo risorto «(…) che divenne spirito datore di vita» (I Cor 15.45). L’uomo dunque, voluto e creato in Cristo, che è suo prototipo, mediazione della sua salvezza e sua suprema destinazione, in Lui partecipa di una vita nuova, in forza di quell’amore «(…) riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5.5) per renderci ut filii in Filio. In questa luce Cristo non solo svela l’uomo all’uomo, ma, per così dire, tutto il segreto progettuale della creazione, orientata quest’ultima ad una pienezza e ad un compimento già inaugurati col misero pasquale. Si attiva così nella nostra consapevolezza di battezzati un dinamismo ineliminabile che si sprigiona dalle energie dello Spirito per configurarci già in questa vita al Cristo luminoso quale appare sul Tabor: l’incarnazione del Cristo e la sua trasfigurazione manifestano e illuminano infatti l’originaria vocazione divina dell’uomo, la sua chiamata ad esser figlio, il suo essere ad futurum, il suo essere-per-diventare partecipe della divina natura per mezzo della «potenza divina» del Cristo (2 Pt 1.3-4). Se il Verbo si incarna è perché l’uomo non può essere se stesso senza di lui, senza il suo potere («(…) a quanti però lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio» Gv 1,12); al contempo se il Cristo si trasfigura sul Tabor è per accendere nei nostri cuori la fiamma che, illuminando la nostra volontà, ricordi al nostro intelletto l’impronta santa e divina della sua immagine impressa nella nostra carne: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). Come osserva don Basilio Petrà, «(…) se ogni ente creato è installato nel proprio essere e in esso risiede, l’uomo – unico tra gli enti – è originato da una vocazione che giunge dal futuro e non trova quiete finché non incontra nella gioia il volto di colui che lo chiama e per il quale è stato fatto (“entra nella gioia del tuo Signore” Mt 25,21.23)» (Valentini 127). Il cammino umano è dunque un movimento dalla creazione kat’eikona «secondo l’immagine», eis omoiosin «verso l’assimilazione » con Dio.

 

La creaturalità come dono

Un cammino certamente ascetico, ma anche, osiamo dire, estetico. Non paia questa relazione una forzatura o peggio uno sconcertante arbitrio: proprio in forza di questa centralità cristologica predicata ininterrottamente dalla Chiesa dei Padri, l’uomo, realizzando in pienezza l’umano, si assimila a Dio in un cammino che Ireneo non esita a comparare alla progressiva realizzazione di una vera e propria opera d’arte di avvincente bellezza: «Come sarai Dio, se ancora non sei divenuto uomo? Come sarai perfetto, se sei appena stato creato? (…) Prima tu devi custodire la tua condizione di uomo, e poi partecipare alla gloria di Dio. Perché non sei tu che fai Dio, ma è Dio che fa te. Se dunque tu sei opera di Dio, aspetta la mano del tuo Artefice, che fa tutte le cose al tempo opportuno (…) Presentagli il tuo cuore morbido e malleabile e conserva la forma che ti ha dato l’Artista, trattenendo in te l’Acqua che viene da lui per non rifiutare, indurendoti, l’impronta delle sue Dita. Conservando questa conformazione, salirai alla perfezione e l’arte di Dio nasconderà l’argilla che c’è in te; la sua Mano creatrice ti rivestirà di oro puro e di argento dentro e fuori; ti adornerà così bene che il Re stesso sarà preso dalla tua bellezza. Se invece ti indurisci e rifiuti la sua arte e ti mostri ingrato verso di lui perché ti ha fatto uomo, con la tua ingratitudine verso Dio tu perdi insieme la sua arte e la vita: fare è proprio della bontà di Dio, e essere fatto è proprio della natura dell’uomo. Se tu dunque gli affiderai ciò che è tuo, vale a dire la fede in lui e la sottomissione, riceverai la sua arte e sarai opera perfetta di Dio» (Adv. Her. IV,39,2).

A fronte del peccato di Adam che ha indebolito se non incrinato l’immagine e somiglianza col Creatore, sta l’umiltà mediante la quale il credente si consegna al suo Signore, «(…) rinunciando alla nostra illusione di essere al centro» – per riprendere le parole di Simone Weil –, imparando a vivere la propria creaturalità come un dono, senza ricorrere alla menzogna dell’orgoglio che in forza di una patologica presunzione ci costringe in una caricatura idolatrica di noi stessi. Isacco il Siro, un grande padre dell’Oriente cristiano, vissuto nel VII secolo, arriva a dire che «(…) tutto quello che è dell’umiltà è bello» (Prima Collezione 12). Ed è bella perché per Isacco «(…) l’umiltà è il vestito di Dio: tramite la Parola che si è fatta uomo, egli l’ha rivestita e con noi parla per mezzo di essa, attraverso il nostro corpo. Chiunque ne è ricoperto assomiglia in verità, tramite l’umiltà, a colui che è disceso dalla sua altezza, ha nascosto lo splendore della sua grandezza e ha velato la sua gloria, perché la creazione vedendolo non perisse. Perché la creazione non poteva vederlo, se non nella parte che viene da essa e che egli aveva assunto, e nella quale egli parlava con essa, così che questa poteva ascoltare la parola della sua bocca, faccia a faccia (…) Chiunque riveste questo mantello nel quale il nostro Creatore si è rivelato, per mezzo di questo corpo pieno di santità, riveste lo stesso Cristo. Perché costui desidera rivestire il suo uomo interiore di quella somiglianza nella quale Cristo si è rivelato alla sua creatura» (Prima Collezione 82). È questo un testo di grande bellezza, che presenta l’umiltà come l’effettivo e salvifico medium tra la nostra realtà fragile e debole che solo un cuore umile sa accettare e valorizzare e la gloria di Dio che per amore vela lo splendore della sua luce con un mantello – l’umiltà appunto – che rivela l’amore gratuito del Padre e consente all’uomo di rivestirsi di quanto per divina generosità lo riconfigura alla somiglianza smarrita in forza di quell’orgoglio le cui nefaste conseguenze ci aveva prima mostrato il profeta Ezechiele. Per questo Isacco può ben dire che «(…) l’umiltà nasce nell’uomo dalla conoscenza di Dio e di se stessi» (Seconda collezione 18,6).

 

«Senza bellezza né decoro»

Con maggiore realismo Origene, pensando evidentemente agli esiti corporei della crocifissione e memore di Isaia 53,2-4, il celebre quarto canto del Servo «percosso e umiliato da Dio», che l’intera tradizione dei Padri ha unanimemente interpretato come prefigurazione del Cristo crocifisso («Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto»), arriva a evocare la condiscendenza di Dio nei nostri riguardi non solo come umiliazione, analogamente ad Isacco il Siro, ma, usando una ben più compromettente categoria estetica, come bruttezza. Scrive infatti nel Commentario a Matteo XII,29: «Ma egli verrà anche nella gloria, dopo aver preparato i discepoli con la sua venuta senza apparenza e senza bellezza, facendosi come loro per farli diventare come lui, conformi all’immagine della sua gloria, essendo prima lui diventato conforme al corpo della nostra umiliazione, quando spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, si ristabilì nella condizione divina e ve li rese conformi». È questo della «bruttezza» del Signore un tema assai suggestivo, che non possiamo trascurare, se vogliamo tentare di rendere ragione almeno in parte di quanto sia costata a Dio in misura senza misura di amore la bellezza che mediante Cristo ci è stata donata alla creazione e sempre mediante la sua carne di gloria occultata dal mantello dell’umiliazione sulla croce, ci è stata ridonata nel mistero pasquale. Sì, «(…) il più bello tra i figli dell’uomo» (Sl 45,3) si lascia vedere «senza bellezza, né decoro» (Is 53,2) per restituire all’uomo la bellezza primigenia, quella impressa su Adam come sigillo di appartenenza dalla mano stessa del Creatore. Sfigurato, anzi deformato dalla passione «il più bello tra i figli dell’uomo», innalzato come lo era stato l’osceno serpente nel deserto (Gv 3,14-15), con l’umile forza dell’amore attrae tutti a sé perché la sua deformitas ci restituisca la deiformitas. Questo straordinario passaggio teologico, antropologico e nondimeno retorico è fissato per sempre dal magistero di Agostino, nel Sermone XXVII che lasciamo suonare nell’eloquentissimo

latino originario: «Deformitas Christi te format. Ille enim si deformis esse noluisset, tu formam qua perdi-disti non recepisses. Pendebat enim in Cruce deformis, sed deformitas illius, pulchritudo nostra est». Altrove, nelle Enarrationes in Psalmos 103,1,5 Agostino ribadisce l’enorme portata dello scambio patito a vantaggio di noi deformi dall’amore deiforme del Signore Gesù: «Ma egli per renderla bella, oso aggiungere, l’ha amata anche brutta. Che significa che l’ha amata anche brutta? Cristo infatti è morto per gli empi. Quale vita egli riserva per te, già giustificato, se anche all’empio ha fatto dono della sua morte? Ecco come colui che è bello, magnifico di aspetto tra i figli dell’uomo, nel venire verso colei che è brutta, si è fatto brutto per renderla bella». Rilevanti le conseguenze anche in una angolatura etica: in una visione cristiana la bellezza, se idolatrata e diabolicamente divisa dall’insieme creaturale che simbolicamente rinvia a Dio Creatore, può pericolosamente rivelarsi bruttezza, viceversa la bruttezza, se esito di una donazione di amore senza risparmio, manifesta comunque le tracce della vera bellezza, quella del Creatore. Per questo è ancora Agostino a dirci come il Cristo sia «lo Sposo» che «si presenta sempre bello»: «Bello è Dio, Verbo presso Dio (…) È bello in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte; bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella Croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo. Ascoltate il cantico con intelligenza, e la debolezza della carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza. Suprema e vera bellezza è la giustizia: non lo vedrai bello, se lo considererai ingiusto; se ovunque è giusto ovunque è bello (En. in Ps. 44, 3)».

 

Le ragioni di un rinnovato umanesimo

Ben oltre un dato estetico meramente formale ed estrinseco, la rilettura patristica del mistero della divino-umanità del Signore Gesù salda la pertinente idea di bellezza con la giustizia intesa nel suo senso biblico di solida e duratura coerenza con il progetto di Dio creatore. Come annota Paolo Giannoni «(…) è buono e bello ciò che piace a Dio, perché corrisponde alla sua volontà» e non a caso si legge: «(…) le sue opere sono splendore di bellezza, la sua giustizia dura per sempre» (Sl 112.2- 3 e ancora Sl 45,2-4). E noi sappiamo che la «giustizia di Dio» si rivela «di fede in fede» «nel Vangelo» come giustizia salvifica, «(…) potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1,16-17), ed è per questo che il Bel Pastore (Gv 10,11) ci pare consolante e affidabile immagine di giustizia, di bellezza e di amore che salva, anzi, come dice Efrem il Siro, il Figlio «(…) distoglie i nostri occhi dalla bellezza passeggera per volgerli alla bellezza di Colui che l’ha inviato» (Inni sulla Fede 5,18). Ed è ancora Agostino a fare della bellezza del Figlio, riflesso della gloria, dell’amore e della giustizia del Padre, la via e lo strumento della piena riconciliazione fra Dio e l’uomo: «La nostra anima era sfigurata dall’iniquità; amando Dio, diventa bella. Qual è questo amore che rende bello colui che ama? Dio, che è eternamente bello, ha amato noi deformati al fine di renderci belli. Come diventiamo belli? Amando Colui che è sempre bello. Nella misura in cui cresce il tuo amore, cresce anche la tua bellezza, perché la carità stessa è la bellezza dell’anima» (In Jo. 4,19; tract. IX,9). Non si dà esperienza cristiana che non proponga al credente la concreta possibilità di conformarsi nel dono del tempo a Cristo Signore (cfr. Fil 3,10-14), qui in Agostino nel segno della carità-bellezza, altrove, soprattutto nella tradizione orientale, nel segno della luce-bellezza. «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio» (Mt 5.8): il cuore purificato arriva infatti a cogliere la presenza di Dio in ogni cosa perché la sua «(…) anima, resa degna di aver parte allo Spirito, fonte della sua luce, e illuminata dalla bellezza dell’ineffabile gloria del Signore, che l’ha preparata quale suo trono e quale sua dimora, è divenuta tutta luce, tutta volto, tutta occhio; non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essa nulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non ha alcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato, poiché su di essa è assisa l’ineffabile bellezza della luminosa gloria di Cristo». Con questi ispirati accenti ci prospetta il luminoso e mistico compimento dell’immagine e della somiglianza di Dio nell’uomo una magnifica omelia dello Pseudo-Macario (Omelia 1,2). Ed è qui, in queste forse troppo poco frequentate pagine, che la nostra testimonianza cristiana può ritrovare le ragioni di un rinnovato umanesimo che sappia ricordare al cuore di ciascuno di noi le fondamenta protologiche ed escatologiche della dignità umana, quelle che Cristo ha attuato, mostrato, redento e compiuto. All’uomo di oggi, che spesso è tentato di ritenersi con Sartre una «passione inutile», ai giovani di oggi abitati e sedotti dal nichilismo che Nietzsche stesso definiva il «più inquietante fra tutti gli ospiti» noi, «figli della luce» (Ef 5.8), dobbiamo e possiamo riproporre mediante una fedele, concreta e paziente testimonianza di amore, di bellezza, di verità, di giustizia, di speranza e di accoglienza le stesse esortazioni che san Bernardo proponeva ai suoi interlocutori nel Sermo XII de diversis 2: «Noli infixus in limo profundi ignorare quia imago Dei es (…) Memor esto nobilitatis tuae, et pudeat te tantae deiectionis. Ne ignores pulchritudinem tuam…!».

 

Dai piedi della croce

In realtà ormai bene sappiamo come la nostra dignità e la nostra bellezza solo nel Signore Gesù abbiano il loro statuto ontologico, nella luce del Tabor che ci ha mostrato la forma divina che noi tutti siamo, ma soprattutto – paradossalmente – nell’eclissi di sole sulla nuda collina del Calvario, quando l’orribile deformazione sulla croce del corpo del Cristo e la sua immagine di sofferta e dolorosa contrazione hanno fatto sì che la bruttezza del nostro peccato tornasse ad essere la bellezza della grazia celeste: «(…) ad Deum nemo intrat recte nisi per Crucifixum», sostiene Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum. Sì, solo ai piedi della Croce riusciamo ad intravedere, nel silenzio del Padre, la misura infinita del suo amore che include in un unico, sofferto e indicibile compiacimento, e la carne straziata del Figlio obbediente «(…) fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2.8) e l’amabile pregio di ciascuno di noi. Colui che era stato denudato per salire sulla croce ci restituisce così una veste di dignità e di bellezza (cfr Ap 19.8). Dai piedi della croce è iniziato per noi un impegnativo cammino esistenziale che manifesti al mondo la vittoria dell’amore sul peccato, della vita sulla morte, della luce e della bellezza sulle tenebre e sull’immondo. Le parole di Giovanni Paolo II rivolte a suo tempo ai consacrati, credo che in realtà possano bene adattarsi alla testimonianza che ciascuno di noi è chiamato a dare in forza del battesimo e del conseguente sacerdozio universale dei fedeli tutti: «La persona che dalla potenza dello Spirito santo è condotta progressivamente alla piena configurazione a Cristo, riflette in sé un raggio della luce inaccessibile e nel suo peregrinare terreno cammina fino alla fonte inesauribile della luce. In tal modo la vita consacrata diventa una espressione particolarmente profonda della Chiesa Sposa, la quale, condotta dallo Spirito a riprodurre in sé i lineamenti dello Sposo, gli compare “tutta gloriosa senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”» (Ef 5.27) (Vita consecrata 19). E anche Isacco il Siro chiede ai solitari di essere, con la luce che sgorga per grazia dal loro cuore, vivente vangelo di speranza: «È bene che il solitario sia tutto intorno a sé, per chi lo guarda, una visione che incoraggia. Cosicché, per le sue molte bellezze, che come i raggi del sole risplendono tutto intorno a lui, anche i nemici della verità, pur senza volerlo, confessino che i cristiani hanno una speranza degna di fede» (Prima collezione 11). Una vita vissuta nel rispetto e nella ricerca di quella bellezza inscritta da Dio nella creazione e nel cuore stesso dell’uomo, pare dunque essere per Isacco il più comprensibile e immediato vangelo, fatto prima ancora che di parole, di quei gesti che bene testimoniano «una speranza degna di fede» e un amore credibile perché fecondo di bellezza.

È in questa luce tutta pasquale che possiamo tentare di correggere, se non di capovolgere, l’iniziale, drammatica diagnosi di fra’ David Turoldo, ricordate?: «La profezia è spenta / La poesia è muta (…) / Dio non c’è nel nuovo Caos (…) / La Bellezza è stata sconfitta!» No, l’amore indefettibile di cui e in cui vive la Santissima Trinità e che si è reso manifesto come luce di bellezza sul Tabor e come perdono di salvezza sulla croce del Calvario, ci ricorda che ogni creatura è raggiunta e inondata dalla passione di Dio, che la rende sempre amabile e degna di ogni attenzione. Ce lo ricorda la bellezza di pochi ma intensi versi di una poetessa ormai fiorentina, l’amica Giovanna Fozzer: «In quanto esiste, la creatura è amabile / E tu la ami, in quel tuo allagarsi / Del cuore, in quel dare tepore e protezione / Che vorresti per loro e – certo – per te».

 

1 P. Beauchamp, L’uno e l’altro Testamento, Paideia, Brescia 1985, p. 127.