di Fabio Dei
Sono passati cento anni dalla Prima guerra mondiale, ma essa appartiene ancora alla memoria viva di tante persone. Le fonti orali, dirette o mediate, rappresentano un’importante prospettiva di ricerca, con cui la storiografia ufficialetende sempre più, problematicamente, a confrontarsi. Esse hanno messo in evidenza come la guerra avesse mobilitatola popolazione civile nell’odio verso il nemico e nei processi di imbarbarimento della coscienza su base razzista. Le memorie che qui vengono evocate sono quelle di due contadini che hanno raccontato, oralmente o per mezzo di un diario personale, la guerra da loro vissuta: entrambi ci parlano dell’immaginario generato e prodotto dal conflitto e offrono lo spunto per un’interessante riflessione sul rapportofra memoria, storia e storiografia.
Cent’anni dalla Grande Guerra. Nelle società tradizionali – quelle che una volta si chiamavano «primitive» – cent’anni sono più o meno il limite della storia. Non c’è registrazione scritta degli eventi, e si ricorda ciò che sta nella memoria dei più anziani; il passato è fatto delle gesta di persone che sono state conosciute da qualcuno vivente. Prima di quel limite, corrispondente a quattro-cinque generazioni, si apre lo spazio indistinto del mito, i cui protagonisti sono gli antenati fondatori. L’aspetto affascinante e per noi paradossaledi questa concezione del tempo è che la distanza tra l’origine del mondo e il presente è sempre la stessa – non aumentacioè con il passare degli anni. Illoro tempo, diversamenteda quello «moderno», non ha un’essenza aritmetica o geometrica. È un tempo discontinuo e qualitativo. Il nostro tempo è invece vettoriale, continuo e progressivo. Infattilo insegniamo ai bambini fin dalle elementari tramite tecniche spazializzanti, come la linea del tempo. Questo è il presente, qui sei nato tu (un quadratino indietro nella linea tracciata sulla lavagna), qui sono nati i tuoi genitori (quattro quadratini indietro), qui c’è la Grande Guerra (dieci quadratini); per trovare la scopertadell’America bisogna uscire dalla lavagna, per trovare il Paleolitico bisogna uscire dall’aulao dalla scuola. Eppure, per quanto fin da bambinipossiamo capire questo astratto principio, anche per noi il tempo non funzionaesattamente così. Gli eventi che rimandano a una memoriaviva – non solo esperienza vissuta ma anche esperienza raccontata da testimoni conosciuti – hanno uno statuto diverso da quelliche si leggono semplicemente sui libri di storia. Certo, i libri possono a loro volta marcare in modo indelebile la nostra stessa esperienza. Chi potrebbe negareche Se questo è un uomo,ad esempio, o per quanto mi riguarda testi come Uomini comuni di Christopher Browning, hanno un posto dentro dinoi? Ma resta una qualità diversa nella percezionedel passato. La differenza tra le storie che abbiamo vissuto o sentito direttamente raccontare e, poniamo, le Guerre puniche o la Rivoluzione francese non è solo questione di numero di quadratini sulla lavagna.
Con i suoi cento anni, la Grande Guerra esce certamente dalla sfera della memoria. I suoi protagonisti non ci sono più. Eppure questo grande e drammaticospartiacque della contemporaneitànon è ancora transitatonella fredda dimensione della storia-mito. Ancora in tanti l’hanno – l’abbiamo – sentita raccontare;e per parlarne oggi io sento il bisognodi ripartire da quei racconti. Ho conosciuto due nonni che hanno fatto la Grande Guerra, e tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 ho fatto in tempo a sentire le loro storie. Uno era il nonno paterno, Mariano:vita dura da operaio, artigianointrecciatore di cesti finché le forze lo hanno sostenuto. Ma la guerra dev’essere stata ancora più dura: con noi bambini non ne parlava volentieri,non ne aveva fatto una mitologia personale. L’altro «nonno» era in realtà un prozio – uno «zio pinzo», come si diceva in Toscana, cioè il fratello non sposato di mio nonno materno (anche quest’ultimo combattente, ferito al fronte e morto negli anni 30, quando mia madre era appena nata). Questo prozio abitava con me e mi ha raccontato le sue storie di guerra un’infinità di volte. Si chiamava Giuseppe Fiaschi, ma tutti lo conoscevano col soprannome di Gaburre. Era un gran novellatore. La sera prima di cenami prendeva in colloaccanto alla cucina economica,al caldo, e mi raccontava repertori vasti di fiabe popolari che si mischiavano quasi senza soluzionedi continuità con i suoi racconti di guerra, diventati un repertorio standard. Me li ricordo(o almeno credo di ricordarli, con la memoria non si sa mai) nei minimi dettagli,con le stesse parole e le stesse inflessioni di voce che lui ci metteva.
Intendiamoci, non erano néracconti eroici né denunce antibelliche – i due generi principali sui cui i racconti di guerra si sono sviluppati. Né epica né elegia, per citare le categorie che Hayden White usa per identificare i modelli metastorici. Commedia, piuttosto. Perché zio Gaburre rappresentava se stessocome una specie di trickster, costretto a sottostare alle incomprensibili regole dettate dall’alto(non si presenta alla chiamata alle armi e vengono a prenderloi carabinieri, in una scena che ricorda Pinocchio e i gendarmi),ma escogita tattiche furbesche di sopravvivenza, creando situazioni talvolta esilaranti. Non si contrappone «politicamente» agli ufficiali, che appartengono per lui a un mondo altro e strano, né li idoleggia: cerca di giocarlifingendo di stare sul loro stesso terreno. Cerca in tutti i modi di imboscarsi, dà un nome falso in un’adunata,che poi viene cercato invano («Giuseppe Galafiore,Giuseppe Galafiore, e io zitto»),diventa allevatore di conigli per il colonnello (viene scelto per primo perché alla domanda «Che ci vuole per far l’erba ai coniglioli?» dà immediatamente la risposta più banale: «Una farce»); finge di non poter sollevare pesi per nonandare a portare il reticolato in trincea («Un lo posso, un lo posso»);si rifugia in un deposito di liquori mentre infuria la battaglia, e scambia il suo fucile con quello spezzato di un soldato morto per far credere di esserstato in prima linea. E quando torna a casa, siccomenon gli fanno portare con sé gli indumenti militari, li indossa tutti insieme («(…) tre camiciole, quattro paia di mutande,tornai pareo pregno»).
Come ho detto, mi ricordo le singoleparole. A mia madre non piacevano per nulla questi racconti, e solo dopo ho capito il perché. Il suo babbo era stato gravemente ferito per non essersi imboscato, e le strategie furbesche di uscirneda solo e fregandogli altri non erano certo i migliori valoricivici da insegnare a un bambino. Negli stessi anni Don Milani scriveva che
«Sortirne da soli è l’egoismo». Mi sono anche chiesto, dopo, quanto l’«io» di quei racconti fosse autobiografico e quanto fosse narrativo o letterario. Se cioè quei racconti non fosserol’adattamento personalizzato di un repertorio circolante nella tradizione orale. Forse erano un mix di esperienza vissutae di repertorio. E ciò che esprimevano non era tanto l’egoistica capacità di cavarsela a spese di altri, quanto il tema (a sua volta di origine letteraria) del contadinoarguto, che sa districarsi in tutte le situazioni, capisce le cose al volo e inganna quelli che vorrebbero ingannarlo. Come i personaggi di tante fiabe, anch’essi contadiniinsidiati da personaggi socialmente superiori(i padroni, i frati, i cittadini). Sempre e ineluttabilmente poveri e subalterni: incapaci di contrapporsi strategicamente ai ceti dominanti,ma sempre pronti a inventarsi tattiche di uscita, stratagemmi, forme di perruque (per usare il noto linguaggio di Michel De Certeau).
Ho sempre ripensato ai racconti dello zio Gaburre quando mi sono trovato in seguito a leggere memorie popolari della Grande Guerra, sia i diari che le trascrizioni di testimonianze orali. Per la verità ho ritrovato raramente quei toni da commedia o da storiella arguta (che magari neppure mio zio avrebbe usato se avesse dovuto rendere una memoria «ufficiale»). Ma ho ritrovato spesso il Self del contadino arguto,il personaggio subalterno che cerca di resistere in un mondo guidato da regoleegemoniche difficilida comprendere nelle loro ragioni ultime. Forse, quei racconti dell’infanzia e queste più recenti (e storiograficamentemediate) letture possono illuminarsi a vicenda.
Un esempio: il diario di guerra di Giuseppe Capacci, mezzadro del Valdarno aretino, che ancora in trincea riempì alcuni quaderni di una scrittura elegantee semicolta che copriva l’intero percorso bellico – dalla partenza all’addestramento, alla prima linea,alle licenze, al ferimento, all’ospedale, al ritorno a casa. I quaderni furono, un giorno – all’inizio degli anni 80 –, portatia scuola dal nipote di Capacci, per mostrarli all’insegnante: quest’ultimo era Dante Priore, studioso di tradizioni locali e di cultura popolare, che si rese conto del loro straordinario valore e li pubblicò 1. Non ho qui lo spazio per discutere la fascinosa narrazione di Capacci. Ma è per me molto interessante riprendere un piccolo e quasiimplicito dibattitoaperto fin dalla sua pubblicazione. Il curatore Dante Priore, secondo una quasi ovvia tendenzaculturale degli anni 70, aveva letto la prospettiva soggettiva e popolare di Capacci come oppositiva rispetto alla costruzione egemonicadel significato della guerra. Aveva colto ad esempio inalcune sue espressioni una critica alla prospettiva degli ufficiali e dei «signori»e persino una posizione consapevolmente antibellicista – contro la guerra come espressione delle classi dominantiche mandano al macello quelle subalterne. Antonio Gibelli, uno tra i maggiori storici italiani della Grande Guerra, era stato al contrario colpito dalla relativa facilitàcon cui l’ideologia bellica era penetrata nella coscienzadel mezzadro-soldato-scrittore: il nazionalismo e l’odio per i nemici, l’ammirazione e un rapporto tutto sommato paternalistico nei confronti degli ufficiali, il cameratismo, il fascino per la tecnologia degliarmamenti e così via. Il diario, proprio nei suoi aspettipiù personali, dimostrerebbe allora la capacità della cultura egemonenon solo di imporre i propri modelli, ma di farli penetrare a fondo all’internodelle soggettività subalterne. Questo, per Gibelli, è proprio il più grande problema storiografico posto dalla Grande Guerra: il suo incredibile successo nel conquistare le coscienze, nel costruiresoggetti in grado di andare al macello senza alcuna realeopposizione. Capacci è, dunque, portatore di una cultura popolare potenzialmente oppositiva, oppure esprime un involontariorepertorio delle ideologiedominanti? Forse un’alter nativa secca di questo tipo non ci porta moltolontano – come nel caso del mio prozio non porta lontanol’alternativa tra valoricivici ed egoismo furbesco.In entrambi i casi si tratta di voci che non coincidono certo con le narrazioni ufficiali: ma solo l’ideologia degli anni 70 poteva proiettare su questevoci un’aspettativa di esplicita contestazione, di consapevolezza antiegemonica. Diciamo che una cattiva, o almeno semplicistica, lettura di Gramsciportava a una sorta di esercizio di ventriloquismo – facendoparlare i contadini con le voci degli intellettuali antisistema. Ma i contadininon erano questo, sia quando raccontavano che quando scrivevano. Proprio la subalternità rendeva la loro coscienza – come Gramsci si esprime più volte – un confuso repertorio o un «agglomerato indigesto» di tratti «caduti» dalla cultura dominante.Lo scarto egemonico-subalterno si manifesta in modo meno diretto, tattico più che strategico (dal momento che la strategia è strettamente nelle mani di quei ceti dominanti che non solo decidonola guerra ma ne strutturano anche ogni possibile narrazione).
Per GiuseppeCapacci, lo scarto tattico rispetto ai racconti dominanti sta principalmente nello sguardo che getta sul mondo. Come ha notatol’antropologo Pietro Clemente, in un commento alla prima edizione del Diario, Capacciresta un mezzadro anche dentro la divisa, e nelle sue parole emergono costantemente gli elementi centrali del mondo contadino: i paesaggi agricoli,il rapporto con il cibo e le risorse alimentari, le relazioni primarie di parentela. Tutto il resto gira attorno a queste fedeltàfondamentali, a questi cardini diuna visione del mondo di lunga durata che neppurela tragedia e lo shock della guerra riesconoa scalfire. Si consideri questo passo descrittivo, dove la natura, considerata nella prospettiva contadina, si intreccia e si scontra con la violenza dei combattimenti: «Guardaidove si doveva dare l’assalto (…) vi era pure qualche bassa vite con l’uva nera, da diverso tempo matura, ma nessunoandava a prenderla: qualche pianta qua e là, sparse. Le guardai: erano mezze rose dalle pallottoline della metraglia, all’altezza di un metro: le metragliatrici piazzatebattono sempre al medesimo punto, così le pianteerano segate». Per l’altro Giuseppe, lo zio Gaburre, il mondo contadino compare (far l’erba ai conigli, usare la vanga etc.) ma non pare così cruciale(del resto, lui non era mezzadro ma lavorante stagionale). Lo «scarto tattico»sta soprattutto nella scelta del modulo metanarrativo. Come detto, non è l’epica,né il dramma, né la condanna o la protesta. Non è Remarque né Monelli, né Un anno sull’altipiano né Il buon soldato Sc’vèik. Sono racconti da trickster, plasmati verosimilmente sui moduli fiabistici del popolano furbo, che sopravvive in un mondo ostile e incomprensibile.
In ogni caso, sono queste voci – ancora estremamente vive – che ci fanno sentire una continuità di memoria con gli eventi della Grande Guerra e ci impediscono di consegnarla definitivamente al monopolio degli storicidi professione. Sono due dimensioni parallele, ugualmente irrinunciabili. La storiografia ci ha portato, specie negli ultimi vent’anni, a ripensare con forza la Primaguerra mondiale. Al passaggio del secolo, quando ci siamo voltati indietro a guardare il ventesimo secolo, ci era forse sfuggito il suo ruolo demarcante. L’orizzonte era stato occupato dalla Secondaguerra, con il massiccio coinvolgimento dei civili, la distruzione delle città, i campi di concentramento,la Shoah come punto zero della contemporaneità.
Certo: ma ci siamo poi accorti come tutto questo fosse già iniziato con il 1914. Gli studi recenti hanno insistito sul fatto che già quellaera una «guerra totale», combattuta sì al fronte e nelle trincee ma con il coinvolgimento attivo dell’intero corpo sociale. Una guerra che aveva mobilitato la popolazione civile nell’odio verso il nemico e nei processi di barbarizzazione su base razzista; nel corsodella quale sono stati sperimentati i campi di concentramento, le armi chimiche e di distruzione di massa. Un conflitto, ancora, che ha affermatoai suoi massimilivelli il passaggio dei soldati dallo status di guerrieria quello di intercambiabili ingranaggi di una tecnologia nella quale la vita umana perdeva ogni valore.
Alcuni storici,come Enzo Traverso,hanno visto una fondamentale continuità fra le due guerre mondiali,giungendo a definire il periodo 1914-1945 nei termini di una grande guerra civile europea. Gli anni intermedi(1918-1939) sono stati di «pace» in senso molto relativo, tra violenze politiche, repressioni totalitarie, massacri coloniali ed etnici, deportazioni in massa. Ad esempio, il numero di morti nei territori dell’UnioneSovietica nel periodo post-rivoluzionario, prima a causa della guerra civile, delle carestiee delle malattieseguite ai disastridella guerra, poi delle politiche staliniane, è impressionante e forse superiorea quello delle uccisioni nei periodi formalmente bellici.
storico – ponendofine a un’epocae ini-ziandone un’altra completamente diversa. Questo lo sguardo, da lontano, da tenere ben presente in questo centenario. Ma resta cruciale anche lo sguardo da vicino, che passa attraverso una memoria ancora ben desta, che non ha del tutto perduto la continuità col nostro presente. È la prospettiva che passa attraverso le persone che ricordiamo, direttamente o attraverso le voci registrate, trascritte e in qualche modo rivissute. Si parla talvolta di una ipertrofia della memoria,sviluppata negli ultimi decenni grazie anche alle possibilità offerte dalle tecniche di registrazione, conservazionee riproduzione diffusadei documentisoggettivi – e oggi di quell’infinito archivio che è la rete. Gli storici lo considerano un fenomeno ambivalente, generatore di una sovrabbondanza di fonti che non è più possibile gestire (e che per di più pretendono di parlare da sole, senza il controllo della critica). Il problema però è che non si tratta solo di «fonti». Sono emergenze del passato che si proiettano in modo autonomo nel presente, producendo un tipo di conoscenza autonoma – non superiorené inferiore, ma non del tutto riducibile a quella storiografica. Esattamentenel senso in cui i racconti dei due Giuseppe,sui quali mi sono brevemente soffermato, non possono esser sciolti in un unico grande racconto. La Grande Guerra ci pone oggi di fronte a questo fenomeno in modi, credo, mai raggiuntida altri precedenti eventi. Anche in questo è uno spartiacque demarcante: per chiudere con una densa espressione di Hayden White 2, è il primo esempio di «evento modernista», che sfugge a forme universali di rappresentazione.
È recente una riedizione corredatadi numerosi commenti storici e antropologici: Aska Edizioni, Arezzo,
2 H. White, Forme di storia, Carocci,Roma 2006.