di Severino Saccardi
Un’immagine poetica di Italo Calvino può far da riferimento anche agli ineludibili compiti che si pongono nell’ambivalenza della loro condizione ai giovani degli anni Duemila. Che dovranno (al di là delle «eterne» considerazioni sulla particolarissima dimensione esistenziale della giovane età e facendo tesoro della complessa eredità delle generazioni precedenti) porsi a confronto con una visione del «bene comune» all’altezza dei temi della «polis globale» del nostro tempo
La lezione di Margherita
Avere vent’anni, oggi. Non è, se posso metterla in battuta, una condizione che riguardi chi scrive. Che quell’età l’ha, ahimè, passata da un pezzo. Anche se l’«essere giovani» non è questione che ha a che vedere (almeno dal punto di vista mentale e culturale; dal punto di vista fisico, gli anni contano, eccome) solo con l’anagrafe. È un momento irripetibile e privilegiato, quello della fioritura e della primavera della vita. Ma non basta essere giovani. Il problema (lo dico con il titolo di una pubblicazione scolastica che ebbi occasione, a metà anni novanta, di mettere a punto con i miei studenti di allora) è Giovanicome 1. Detto in termini semplici, è possibile avere, anche in giovane età, una mentalità «vecchia» e poco aperta alle cose della vita o mantenere, invece, anche in un’età avanzata, la volontà (si pensi ai casi di personalità, pur diverse fra loro, come quelle di Norberto Bobbio e Margherita Hack 2) di tenere, fino
all’ultimo, aperte le finestre, e la mente, sul mondo. Va da sé che avere vent’anni è sinonimo di ardimento e di aspirazione al nuovo. Nel cercare suggestioni per il mio testo introduttivo, mi sono venuti alla mente i versi (bellissimi, nella rappresentazione della giovane età come condizione della disponibilità istintiva a gettare il cuore oltre l’ostacolo per un anelito di libertà) di Oltre il ponte: «Avevamo vent’anni e oltre il ponte / Oltre il ponte che è in mano nemica / Vedevam l’altra riva, la vita, / Tutto il bene del mondo oltre il ponte. / Tutto il male avevamo di fronte. / Tutto il bene avevamo nel cuore. / A vent’anni la vita è oltre il ponte, / Oltre il fuoco comincia l’amore» 3. C’è «tutto il bene del mondo» oltre quel ponte. È a quello che bisogna puntare ed è lì che, mettendo a rischio la vita stessa, bisogna giungere. Con l’ardore di un’età che ha «le guance di pesca». È «giovane» (nelle ricostruzioni storiche e nella rappresentazione ideale della scelta di libertà della nuova generazione di quel tempo drammatico) l’immagine della Resistenza. Giovani sono, d’altra parte, anche nel secolo precedente, alcuni dei personaggi-simbolo del nostro Risorgimento 4 e delle lotte per la libertà dei popoli d’Europa. Che si battono e cadono nel fiore dell’età. Come Luciano Manara, che muore a 25 anni nella difesa della seconda Repubblica romana o il celebre poeta-combattente ungherese Sandor Petöfi che cade, in battaglia, a 23 anni, nel 1849.
Ha i tratti sognanti, alteri e sfrontati della giovinezza anche la bella «Marianna» sessantottina che, più di un secolo dopo, portata a spalla dall’onda umana dei manifestanti del «Maggio francese, alza al cielo la bandiera dell’anarchia. È nel fuoco dei vent’anni che si è portati anche a sentire la forza, che non ammette repliche, dei richiami dello spirito. Per rimanere a grandi riferimenti, è negli anni di una gioventù che coincide con la stessa durata della sua breve vita (che si chiude a 34 anni) che Simone Weil esprime, in un pensiero di singolare maturità ed originalità e in radicali scelte esistenziali, la sua bruciante vocazione sociale e la capacità luminosa di guardare il mondo con gli occhi della mistica. Ed è proprio a vent’anni che Lorenzo Milani sente nascere, irrevocabile, la spinta radicale alla scelta di vita ed alla conversione che lo portano ad uscire dal bozzolo dorato degli «anni del privilegio» per aderire, come cristiano e come prete, ad una visione (e ad una pratica) del cristianesimo, fatte di fedeltà alla chiesa e di esemplare, e ribelle, vicinanza agli «ultimi». È, quella, l’età delle scelte appassionate, dell’odio per le mezze misure, per il grigiore e per le sfumature condite di ponderatezza e buonsenso. In ambito politico e sociale, e non solo. Anche se c’è, in questo senso, una robusta controdeduzione da fare. È bene stare in guardia dalla retorica tendente ad esaltare, a prescindere dai valori di riferimento, il fuoco degli anni della gioventù. È anche in nome di enfatici richiami alla spinta rigeneratrice della gioventù che, su iniziativa dei contrapposti nazionalismi di cent’anni fa (nel 1914, quando ha inizio, in Europa, la «grande guerra» che apre violentemente la strada al «secolo breve»), i ragazzi d’Europa «(…) venivano mobilitati per una guerra di milioni di morti, mutilati, feriti, impazziti: una generazione devastata» 5. Come dimenticare, del resto, il rimando ai luminosi orizzonti delle generazioni emergenti proposta dai regimi totalitari e, nella nostra storia nazionale, la mescolanza, tipica del ventennio fascista, fra il sinistro richiamo alla «bella morte» (conseguita sul campo di battaglia contro il nemico di turno) e l’esaltazione della Giovinezza (titolo di un celebre inno) come «primavera di bellezza»? Una seconda controdeduzione rispetto ad una rappresentazione troppo lineare o ingannevolmente radiosa della condizione esistenziale dell’«esser giovani» viene da Paul Nizan. E dalla sua celebre e controversa considerazione: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita» 6. La giovane età non più, dunque, o non soltanto, come sinonimo di entusiasmo, slancio ed apertura al futuro ma, piuttosto, come un concentrato di incertezza di prospettive, difficoltà di corrispondere alle aspettative del «mondo adulto» ed inadeguatezza rispetto ai propri sogni e progetti.
Quando i «giovani» non c’erano
Va detto che il richiamo a Paul Nizan ai giovani che hanno scritto nella nostra sezione monotematica non sembra esser piaciuto granché. A torto o a ragione? Difficile dirlo. Ne convengono, ci sembra, anche i molti amici che, a partire da un’esperienza «adulta», hanno fornito il loro apporto al nostro lavoro. Forse, da sempre, quella della giovinezza è una dimensione bifronte. Che cosa c’è di meglio dell’essere nella primavera della vita? Ma, da un altro punto di vista (diamo a Nizan quel che è di Nizan) avere vent’anni, forse, non è mai stato facile. Sono considerazioni che, a volte, collochiamo in una dimensione atemporale anche se (ricorda Laura Coser) andrebbero riportate in un adeguato ambito di storicità rispetto alla consistenza stessa della «questione giovanile». Che non esisteva (se non per ristretti ceti privilegiati) nel senso in cui noi oggi la consideriamo nei tempi non remotissimi in cui diffusi erano, fin dalle più tenera età, il lavoro minorile e la ricerca problematica del procacciamento del pane quotidiano. Ancora oggi, come spesso fingiamo di non sapere, in non poche regioni del mondo asimmetrico in cui ci è dato vivere, il lavoro dei bambini, risorsa indispensabile per la sopravvivenza, è un fenomeno di enorme estensione. Ed ancora oggi (come da noi un tempo) si guarda con ostilità ad una legislazione che proibisca, al di sotto di una certa soglia di età, l’uso di lavoratori-bambini. In un tema che ha tante sfaccettature, molte sono le considerazioni che potrebbero essere precisate e relativizzate e infiniti potrebbero essere i rimandi. Ma ad una domanda, infine, gli autori del nostro volume riportano con precisione. Al di là delle «eterne» considerazioni sulla particolarissima condizione esistenziale della giovane età, i ragazzi e le ragazze del nostro tempo sono co sì diversi da quelli delle generazioni che li hanno preceduti? D’istinto, verrebbe da rispondere come fa (con attenzione e sentimenti da educatrice ed insegnante) Antonella Landi. Molto diverso è il contesto complessivo cui i giovani (come quelli che «transitano», se il verbo non è inappropriato, in una scuola, ad esempio) fanno oggi riferimento. Una realtà che è stata sconquassata da più di un terremoto. Quello tecnologico e comunicativo (di cui Daniele Pasquini ricorda opportunamente anche le valenze positive) non è che il più evidente. Eppure, Antonella ha ragione (o, almeno, come vecchio insegnante, con lei concordo), anche i giovani delle generazioni più recenti so no, almeno per un elemento di fondo, identici a quelli che li hanno preceduti.
Per la semplice constatazione, cioè, che la crosta (apparente o reale) della demotivazione e dell’apatia si incrina vistosamente in relazione a quello che, nel rapporto educativo si è loro in grado di dare. Certo (dicono Cambi e Bigalli) bisogna cambiare impostazione, uscendo da una dimensione prescrittiva e dall’ancoraggio a schemi consolidati. «Io sono un borghese di sinistra. Da nessuna parte è scritto che anche tu debba diventare un borghese di sinistra»7, è la sintetica considerazione con cui (in maniera efficacissima) Michele Serra (in un libro dal titolo «provocatorio»: Gli sdraiati), realizza la necessaria apertura all’imprevisto rispetto alle proprie aspettative educative. Se si riesce, comunque a porsi in maniera aperta e sincera, nel rapporto, certo oggi complicatissimo, fra generazioni 8, quel che si è dato lo si riceve indietro, con gli interessi. E poi, bisogna diffidare delle generalizzazioni. Non sono pochi, giova ripeterlo, i giovani che si dedicano al volontariato, alla cooperazione o ad esperienze di carattere umanitario. O che, con meritevole «ostinazione», perseguono la valorizzazione delle loro competenze. E i ragazzi dallo sguardo sempre chino sullo smartphone sono anche quelli (Sara Mugnaini) che sono capaci, con la disponibilità tipica dell’età, di riscoprire la bellezza delle relazioni umane (magari, in treno, con i compagni di scompartimento) o il piacere tradizionalissimo (Paola del Pasqua) di gustare un libro. È vero che non sono queste le categorie di giovani che, spesso, fanno notizia. Né sono da considerare con unilaterale supponenza le analisi critiche di chi fa notare che «(…) l’ignoranza è diventata un vanto» e che si è «(,..) disposti a pagare molto la teconologia, ma la cultura la si pretende gratis» tanto è vero che l’«(…) informazione, la musica, il cinema si scaricano, si piratano, si rubano» in un contesto in cui «(…) l’industria culturale (…) in evidente declino, non crea più posti di lavoro» e molti si illudono di «(…) poter fare da sé grazie al totem della rete» 9. Un giudizio severo e (volutamente) duro. Che si può condividere o da cui si può ragionevolmente dissentire. Ma che dà tuttavia, un’implicita e plastica rappresentazione della difficile comunicabilità dell’«immaginario reciproco» fra diverse fasce di età in questi anni duemila. Un tempo in cui i cambiamenti investono non solo il modo di rapportarsi alla dimensione della cultura e di fare comunicazione ma modificano, nel profondo, le relazioni interpersonali e le loro più profonde implicazioni di carattere antropologico. Penetrante è, in questo senso, la suggestione evocata, per alludere a tali modificazioni, dallo scrittore e psicoanalista Massimo Recalcati che fa riferimento alla significativa categoria del complesso di Telemaco10.
Come Telemaco ad Itaca – nell’isola a se stante che, dall’esterno, sembra essere il loro mondo – i giovani attendono inconfessabilmente la ricomparsa di un principio di riferimento dopo il «tramonto del padre». Ma quel tramonto è, da un certo punto di vista, definitivo ed il ritrovamento di nuovi elementi di riconosciuta «verticalità» nelle relazioni intergenerazionali (di cui la figura del «padre» era, un tempo, sostanza e simbolo) è assai più problematico di quanto non lo sia stato, nella suggestiva narrazione omerica, l’inatteso ritorno di Ulisse. Ciò nonostante, è incomprimibile l’istinto di scrutare, con riposti sentimenti di speranza, l’orizzonte. Un impulso che talora fa capolino o sembra paradossalmente essere rintracciabile fin nei comportamenti più provocatori, sconcertanti ed estremi. Quelli che più fanno notizia. In cui rientrano la deteriore «cultura dello sballo», la pericolosa familiarità di non pochi minorenni con le bevande alcoliche, i casi eclatanti di precoce mercificazione del corpo ed il disarmante analfabetismo sentimentale che porta molti adolescenti a vivere il sesso solo come collaudo di sè 11. C’è, certamente, molta (e spesso disconosciuta e rimossa) sofferenza, in non pochi settori della popolazione giovanile ed in tante vicende e storie che spesso non si ha la forza, o la capacità, di raccontare e che pochi trovano la pazienza di ascoltare. Non mancano i casi di autoisolamento, di incomprensione, di emarginazione esistenziale e sono in aumento patologie (depressione, disturbi alimentari o difficoltà di accettare la propria «immagine ponderale», come ricorda Baggiani) un tempo inconsuete. È un disagio, quello giovanile, in cui è però, evidentemente, implicita una domanda. Una domanda di senso e di riconoscimento, legata alla sete di relazioni autenticamente umane e al dissimulato bisogno di una connessione inedita fra autorità (da rispettare) e libertà (da inseguire). C’è chi dice (ed è una discussione che richiederebbe uno spazio a sé) che quella attuale sia la prima vera «generazione atea» della storia. Una generazione, cioè, che dal superamento quasi istintivo del riferimento alla dimensione della trascendenza, farebbe derivare conseguenze e comportamenti inediti dal punto di vista etico, relazionale ed esistenziale. Difficile dire quanta verità sia contenuta in questa tesi. Il problema è comunque, e caso mai, vedere quanto è oggi diffuso il «materialismo pratico» (ben diverso dal materialismo filosofico e culturale e dalla critica della religione dei grandi «maestri del sospetto») legato al nuovo feticismo ed al «dominio» delle cose. Quel che è certo è che forse mai, come nel profondo sentire e sotto la coltre degli atteggiamenti «provocatori» di questa gioventù apparentemente e «naturalmente» irreligiosa, si coglie l’esigenza di risposte nuove alle grandi domande sul senso dell’essere al mondo. Saprà interloquire con tali esigenze, sulla linea di «frontiera» del rapporto chiesa-mondo, il nuovo papa che ha assunto il nome e parla il linguaggio di Francesco? È un linguaggio, il suo, che tende a porsi, di per sé, e al di là dello specifico riferimento alla dimensione della fede, in consonanza con la più generale domanda di rinascita spirituale ed umanistica del nostro tempo e, in essa, con quella del variegato ed inquieto universo giovanile, poco incline ai dogmi, ma non chiuso ad una dimensione dell’interiorità capace di porsi al di là delle strettoie confessionali, delle rigide appartenenze e degli schemi identitari. Va da sé che la «questione giovanile» degli anni Duemila rimanda, come radice sottostante al travaglio che sembra investire la base stessa della pianta-uomo, ad un groviglio di pesanti connotazioni di carattere materiale ed economico-sociale. È il tema sotteso a gran parte delle considerazioni della nostra sezione monotematica. Per ripetere un concetto, espresso più volte da un lucido ultranovantenne come Edgar Morin, viene da chiedersi: «Chi ha rubato ai giovani il futuro?» 12.
Una domanda ineludibile e pressante in tempi di crescente precarizzazione e frammentazione dei rapporti e della concezione stessa del lavoro, di disoccupazione giovanile a livelli record, di rapporti altamente problematici (nel nostro Paese, ma non solo) fra sistema scolastico/formativo e mercato del lavoro, di persistenza del legame dei giovani (ben più che ventenni) con la famiglia d’origine e di «fuga dei cervelli» all’estero. Sono nodi che possono essere avviati a soluzione, forse, solo con una nuova e «globale» concezione ed all’interno di una nuova dimensione della politica 13 capace di interagire con l’interdipendenza di elementi che avvolge, in un intricato ed unico reticolo di relazioni, le diversificate realtà del mondo nell’«età planetaria». Che è il tempo della globalizzazione dell’economia, dei movimenti di popolazione, dell’asimmetria Nord-Sud in materia di demografia e di distribuzione delle risorse. È vero che, da questo punto di vista, per usare un indulgente eufemismo, siamo molto indietro. Non solo in termini generali, ma specificamente (in maniera assai vistosa) nel nostro Paese. Dove la politica è spesso asfittica, provinciale ed autoreferenziale e riguardo al problema decisivo del posto delle giovani generazioni nella società (v. Allegranti) si sono persi decenni, in una dimensione fatta di sostanziali non scelte, di preservazione dell’esistente e di propensione a guadare altrove. Ne deriva che, per i giovani, il rapporto con la politica 14 è spesso compromesso dall’istintivo riferimento ad un re pertorio consolidato di stereotipi negativi. Ma il problema è, ineludibilmente, sul tappeto. E va ricordato che i giovani del nostro tempo che vivono, certamente, un’esistenza precaria e dominata dall’incertezza, sperimentano talora anche opportunità che le generazioni precedenti (se non in ristrette fasce sociali privilegiate) non conoscevano: viaggiano, conoscono meglio le lingue, sono «naturalmente europei», usano internet e la rete non solo come ambito di autoisolamento dal mondo ma come un formidabile strumento comunicativo. Vivono anch’essi, com’è nel destino della nostra epoca, sul crinale. In quale direzione andrà ad evolvere la con dizione di ambivalenza dei ventenni del «tempo della complessità»? La via del ripiegamento è una tentazione a portata di mano. Ma è invece possibile, ed è sommamente auspicabile, che essi sviluppino la capacità, superando la tendenza alla ghettizzazione ed all’autocommiserazione, di costruire nuove forme di autoconsapevolezza e di protagonismo culturale e (com’è d’obbligo) politico per prendere in carico il tema del «bene comune» nella «polis globale» del terzo millennio. Un sogno? Forse la semplice constatazione che alla loro fantasia, alla loro capacità di agire ed alla loro responsabilità è comunque consegnato il futuro.
1 Giovanicome (Inchiesta fra alunne e alunni dell’Istituto Magistrale «G. Capponi» di Firenze sulla «questione giovanile», (a cura della classe I A, con il coordinamento degli insegnanti Stefano Pelli, Severino Saccardi. Giovanni Commare e Amelia Muritano), giornalino scolastico, stampato in proprio nell’anno scolastico 1995-1996.
2 Della gioventù di spirito di Margherita e della sua vivacità espressiva (con la sua connotazione vernacolare che, negli anni, si accentuava nonostante la lontananza da Firenze e che faceva corpo con un modo di essere oltreché di parlare) ho avuto personal-mente una riprova, negli ultimi tempi della sua vita, quando è venuta a Firenze, alla vigilia del Convegno di «Testimonianze» del 2012 a presentare il libro (scritto insieme a don Pierluigi Di Piazza) Io credo (ed. Nuova Dimensione, Portogruaro 2012). Alla domanda di una signora, che le ha chiesto: «Dottoressa Hack, cosa proverebbe, lei che si proclama atea o agnostica, se dopo la morte incontrasse Dio?», la Hack ha risposto, con un’espressione «toscaneggiante» e un disarmante candore: «Gli direi: “O’ cche ci se’ davvero?”».
3 Oltre il ponte (testo di Italo Calvino, musicato da Sergio Liberovici, inciso, per la prima volta, nella raccolta «Cantacronache» del 1961 e riproposto anche – in Appunti Partigiani dai Modena City Ramblers e da Moni Ovadia con una base musicale di tipo «irlandese»).
4 V. in prop. Il «Mosaico Italia» a 150 anni dall’Unità, (sezione monotematica a cura di S. Saccardi),»Testimonianze» nn.473-474.
5 A. Cazzullo, Quant’è stupida la quenelle, «Sette», supplemento settimanale del «Corriere della Sera», 10 gen. 2014.
6 P. Nizan, Aden Arabie, edizioni Fahrenheit 451, Roma, 1994.
7 M. Serra, Gli sdraiati, ed. Feltrinelli, Milano 2013, p. 104. 8 V. in prop. Generazioni a confronto (sez. monotematica a cura di S. Saccardi), «Testimonianze» nn. 447-448.
9 A. Cazzullo, Basta piangere!, ed. Mondadori, Milano 2013, p. 130.
10 M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, ed. Feltrinelli, Milano 2013.
11 G. Pietropolli Charmet, Gli adolescenti e il sesso vissuto solo come collaudo di sé, «Corriere della Sera», 23 novembre 2013.
12 È certo pertinente, in merito, anche la considerazione di Aldo Cazzullo (Basta piangere!, cit.; p. 136), che, in chiusura del suo libro sul rapporto fra generazioni, così idealmente interloquisce con i giovani del nostro tempo: ‘Troppo spesso si sente dire: «Ci stanno rubando il futuro!’ (….) Ma il futuro dipende soprattutto da noi, dalla nostra capacità di studiare, di crescere, di sacrificarci, di cambiare».
13 V. in prop. La città-mondo in cerca di un Principe (intervista a L. Villari, a cura di S. Saccardi, nella sez. monotematica su Ripensare Il Principe di Machiavelli nell’età della globalizzazione. «Testimonianze» nn. 488-489).
14 V. in prop. Giovani e politica: un binomio problematico? (sez. momotematica a cura di D. De Grazia e S. Saccardi, «Testimonianze» n.424).