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Venti anni dopo “Tangentopoli”
di Luigi Ciotti

A venti anni da «Tangentopoli» e dal monito «profetico» di Giovanni Paolo II alla coscienza degli italiani per un recupero della moralità personale e sociale, appare evidente come l’aspirazione alla giustizia sociale che aveva caratterizzato quegli anni si sia lentamente esaurita e come la corruzione, lungi dall’essere sconfitta, si sia trasformata ed «evoluta» in norme nuove e più pericolose di prima. Soltanto un risveglio delle coscienze e un’efficace educazione alla legalità possono imprimere la svolta per un reale cambiamento, che si gioca sul piano dell’etica pubblica e di quella privata.

«Mani pulite»: una lezione mancata?

Sono passati esattamente 20 anni dall’inizio di quel travagliato periodo di storia politica e giudiziaria italiana noto come «Tangentopoli». Ma già più di un anno prima – precisamente nel novembre 1990 – Giovanni Paolo II aveva lanciato un duro e in qualche modo «profetico» ammonimento alla coscienza degli italiani. «Non c’è chi non veda – aveva detto parlando ai fedeli a Napoli – l’urgenza di un grande recupero di moralità personale e sociale, di legalità. Sì: urge un recupero di legalità». Parole fatte subito proprie dalla Conferenza Episcopale Italiana, e tradotte in un importante documento dell’ottobre 1991: «Educare alla legalità». Un testo rivolto in primo luogo ai credenti, ma capace di parlare a tutti i cittadini, e che, riletto oggi, suona ancora di straordinaria attualità. Purtroppo l’impressione è che in questi anni né le puntuali riflessioni della Cei, né le indicazioni della circolare ministeriale sullo stesso tema rivolta nel 93 alle scuole pubbliche, né più in generale le aspirazioni di legalità e giustizia che si erano diffuse nel Paese come reazione all’enorme ragnatela di legami illeciti portata alla luce dalla magistratura, siano state adeguatamente interiorizzate e tradotte.

A dimostrarlo le ultime inchieste, che, proprio come allora, stanno tornando a coinvolgere esponenti di primo piano della politica nazionale e delle amministrazioni locali. Lo «spavento» di «Mani Pulite» non è bastato a scoraggiare molti imprenditori e funzionari dal ricorso alla corruzione come «normale» metodo di gestione dei propri rapporti. Al massimo, li ha resi più prudenti ed accorti. La corruzione è cambiata, si è per certi versi «evoluta». Le vecchie «mazzette», pur non essendo scomparse, non sono più le sole protagoniste del sistema. Lo scambio di denaro è diventato scambio di favori – compresi i favori sessuali – di immobili, di consulenze fittizie, posti di lavoro procurati a parenti e amici. E le somme per comprare le compiacenze dei funzionari pubblici vengono nascoste dentro le scatole cinesi di complesse compravendite, passaggi societari, giri d’affari ramificati. La corruzione ha insomma imparato a mimetizzarsi sempre meglio, adattandosi alle trasformazioni dell’economia e della finanza, approfittando dei canali offerti dalle nuove tecnologie, riuscendo ad aggirare e ingannare leggi e procedure studiate per contrastarla. Anche se, a dire il vero, a livello legislativo si sono fatti piuttosto dei passi indietro.

Dopo Tangentopoli sembrava si respirasse un’aria nuova nel Paese: la gente chiedeva pulizia, trasparenza, inflessibilità nel punire chi si arricchiva rubando soldi pubblici e abusando del proprio ruolo istituzionale. Ma quelle richieste si sono rivelate troppo deboli, transitorie, incapaci di alimentare una vera svolta nei comportamenti. L’Italia in quel momento ha perso una grande occasione di rinnovamento etico, politico e culturale, e le conseguenze le paghiamo ancora oggi. Alle promesse sono seguite scelte assai poco coerenti. Molte delle leggi anti-corruzione sono state depotenziate, e in particolare è diventato più difficile, per la magistratura, perseguire alcuni reati strettamente connessi: i reati finanziari, fiscali, societari, di falso in bilancio e abuso d’ufficio. Si sono inoltre ridotti i tempi di prescrizione per la corruzione, bloccando di fatto numerosi processi. E gli strumenti di prevenzione e controllo – in parte addirittura smantellati, come nel caso dell’Alto commissario per il contrasto della corruzione – non sempre hanno potuto beneficiare dei necessari strumenti e poteri. Ecco il perché di un progressivo calo delle condanne, così come della reputazione sempre peggiore di una parte della nostra pubblica amministrazione. Intanto il famoso disegno di legge anticorruzione, presentato con clamore oltre un anno e mezzo fa, è ancora fermo in Parlamento.

Diventare tutti «professionisti» dell’etica

Invertire la rotta è ancora possibile? Certo, a patto che tutti ci assumiamo la responsabilità di fare la nostra parte. Perché le norme sono certo importanti, e fondamentale è offrire a polizia e magistrati strumenti di prevenzione e d’indagine capaci di contrastare efficacemente l’illegalità. Ma anche la legislazione più perfetta è destinata a fallire se manca nei cittadini la consapevolezza che le regole non sono altro che il mezzo per realizzare concretamente la giustizia sociale, e tutelare la libertà, la dignità e i diritti di ognuno.

Il primo impegno è insomma a livello educativo. Un impegno che come Libera abbiamo voluto assumerci attraverso la campagna «Corrotti», che in questi mesi ci ha permesso di raccogliere oltre un milione di firme in tutta Italia. La nostra ha voluto essere prima di tutto una grande campagna informativa e culturale, un tentativo di risvegliare le coscienze intorno a questo fenomeno capillarmente diffuso. L’idea forte da trasmettere è che la corruzione è qualcosa che ci impoverisce tutti. Perché vuol dire perdita di risorse pubbliche, una perdita che la Corte dei conti stima in almeno 50/60 miliardi di euro l’anno. Vuol dire perdita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Vuol dire perdita complessiva di legalità, «sdoganamento» dei comportamenti illeciti nel nome del «così fan tutti». Vuol dire perdita di trasparenza, perché il potere corrotto diventa opaco, ha interesse a nascondere e mistificare. Vuol dire perdita di uguaglianza, perché l’arbitrio e il privilegio si sostituiscono al diritto dei cittadini di beneficiare dell’azione dello Stato. Vuol dire, in definitiva, perdita di democrazia.

Accanto all’obbiettivo di informare c’era poi quello di stimolare un’incisiva azione di contrasto. In particolare si sollecitava la ratifica e la concreta attuazione, nel nostro Paese, di tutte le convenzioni internazionali e le direttive comunitarie in materia di lotta alla corruzione, a partire dalla Convenzione di Strasburgo del 1999. Inoltre si chiedeva di rendere finalmente operative le norme, introdotte con la Finanziaria del 2007, per la confisca e l’uso sociale dei beni sottratti ai corrotti.

Quella sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie è stata una normativa d’avanguardia che oggi si sta diffondendo a livello europeo. Applicarla, con i necessari aggiustamenti, ai reati di corruzione, potrebbe servire a recuperare risorse proprio per quei servizi pubblici che dai corrotti sono stati danneggiati. E, cosa forse ancora più importante, lancerebbe un messaggio forte sul piano simbolico: nessuno può sperare di arricchirsi impunemente saccheggiando il bene comune, che è e deve tornare a essere patrimonio di tutti. Solo questa svolta nella mentalità collettiva può fermare davvero la corruzione, e realizzarla spetta a ognuno di noi.

La lotta alla corruzione e all’illegalità diffusa, come quella alle mafie, va insomma collocata nel contesto più ampio di un impegno per la tenuta della democrazia, e in questo senso è una battaglia che si gioca sul piano dell’etica pubblica come di quella privata. Alimentare la dimensione etica non è infatti prerogativa della sola classe dirigente, o del mondo delle professioni: tutti dobbiamo in qualche modo diventare dei «professionisti» dell’etica, cioè improntare ogni scelta e comportamento a un’attenzione vera per i bisogni degli altri, e mettere le nostre migliori capacità al servizio del contesto in cui viviamo. Rispettare le regole è certo un primo passo. Ma la scommessa è riscoprire e rendere finalmente patrimonio culturale condiviso parole come quelle che si leggono nel bellissimo documento della Cei citato all’inizio, il quale, da 20 anni, non smette di ricordarci che «la legalità è un’esigenza fondamentale della vita sociale per promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune».