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“Afriche” 50 anni dopo: una liberazione a meta’
di Luciano Ardesi

Una lettura critica e partecipe dell’ultimo mezzo secolo di storia del continente africano e del suo difficile cammino verso  la democrazia ed il rispetto dei diritti umani. Oltre a questi grandi temi, che rimandano al senso di “opera incompiuta” che la liberazione delle “afriche” sembra tuttora rappresentare, ci sono specifici e scottanti problemi che vengono rimossi: come quello del’autodeterminazione del popolo del Sahara occidentale.

Mezzo secolo di “indipendenze”
Una liberazione a metà: questo potrebbe essere il sintetico bilancio  di mezzo secolo di “indipendenze” che l’Africa ha appena celebrato. Il 1960 è infatti considerato l’anno simbolo dell’indipendenza poiché 17 colonie si emancipano dal vincolo coloniale, mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite riconosce il diritto all’indipendenza dei popoli coloniali .
Ma l’anno simbolo si chiude cinquant’anni dopo con una dinamica che ci obbliga a guardare con più attenzione questo periodo. Le rivolte popolari  dal Sahara Occidentale all’Egitto,  prolungatesi poi nella penisola arabica, vedono per la prima volta nella recente storia dei paesi arabo-africani il trionfo di “rivoluzioni” popolari, che portano alla caduta di regimi dittatoriali.
Nel gennaio 2011, nelle stesse settimane delle proteste, il referendum nel Sudan vede una schiacciante maggioranza del sud del paese dichiararsi per l’indipendenza. In base agli accordi di pace, il governo di Khartum si è impegnato a rispettare l’esito del voto, ma gli ostacoli ad una pacifica divisione lasciano lo scenario pieno di incertezze. Per la prima volta la partizione di un paese africano non avviene in funzione dell’eredità coloniale, come nel caso della separazione dell’Eritrea dall’Etiopia, ma sulla base di criteri politico-culturali.
Anche alla luce di questi due ordini di fatti del tutto nuovi, si può tentare una diversa lettura di quest’ultimo mezzo secolo di storia africana. La riflessione però non può che cominciare riconducendo le indipendenze africane ad un dato di fatto. Contrariamente all’opinione corrente, l’Africa non è tutta indipendente. Il Sahara Occidentale è infatti l’ultima colonia africana, poiché la definitiva uscita di scena della Spagna (1976), potenza colonizzatrice, è preceduta dall’invasione da parte del Marocco, che lo occupa ancora per circa due terzi. E’ il territorio più grande tra quelli che le Nazioni Unite riconoscono ufficialmente da decolonizzare, ed è il solo territorio africano. Ma andrebbero considerati anche i presidi di Ceuta e Melilla, che la Spagna mantiene da secoli sulla costa mediterranea del Marocco, oppure il dipartimento francese della Reunion, isola ad est del Madagascar.

Un’opera incompiuta
Dalla nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), nel 1963, il principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dalla colonizzazione è uno dei capisaldi della politica continentale. Voluto per evitare una guerra infinita nell’impossibilità di disegnare frontiere attorno a popoli che non le avevano mai conosciute, questo principio non ha evitato tuttavia numerosi conflitti. Il processo in corso nel Sudan potrebbe innescare una dinamica nuova ma del tutto imprevedibile nel continente. Il tentativo di banalizzare le frontiere, come è accaduto con la progressiva costruzione dell’Unione Europea, non è finora riuscita all’Unione Africana (UA), che si è sostituita all’OUA. Cinquant’anni dopo l’Africa dei popoli è ancora alla ricerca di una sua identità, e potrebbe essere proprio questo elemento, unito alla mai esaurita ricerca della democrazia, a caratterizzare i prossimi cinquant’anni di storia africana. Basti pensare che la globalizzazione economica, lungi dal cancellare frontiere e identità, ha causato il ripiego identitario proprio nell’UE, dove il processo della coscienza europea sembrava irreversibile. In Africa molto dipenderà dall’esito dello sviluppo della democrazia e della libertà.
E’ diventato un luogo comune considerare un’opera incompiuta, e per certi versi mai iniziata, la costruzione della democrazia africana. Cinquant’anni fa le giovani nazioni si trovano a gestire un sistema pensato e maturato durante molti secoli in Europa, senza che l’Europa portasse nelle sue colonie i presupposti della democrazia: la rivoluzione economica e sociale unita alla lunga battaglia di idee e di movimenti sociali che l’hanno accompagnata. La relativamente breve stagione di questo cantiere lascia sistemi politici caratterizzati soprattutto dal partito unico. La dialettica politica si esprime prevalentemente attraverso colpi di Stato.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta l’Africa, anche a seguito della caduta del muro di Berlino (novembre 1989), conosce una nuova stagione politica . Le proteste popolari contro dittature e regimi autoritari impongono in alcuni paesi le Conferenze nazionali . Si tratta di grandi laboratori dove sperimentare in una relativa libertà la dialettica politica e la progettazione di nuove istituzioni in vista della creazione di uno Stato di diritto, del rispetto dei diritti umani e del pluralismo politico. Le forze politiche in campo, con una società civile appena nata e dunque ancora debole, riproducono ben presto le vecchie dinamiche. Le nuove Costituzioni democratiche appena varate consentono libere elezioni. Tuttavia,  fin dalla prima verifica elettorale, i vecchi apparati riprendono l’egemonia, pur lasciando un multipartitismo di facciata. Per consolidare e perpetuare il proprio potere, non si ricorre più, o quasi, ai colpi di Stato , ma a modifiche delle Costituzioni, che prevedevano un limite temporale alle funzioni presidenziali, consentendo ai leader africani di mantenersi al potere per anni o decenni .

Clan in chiave “moderna”?

I meccanismi del potere sembrano poco cambiati. All’inizio delle indipendenze sono soprattutto i sistemi etnici a giocare un ruolo determinante. In assenza di riferimenti ideologici e/o economici è il riferimento all’etnia l’unico elemento stabile. Nei decenni successivi si assiste alla costruzione in chiave “moderna” di clan, di gruppi di potere attorno all’uomo forte, con la distribuzione di prebende e favoritismi frutto del controllo sullo Stato e su tutte le attività economiche, anche quando sono il risultato di “liberalizzazioni”. Da questo punto di vista paradossale è il ruolo esercitato dall’Occidente in vista del consolidamento delle giovani democrazie africane. Sia gli aiuti della cooperazione economica , sia gli accordi commerciali diventano uno strumento che consolida il potere delle élite in campo, vanificando  i tentativi di rinnovamento.
La corruzione alimentata da questo sistema, se, nel caso di paesi dotati di notevoli risorse naturali come il petrolio o il gas, non impedisce la mera crescita economica, ostacola e imbriglia lo sviluppo economico e sociale. Si produce così il paradosso di paesi relativamente ricchi, grazie allo sfruttamento di queste risorse, in cui la povertà, frutto di una profonda ingiustizia sociale, è diffusa nella stragrande maggioranza della popolazione.
L’Africa conosce, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con l’avvio delle politiche liberistiche che progressivamente smantellano il sistema della protezione sociale, le rivolte dovute alla povertà e alla fame. La povertà assoluta  resta per l’Africa un problema essenziale, ma è sempre di più quella relativa a produrre malessere e proteste, perché l’arricchimento delle élite, prodotto dalle politiche liberistiche, viene ormai ostentato, in tutto il continente, senza più reticenze e pudori. E’ il caso delle rivolte in Tunisia, Egitto e negli altri paesi del Nordafrica. Il denominatore comune di questa stagione è proprio il concetto di dignità, che unisce il bisogno di libertà e di rispetto dei diritti umani a quello di giustizia sociale.

Il “caso” El-Bashir
Il rispetto dei diritti umani in Africa segue l’andamento delle vicende politiche. Molti paesi africani sono in fondo alla classifica dei virtuosi in tema di ratifica degli strumenti internazionali di protezione, di libertà di stampa, di divieto della tortura. La protezione dei diritti fondamentali esige un apparato giudiziario indipendente dal potere politico, e questo non accade praticamente mai.  La giustizia internazionale, con la Corte penale e i tribunali ad hoc per il Ruanda e la Sierra Leone, si dimostra lenta e limitata a troppi pochi casi per diffondere un senso di riparazione ai crimini commessi. Il presidente sudanese El-Bashir, che il procuratore  della Corte penale internazionale vorrebbe arrestare e processare, riceve la solidarietà dei capi di Stato dell’UA.
Rimane la società civile. Cinquant’anni di decolonizzazione hanno visto crescere in modo molto lento l’associazionismo africano. Se le solidarietà tradizionali non sono venute del tutto meno, negli ambiti dei clan famigliari, la mancanza di libertà soffoca l’emergenza di moderne forme organizzate. Si è visto anzi più  frequentemente il fenomeno dei regimi che tentano di ordinare il consenso, obbligando le organizzazioni a sostenere, durante le campagne elettorali, il candidato “della nazione”.
Le rivolte in Tunisia e in Egitto mostrano paradossalmente che si può “fare a meno” della società civile, poiché la protesta è stata del tutto spontanea e non guidata da nessun tipo di organizzazione. Le precedenti esperienze di rinnovamento della politica, in particolare quelle dopo l’89, dimostrano che senza una società civile organizzata, libera e forte, le conquiste politiche non resistono a lungo. E’ una sfida che percorre del resto con alterne fortune la storia di qualunque democrazia, compresa quella europea. L’Africa avrà modo nei prossimi mesi di sperimentare una nuova fase di una decolonizzazione che non può ancora dirsi pienamente conclusa.

1) Ad esempio 50 anni di semilibertà è il titolo del Dossier che il mensile  “Nigrizia” (aprile 2010) dedica alle indipendenze africane.
2) Cfr. la Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali approvata con la Risoluzione 1514 (XV) dall’A.G. dell’Onu, il 14 dicembre 1960.
3) Per la verità la rivolta popolare in Algeria, nell’ottobre 1988, precede la caduta del muro. Repressa con i carri armati dell’esercito al potere, la rivolta per la prima volta nella storia del paese fa venir meno un regime militare e apre al multipartitismo.
4) Il Benin è il primo paese a sperimentare questa formula di rinnovamento politico nel febbraio 1990. Nel dicembre 1989 era stato il primo paese marxista-leninista africano e del sud del mondo ad abbandonare quella ideologia ufficiale.
5)  Nel solo 1999, dieci anni dopo il crollo del muro, si contano ben quattro colpi di Stato. Nello stesso anno l’OUA prende la decisione di non più ammettere ai suoi vertici i governi andati al potere con un colpo di Stato. La norma non sembra essere particolarmente efficace.
6) E’ il caso dei due dittatori appena caduti: il tunisino Ben Ali, che con la revisione costituzionale del 2002 aveva messo le basi per una presidenza a vita, e l’egiziano Mubarak, cui la Costituzione concedeva un numero illimitato di mandati. Entrambi si sono inoltre caratterizzati per il tentativo di creare presidenze dinastiche, con la previsione di lasciare ai figli la propria eredità politica, tentativo stroncato dalle rivolte popolari, ma che ha avuto esito positivo in altri paesi come il Congo e il Togo.
7)  Nel 1990, durante il vertice franco-africano di La Baule, il presidente francese Mitterrand annuncia con grande solennità l’intenzione di premiare i governi rispettosi delle libertà fondamentali con aiuti più consistenti. Trent’anni dopo, gli amici della Francia e dell’Europa rimangono gli stessi, e medesima la linea politica perseguita: rapporti privilegiati con chi fa gli interessi dell’Europa. Il caso di Gheddafi è forse oggi il più emblematico, benché gli accordi tra Libia e UE contengano, come per tutti i paesi nel campo della politica euromediterranea, il rispetto dei diritti umani.