di Stefano Beccastrini
Fernanda Pivano e Tullio Kezich. La scomparsa di due “persone brave, coscienziose, serie”, innamorate più del proprio lavoro che della propria notorietà, più dei propri autori preferiti che di se stessi, più del diffondersi complessivo della cultura nella società che del loro nome e del loro successo personale. Gente perbene, di grande levatura intellettuale e morale, capace di guardare al mondo e al futuro invece che alla sola Italia e al solo presente
“Tu morirai, non c’è dubbio, ma morirai vivendo.”Edmund Pollard in Antologia di Spoon River
Se ne sono andati insieme e se ne sono andati d’estate
D’estate muore tanta gente, come del resto durante ogni altro periodo dell’anno, e tra tutta questa gente ci sono inevitabilmente anche intellettuali, persone di cultura, donne e uomini di cui abbiamo amato le opere e talora le loro stesse persone, anche senza conoscerle direttamente. Talvolta accade, peraltro, che due di essi, tra i quali ci pare di poter stabilire affinità o comunque comparazioni significative, lascino il mondo negli stessi giorni. Ciò, a quanti in estate sono in vacanza e hanno più tempo per pensare e fantasticare che negli altri ingolfati momenti dell’anno, appare un fatto quasi simbolico, come se quei due si fossero messi d’accordo tra loro per andarsene assieme da questo mondo, lasciandolo più povero. Accadde due anni fa, a fine luglio, con Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman, di cui parlai proprio su questa rivista. E’ accaduto anche quest’anno, a metà agosto, con Fermando Pivano e Tullio Kezich e anche di loro vorrei parlare su “Testimonianze”, sempre attenta ai fatti della cultura italiana anche quando sono, come in tal caso, dolorosi.
Conoscere le opere, ma anche i creatori
Certamente le affinità, e gli spunti di comparazione, tra Fernanda Pivano e Tullio Kezich appaiono, di primo acchito, meno evidenti di quelli che legavano Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. Questi ultimi facevano lo stesso mestiere, o meglio praticavano la medesima arte, essendo entrambi registi cinematografici. All’interno di tale comune impegno professionale, tutti e due portavano inoltre un’attenzione profonda ai temi della solitudine, dello spaesamento, dell’incomprensione o almeno della difficoltà relazionale tra gli esseri umani. L’idea di accomunarli, anche mettendoli a confronto, in uno stesso articolo commemorativo veniva, dunque, spontanea. Più difficile ciò sembrerebbe nel caso di Nanda (“la Nanda” era il nomignolo con cui gli amici chiamavano la Pivano, come ha ricordato Dori Ghezzi: Cesare Pavese, che ne fu mentore letterario, se ne innamorò e la chiese inutilmente in sposa, la chiamava invece Gognin) e di Tullio, aldilà del fatto che entrambi scrivevano per professione.
A guardar meglio, tuttavia, importanti affinità emergono anche in questo caso. Intanto, erano entrambi nati in città di mare, portuali, un po’ scontrose: a Genova, come poi il suo grande amico Fabrizio De Andrè, la Nanda, a Trieste, come prima di lui la sua grande passione letteraria Italo Svevo, Tullio. Entrambi hanno contribuito a far conoscere la cultura americana in Italia. La Nanda, sulla scia del suo maestro Pavese, fu un’eccezionale traduttrice (proprio nel senso originario del trans-durre, del prendere qualcosa e portarlo di là, in una cultura, oltre che in una lingua, diversa) di testi poetici e narrativi provenienti dall’America. Uno per tutti: la Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che ella tradusse, su impulso ancora una volta di Pavese che ne aveva parlato già in un articolo del 1931, negli anni Quaranta. Fu pubblicata da Einaudi nel 1943 e da allora è stata letta e amata da milioni di italiani compreso Fabrizio De André, che ne ha ricavato alcune bellissime canzoni, e compreso il sottoscritto, che ne ha più modestamente ricavato soltanto la gioia di tornare a rileggerla ogni anno. Grazie a Fernanda Pivano, possiamo dire che ormai l’Antologia di Spoon River è un classico della letteratura italiana (“qualcuna di queste poesie – scrisse Pavese a suo tempo – sembra diventata italiana a poco a poco”). Può darsi che mi sbagli, ma ho la sensazione che, almeno proporzionalmente, Masters abbia più appassionati lettori in Italia che nella sua patria d’origine. Tullio Kezich, dell’America, ci ha fatto amare, in anni in cui non era così facile farlo, il cinema, il western prima di tutto. Persino nel periodo in cui faceva il caporedattore di “Cinema nuovo” (la più importante rivista di cinema che si pubblicasse in Italia negli anni Cinquanta: era diretta da Guido Aristarco, affetta da ideologismo lukacsiano e non capiva nulla del cinema americano oltre che di buona parte di quello europeo), egli amava e faceva amare il cinema americano e il western in particolare. Certamente, prendeva anche qualche cantonata. Per esempio, in un suo libretto su John Ford del 1958, dopo aver fatto elogi sperticati e peraltro meritati sul Ford che nel 1939 aveva girato Ombre rosse, finiva poi col dire che, da allora, “il cinema americano ha camminato…(ma)…Ford è rimasto fermo…”. E dire che, a quel tempo, Ford aveva già realizzato un capolavoro assoluto, e modernissimo, come Sentieri selvaggi, forse il suo film più bello. Comunque Kezich ebbe modo, ben presto, di correggere il tiro e giunse ad affermare, in un libro intitolato Professione spettatore del 2003: “Il cinema americano è ‘il Cinema’ in assoluto. Ha creato il più grande regista di tutti i tempi, John Ford. Ha celebrato il connubio tra arte e industria. Ha sommato talento, emotività, immaginazione, divertimento, pragmatismo, capacità di parlare al pubblico”.
Erano stati entrambi, la Nanda e Tullio, assai precoci nell’offrire al mondo i loro contributi culturali. L’una aveva poco più di venti anni quando tradusse in maniera tuttora ineguagliata il grande libro di Edgar Lee Masters (“si direbbe la fatica di un esperto conoscitore” commentò Pavese). L’altro ne aveva appena diciotto quando esordì come critico cinematografico professionista a Radio Trieste. Non per questo si montarono la testa: continuarono, invece, a studiare, lavorare, scrivere, fino alla tarda età che li ha visti morire, con l’impegno, la passione, la caparbietà di un adolescente che debba ancora conquistarsi un ruolo nella vita. Erano, insomma, persone brave, coscienziose, serie (in senso professionale e civile, seppur di carattere diverso: più burbero e scontroso il triestino, più vivace e chiacchierona la genovese, di cui Pavese, fin da quando le era stato insegnante, sottolineava la splendida capacità di “parlare a vanvera”). Innamorate più del proprio lavoro che della propria notorietà, più dei propri autori preferiti che di se stessi, più del diffondersi complessivo della cultura nella società che del loro nome e del loro successo personale. Gente perbene, di grande levatura intellettuale e morale, capace di guardare al mondo e al futuro invece che alla sola Italia e al solo presente. Per questo, nonostante abbiano ricevuto entrambi, in occasione della loro morte, gli omaggi degli italiani di destra e di sinistra, avevano ormai poco a che vedere con la società italiana attuale, col suo provincialismo, col suo arrivismo, coi suoi fasti massmediatici e la sua telestupidità.
Possedevano entrambi, inoltre, una concezione assolutamente antiaccademica (tant’è che nessuno dei due ha mai ottenuto, anzi mai chiesto, una cattedra universitaria, pur essendone entrambi, per il loro immenso sapere, assai più degni di tanti loro incattedrati colleghi) e interdisciplinare della cultura. Erano persone capaci di spaziare in molti campi del sapere, pur essendo conosciuti soprattutto per un ruolo specifico: Nanda, pur essendo considerata da tutti la traduttrice per antonomasia, era anche filosofa (dopo la laurea in letteratura americana prese anche quella in filosofia, con Abbagnano), romanziera, musicologa e musicista (si era diplomata al conservatorio di Torino nel 1940); Tullio, pur essendo considerato da tutti il critico cinematografico per antonomasia, era anche sceneggiatore, produttore, commediografo (per esempio, aveva scritto una versione teatrale de La coscienza di Zeno, romanzo dell’amatissimo Svevo). A ben guardare, dunque, le affinità che li accomunavano erano assai più numerose e profonde di quel che non sarebbe parso a prima vista.
C’è, tuttavia, un altro elemento, forse il più rilevante e significativo, che rendeva simili Fernanda Pivano e Tullio Kezich ed era la loro concezione dell’attività critica quale mai disgiunta dalla conoscenza diretta degli autori, dalla frequentazione e comprensione non soltanto delle opere ma anche e forse soprattutto dei loro creatori, insomma dall’amicizia. A poche persone credo si potesse applicare la concezione blanchotiana de “l’amitiè” quale approccio all’ermeneutica sia letteraria che cinematografica come alla Nanda e a Tullio. Per entrambi, dietro al libro o al film, c’era sempre una persona che valeva la pena di conoscere, di aiutare, di farsi amica od amico. Credo che l’una avrebbe dato chissà che cosa per poter parlare, magari durante un’apposita seduta spiritica, col fantasma di Herman Melville o di Edgar Lee Masters, i due amatissimi scrittori americani che non aveva potuto conoscere per ragioni di età, e che l’altro avrebbe fatto altrettanto per intrattenersi con i cineasti che amava e che non aveva potuto conoscere, quali Eisentstejin, Stroheim, Ford, Renè Clair. Entrambi, però, hanno cercato di conoscere personalmente, di diventarne amici, di collaborare attivamente con quegli autori, rispettivamente letterari e cinematografici, che erano loro contemporanei: Hemingway, Faulkner, la Beat Generation e così via, per la Pivano; Fellini, Antonioni, Olmi, Rossellini, Rosi, Carmelo Bene e così via, per Kezich.
Ricorda, di Nanda, Dori Ghezzi: “Quando parlava di Ginsberg e Kerouac, li chiamava ‘i miei beat’, quando ricordava Hemingway e Pavese, li definiva ‘i miei maestri»’…, quando accennava ai tanti autori che aveva conosciuto diceva: ‘i miei eroi’. Per lei non erano soltanto pezzi di storia letteraria, ma frammenti della sua esistenza…”. La maggior parte dei suoi scritti critici parte proprio da un dato autobiografico di conoscenza diretta dell’autore cui lo scritto è dedicato. Valga per tutti questo esempio: “Quando incontrai Ernest Hemingway nel 1948, una delle prime cose che mi disse fu che il problema della sua generazione di scrittori era stato quello di liberarsi dell’influenza di Sherwood Anderson. La stessa cosa mi disse William Faulkner quando lo incontrai a Parigi nel 1952. Entrambi scelsero per liberarsene la forma più crudele, irridendolo con una satira (Torrents of Spring l’uno, Mosquitoes l’altro) che lo fece soffrire tutta la vita: me lo disse l’ultima moglie di Anderson, Eleanor”. Pare un semplice aneddoto e invece esso, in poche righe, esprime una chiave di lettura della letteratura americana del Novecento.
Quanto a Kezich, basti citare questo brano autobiografico: “A me è capitato spesso di alzarmi dalla mia poltrona di spettatore per entrare nello schermo o in palcoscenico e voltarmi a buttare un’occhiata sul mondo com’è visto dall’altra parte. In tale modo mi lusingo di essere riuscito a capire meglio le ragioni di chi fa le cose anziché limitarmi a guardarle e giudicarle. Se c’è un consiglio, uno solo, che mi sento di impartire con certezza ai giovani avviati al mestiere (oggi in grande crisi, fuori moda e altamente sconsigliabile) di spettatore ragionante e scrivente è proprio questo: evitate di pensare che tra scena e platea ci sia una barriera… Spettatori e autori, siamo tutti sulla stessa barca…”. Insomma, egli non pensava che il mestiere di “spettatore ragionante e scrivente” (questa era, appunto, la sua definizione di critico cinematografico) consistesse soltanto nel guardare e giudicare. Occorreva comprendere le ragioni degli autori e l’unico modo per farlo era incontrarli, parlare con loro, diventarne amico e collaboratore. Sono nati in tal modo i suoi libri su Fellini, la produzione di opere così di Roberto Rossellini come di Francesco Rosi come di Ermanno Olmi, la sceneggiatura di film quali La leggenda del santo bevitore: tutti modi per stare sulla stessa barca, quella del cinema e della sua meravigliosa odissea.
Cari Nanda e Tullio, godetevi l’eternità
Cari Nanda e Tullio, riposate in pace. Ci avete insegnato tanto: curiosità, idee, parole, passioni, disponibilità, amicizia e ve ne saremo sempre grati. Vi saremo grati anche per il non averci invece insegnato – come ormai fanno in tanti, anzi in troppi – cinismo, interesse, carrierismo, provincialismo, nazionalismo, chiusura mentale, istigazione all’odio o anche soltanto, ma forse è ancor peggio, alla stupidità. Facendoci comprendere e amare la letteratura americana, l’una, e il cinema sia europeo che americano, l’altro, ci avete aiutato a comprendere e amare l’Europa e l’America, le patrie da cui dovremmo partire per farsi pienamente cittadini del mondo e dalle quali, invece, la povera misera Italia di questi miseri anni si sta allontanando sempre più, non si sa per andare dove, forse semplicemente per perdersi. Voi, però, non angustiatevi più per questo. Ormai è un problema nostro. Voi godetevi l’eternità. Io vi immagino da qualche parte del cosmo, nelle contrade che una volta venivano chiamate “Cielo” ma chissà mai dove sono davvero e ammesso che siano da qualche parte, mentre assieme, continuando a scoprire territori della cultura e a saldare sempre nuove amicizie, continuate a fare i “suonatori” del mondo. C’è chi il mondo lo distrugge, chi lo sfrutta, chi lo rende più brutto e chi invece, come voi, lo celebra e lo migliora con la musica: la musica d’ogni tipo, anche quella delle parole scritte o delle immagine cinematografiche. Voi suonatori del mondo state lì seduti, tra amici d’ogni tempo, a fare quello che racconta nella sua lapide Jack il cieco, lo strimpellatore di Spoon River, morto sotto le ruote di un carro impazzito:
“C’è qui un cieco dalla fronte
grande e bianca come una nuvola
e tutti noi suonatori, dal più grande al più umile,
scrittori di musica e narratori di storie,
sediamo ai suo piedi
e lo ascoltiamo cantare della caduta di Troia”
Immagino che con voi, ad ascoltare Omero, ci siano tante altre belle persone quali Robert Louis “Tusitala” Stevenson e Herman Melville e, certamente, anche Edgar Lee Masters e John “Jack” Ford, “Mister Papa” Hemingway e Federico Fellini. Con tutta questa brava gente dattorno, non vi annoiate di certo.