di Severino Saccardi
I convulsi avvenimenti iraniani, singolarmente coincidenti con il trentesimo anniversario della rivoluzione khomeinista, rivelano un inaspettato protagonismo della società civile di quel Paese e convocano, in un crescendo di drammaticità, il mondo democratico ad un’aperta assunzione di responsabilità.
Quest’anno 2009 è pieno di anniversari. Alcuni, decisamente drammatici. L’amico Marcello Flores ricorda quello di Tienamen, la “piazza della pace celeste” in cui venti anni fa fu versato il sangue dei giovani cinesi in lotta per la democrazia. Una ricorrenza che, per le autorità e per i mezzi di comunicazione cinesi (strettamente controllati dal regime), praticamente “non esiste”. L’operazione di rimozione del passato scomodo, attuata, il più possibile, anche negli spazi, teoricamente incontrollabili, della comunicazione telematica (1), si combina peraltro con l’imbarazzante atteggiamento, incredibilmente morbido e accomodante, che su tali temi hanno generalmente tenuto gli stati democratici ed i paesi occidentali. Non ha torto Marcello Flores, nel primo testo di questo “Tema” , a denunciare la realpolitik della memoria.
Esattamente trenta anni fa
Ma non sempre la rimozione o le versioni ufficiali dei fatti storici proposte dai regimi riescono ad avere la meglio sulle forze vive che, comunque, muovono la storia. C’è quasi una nemesi nel clima drammatico, movimentato e aperto all’imprevedibile che sta segnando un anno cruciale per la Repubblica islamica iraniana. Che esattamente trenta anni fa si instaurava in seguito alla cacciata a furor di popolo del controverso Scià Reza Palevi, che si voleva occidentaleggiante e che aveva promosso la modernizzazione del Paese con la “rivoluzione bianca”, ma che intanto governava con l’ausilio della micidiale polizia politica Savak, cui lasciava praticare la tortura. Il turbante e la barba bianca di Khomeini sembrarono segnare un “nuovo inizio”. Il vecchio religioso era pittoresco nei modi e nel vestire e certe sue proposizioni apparivano, certamente, tenebrose e oscurantiste. Ma sembravano dettagli. Era, si diceva, antimperialista ed antiamericano. La sua ideologia religiosa passava in secondo piano, come mimetizzata nell’amplissimo consenso di popolo che attorno alla sua figura si era andata coagulando. Lo appoggiarono anche marxisti, democratici e liberali. Che pensarono che l’essenziale, per intanto, era la rivoluzione. Cacciato lo Scià, un’alba nuova e nuovi destini si sarebbero comunque aperti, per l’Iran e per quell’importantissimo e strategico angolo di mondo in cui esso è inserito. Le rivoluzioni, però, divorano, i loro figli (2). Ne faranno le spese, drammaticamente, alcuni degli esponenti della prima ora del nuovo estabilishment della repubblica khomeinista: Bani Sadr, Ghotbzadeh… Eventi ormai lontani. In trenta anni di storia, tormentata e controversa, un grande Paese come l’Iran si è profondamente trasformato. E’ passato attraverso drammi epocali (come la sanguinosa guerra con l’Iraq), momenti di “illusioni riformiste” (con la presidenza Khatami), derive nazionalistiche e populistiche. Come quella che è, evidentemente, impersonata da Ahmadinejad. Quel che è certo è che anche la società è profondamente cambiata.
Nelle manifestazioni che, mentre scriviamo queste riflessioni, si svolgono in queste giornate tese e convulse di giugno, a Teheran, ma anche qui da noi, nelle nostre città (3), dove gli studenti iraniani all’estero scendono in piazza per solidarizzare con i loro connazionali dell’“onda verde” pro-Mousavi, sono i giovani ad essere protagonisti. Giovani sotto i trent’anni (che in paesi come l’Iran costituiscono il 70-75% della popolazione). Che, dunque, spesso, ai tempi della Rivoluzione non erano nemmeno nati. E che, ora, irrompendo imprevedibilmente in modo pacificamente irruento sul proscenio di una storica ricorrenza, ne impongono in qualche modo una verifica ed un consuntivo severamente critici. E’ attraverso le loro voci, la loro creatività trasgressiva e l’uso, in cui essi, come i loro coetanei di tutto il mondo sono maestri, della nuova comunicazione tecnologica (con You Tube, Twitter, i Siti, i Blog, le trasmissioni delle foto dei cellulari) che trovano espressione le istanze della società civile di orientamento riformista e democratico. Quella che ha trovato il suo candidato-simbolo, appunto, in Mousavi e che, nel momento (esattamente, il 21 giugno) in cui scriviamo, continua a scendere arditamente in piazza per denunciare i brogli elettorali e la repressione. Che, in queste ore, pare essersi scatenata in modo determinato e feroce.
Bisogna, d’altra parte, essere consapevoli, che gli avvenimenti iraniani, che drammaticamente si stanno snodando in questo periodo, sono aperti a tutti gli sbocchi. E’ possibile di tutto. E, certamente, è probabile che quando il volume della Rivista sarà stampato, sapremo a quali approdi, almeno temporaneamente, essi avranno portato. In questo senso, sono riflessioni, quelle affidate a queste pagine, che risentono del contesto di grande incertezza e provvisorietà della situazione cui viene fatto riferimento. Nel caso, potranno uscire corredate da una postilla con qualche riga di aggiornamento e di messa a punto delle osservazioni formulate. Ma non è questo ciò che, qui, preme notare.
Appelli come quello di Shirin Ebadi
Importante è, nella sostanza delle cose, far rilevare il carattere assai complesso che la vicenda iraniana va assumendo e che la rende aperta, appunto, ad esiti (anche radicalmente) diversi. Di analisi in merito, in questi giorni, ne vengono proposte molte. Se ne ricavano indicazioni contraddittorie, e inquietanti che evidenziano, contemporaneamente: la forza e la determinazione inusitata del movimento popolare di carattere riformista e democratico; la tenuta e la vastità, a quel che è dato capire, del consenso che la politica populista della parte del regime che si identifica in Ahmadinejad ottiene ancora presso estesi settori dei ceti meno abbienti; la sfida aperta (e finora inimmaginabile) che viene mossa alla stessa “autorità suprema” del regime, impersonata dall’ayatollah Khamenei; il ricompattarsi di molte delle forze e delle diverse componenti del regime attorno allo stesso Khamenei che avalla il contestato “risultato” elettorale e lancia anatemi (pessimo segnale) contro “complotti stranieri”. Finora, ben poche speranze sembra possano avere gli appelli di autorevoli esponenti della società civile iraniana, come il premio Nobel Shirin Ebadi che appoggiano la richiesta, formulata in prima persona dal candidato “riformista” Mousavi, di un nuovo svolgimento delle elezioni.
Una domanda è (tragicamente) sospesa sugli avvenimenti in corso: è possibile un esito “alla Tienanmen”? E’ possibile. E. anzi, come sappiamo, a Teheran già ci sono state già non poche vittime.
A partire da questa considerazione, in causa non sono solo gli iraniani e i loro (incerti) destini, ma lo è, in qualche modo, tutta quella parte del mondo che si definisce libera e democratica. Che da quanto sta avvenendo non può non sentirsi direttamente, e inequivocabilmente, interpellata.
Alla domanda sul “che fare?” in merito sono state date, finora, incerte, balbettanti e insoddisfacenti risposte. E’ vero che siamo in un tempo nuovo che postula una ridefinizione di orizzonti strategici e di modalità di relazioni all’interno della comunità internazionale. All’unilateralismo di Bush, in USA, è succeduta la politica della “mano tesa” di Obama. L’approccio del nuovo presidente ai problemi globali relativi alla sicurezza collettiva ed alla distensione nel mondo ha suscitato un ampio dibattito ed ha generato molte aspettative. Si è rivolto direttamente anche alla “Repubblica islamica iraniana”, Barack Obama, compiendo un gesto dirompente nelle relazioni con un Paese ed un regime con cui i contatti diretti sono formalmente interrotti da anni. Ha anche parlato, come sappiamo, con un discorso dal timbro nuovo all’intero mondo islamico, toccando i temi della pace, del dialogo interreligioso, della comune premura per la dignità umana. Chiaro è il suo intendimento: superare un clima generalizzato di ostilità e di scontro e dividere, nel mondo islamico medesimo, i “moderati” dai “radicali” (anche se è molto incerto il significato da attribuire a così generiche, e contestate, categorie interpretative). Intanto, l’area mediorientale va faticosamente ridefinendo i suoi equilibri.
La nuova impostazione statunitense può favorire prospettive nuove per la soluzione del pluridecennale conflitto israeliano-palestinese. Ma questa è solo una (assai problematica) possibilità. I palestinesi soffrono ancora delle ferite, non rimarginate, prodotte dal pesante intervento israeliano su Gaza, mentre gli interlocutori possibili di un dialogo più che mai necessario sembrano fra loro irriducibilmente divisi. Il governo attuale di Israele (nonostante le aperture di Nethanyau all’ipotesi di uno stato palestinese) è uno dei più spostati a destra mai esistiti nel Paese, mentre gli insediamenti dei coloni nei “territori” addirittura si espandono e, sul fronte opposto, le due componenti palestinesi (di Abu Mazen e di Hamas) continuano a mostrarsi irreconciliabili.
Una nuova aria sembra invece spirare sul Libano, dopo la vittoria netta alle recenti elezioni dello schieramento democratico di Saad Hariri e l’altrettanto chiara sconfitta delle forze filoiraniane e filosiriane di Hezbollah. Se Hezbollah rispettasse lealmente il risultato e accettasse (come presto verrà discusso) una prospettiva di disarmo delle sue milizie, il Paese dei Cedri potrebbe avviarsi sulla strada del consolidamento della democrazia e della pacifica convivenza interna, con benefici effetti in tutta l’area.
Tutto questo per dire che le stesse vicende iraniane si inseriscono in un contesto in cui molte sono le variabili e le questioni, fra loro, interconnesse. E’ un contesto rispetto al quale notevoli sono le responsabilità delle forze che, nel mondo, puntano sulla pace, il dialogo, i diritti umani e la democrazia. Uno sbocco positivo all’attuale crisi iraniana sarebbe evidentemente non solo auspicabile in sé, ma avrebbe ricadute evidenti su molte delle vicende, delle dinamiche e delle crisi aperte in un’intera area geopolitica. Detto in sintesi, dunque, abbandonare a se stessi i democratici iraniani sarebbe non solo eticamente disdicevole, ma anche politicamente miope.
Da un unilateralismo all’altro?
Bisogna dunque, evitare, di passare da un unilateralismo ad un altro. Dalla (catastrofica) strategia che pretendeva di esportare la democrazia addirittura con le armi (con i risultati che l’Iraq ha evidenziato) ad una sorta di assolutizzazione, anche sul piano etico-politico, della“non ingerenza”.
Il rilancio del dialogo con il mondo arabo e islamico è fondamentale, ed ha una valenza enormemente positiva al fine di accantonare i fantasmi del “conflitto di civiltà”. Su questo non c’è alcun dubbio.
Ma è un dialogo che non può né svolgersi esclusivamente fra le diverse dimensioni culturali e religiose compattamente intese (come se l’“occidente” o l’“islam” non vivessero di differenziazioni interne) né limitarsi ad individuare come interlocutori esclusivi, a livello politico, stati, governi e regimi (che, perlopiù, non sono tra l’altro rispettosi delle libertà democratiche e dei diritti fondamentali, nemmeno quando sono classificati come “moderati”) con cui interloquire a livello “di vertice”.
La “mano tesa” deve dunque, e forse, in primo luogo, essere rivolta verso la società civile di quei paesi e di quei popoli che, in ambito islamico (e segnatamente nel caso dell’Iran), anelano evidentemente all’ottenimento della libertà, della democrazia e dei diritti umani.
Qualcosa, nel momento in cui questo testo viene scritto, va forse cambiando. Non a caso, i toni usati recentemente dal presidente Obama, che sottolinea il diritto del popolo iraniano all’“ascolto”, evidenziano un aggiustamento della rotta fin qui seguita. Che sembrava fondarsi, sia pure all’interno una complessiva e nuova visione della distensione e delle relazioni internazionali, proprio su quella “realpolitik” che la visita di Hillary Clinton a Pechino, prima, e le reazioni “a caldo” alla crisi di Teheran, poi, sembravano indicare come opzione fondamentale della Casa Bianca. In ogni caso, al di là delle scelte statunitensi (nelle quali il timbro della cautela è anche legato alla temuta evocazione del lontano sostegno americano allo Scià), sono l’Unione Europea, gli stati e i governi, unitamente alle forze politiche e alle realtà dell’associazionismo democratico, d’Europa ad essere convocati ad un’assunzione di responsabilità.
Gli iraniani democratici hanno formulato richieste precise. Non riconoscere il governo Ahmadinejad finché non sia fatta piena luce sul reale andamento delle elezioni. Non ricevere, al di fuori di tale chiarimento, il presidente iraniano riconfermato nel suo mandato, in contesti internazionali significativi. Ovviamente, il “punto non è se riusciremo a impedire che il regime massacri i suoi stessi cittadini”, ma “dipende da noi chiarire che ogni violenza compiuta contro il popolo iraniano comporterà un prezzo per il regime.” (4).
Gli sviluppi futuri di una situazione così delicata ci sono, ovviamente, ignoti. Ma dipenderà anche da noi, e dalle nostre scelte, se potremo domani riparlarne a testa alta e con tranquillità di coscienza.
1) Sulle ingerenze e sui tentativi di controllo degli spazi Internet da parte dei regimi autoritari e totalitari e sulle persecuzioni dei cyberdissidenti, v., di Luisa Brunori, L’informazione via internet fra censura e libertà (sez. monotematica, a cura di Davide De Grazia, dedicata a Galassia internet, “Testimonianze” n.452). Sottolinea, in merito, l’autrice che “Il valore aggiunto della Rete è (..) la tendenziale assoluta libertà di circolazione delle idee e l’incondizionato pluralismo dei canali di informazione: eliminare queste due caratteristiche non significa solo ridurre Internet a semplice ricettore di informazioni censurate; significa far cadere in inganno chi si serve di Internet; illudere gli utenti di stare usando uno strumento potenzialmente illimitato, quando invece viene sottoposto a invisibili restrizioni esterne”. E, specificamente sulla Cina, ricorda che il “proxy di stato cinese, cui yahoo!, Microsoft e Google si sono piegati (….) rimuove (..) i risultati relativi ai massacri di Tienamen, all’indipendenza tibetana e di Taiwan, ai temi (…) sui diritti umani. E’ qui che scatta (…) l’annullamento delle informazioni. Infatti il meccanismo mentale del considerare non esistente ciò che non è su Internet non risparmia (…) nemmeno i cinesi.(…) se essi non troveranno nemmeno su Internet (…) certe informazioni, non potranno che concludere (…) che quei fatti (…) non sono mai esistiti.” (pag. 73).
2) In proposito, c’è un interessante video-documentario (prodotto da Leonardo Rafat e realizzato da Leonardo Ferri) di Ahmad Rafat che si intitola, appunto, I figli divorati della rivoluzione khomeinista (video che è stato presentato, fra l’altro, all’interno di un’iniziativa pubblica, nella sede del Consiglio regionale della Toscana lo scorso 3 Aprile).
3) Manifestazioni di studenti democratici iraniani, in questi giorni, si sono svolte in molte città italiane: anche a Firenze, dove i manifestanti hanno ricevuto ampia solidarietà dalle istituzioni cittadine, provinciali e regionali (in particolare, una delegazione di giovani iraniani è stata ricevuta in Consiglio Regionale ed ha animato un incontro vivo e denso di contenuti e di emozioni).
4) Vittorio Emanuele Parsi, Ciechi come fu lo Scià, “La Stampa”, 21 Giugno 2009.