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“Solitudine in poesia”: un percorso scolastico
di Maurizio Bassetti

Leggendo e commentando poesie d’autore a scuola ci si imbatte nel tema della solitudine: è un’occasione per parlarne insieme ai giovani di oggi.

Ricerca di pace e tranquillità
Insegnando italiano in un istituto superiore mi imbatto tutti gli anni in alcune poesie famose della letteratura italiana dedicate al tema della solitudine e insieme con gli studenti ho modo di confrontarmi su questa particolare realtà della vita.
In terza incontriamo il sonetto di Francesco Petrarca Solo e pensoso i più deserti campi che ci propone la solitudine ricercata: la ricerca di rimanere soli con se stessi, per sfuggire il confronto con gli altri. Petrarca ne parlava a proposito delle sue sofferenze d’amore: non volendo render conto a nessuno della sua passione d’amore (“com’io dentro avvampi”) cercava luoghi solitari: “Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti; / e gli occhi porto, per fuggir, intenti / dove vestigio uman l’arena stampi.” Ma poi si accorgeva che il tormento d’amore rimaneva in lui e non poteva far altro che riflettere in se stesso (“Ma pur sì aspre vie né sì selvagge / cercar non so, / ch’Amor non venga sempre / ragionando con meco, ed io con lui.”).
Cercare la solitudine per trovare pace e tranquillità, per rimanere soli con se stessi e poter riflettere è una dimensione positiva che spesso ci manca. I miei studenti spesso confermano che cercare di sfuggire gli altri nei momenti bui è ricorrente anche per loro ma che sempre più spesso ciò è difficile; qualcuno anzi lo ritiene una debolezza e preferisce il confronto. Pochi si accorgono dell’importanza della dimensione del ripiegamento interiore, della ricerca del silenzio per guardarsi dentro, per cercare di fare luce su di noi.
Quando ero giovane ricordo che con il gruppo parrocchiale, durante i cosiddetti “ritiri” c’era un momento che il nostro sacerdote chiamava “deserto”, in cui ognuno di noi era invitato a stare da solo a meditare. Era un’esperienza molto forte, che mi costringeva a pensare alla mia vita, a me stesso, a confrontarmi faccia a faccia con l’assoluto senza mediazioni. Ancora oggi dopo tanti anni, mi riserbo sempre uno spazio di “solitudine”, per me, anche se mi accorgo che il ritmo di vita ci porta più all’attivismo che alla meditazione, c’è il predominio del fare rispetto al pensare e, se da una parte, mi ritrovo più con l’attività concreta, ritengo sempre fondamentale il momento dedicato all’interiorità. Trovare il giusto equilibrio tra lo stare da soli e lo stare con gli altri mi sembra una valida ricetta. Ho sempre avuto difficoltà a comprendere una vita tutta immersa nella meditazione lontano dal mondo (come i monaci di clausura), mentre sono sempre rimasto ammirato nei confronti di chi si dedica completamente agli altri, ma nella mia esperienza mi è sempre tornato utile, pur nell’estremo attivismo, trovare spazi e tempi in cui fermarsi a fare il punto o a lasciare da parte per un po’ le “cose” e far respirare lo “spirito”. Anche nelle vacanze ricerco luoghi tranquilli, lontano dal chiasso delle folle, un lago nell’Italia centrale, una riserva marina in Sicilia, una spiaggia sconfinata nelle isole Frisone, una distesa sabbiosa in Danimarca, una foresta in Svezia o un fiordo norvegese…

Disagio giovanile
In quarta ci imbattiamo obbligatoriamente in Giacomo Leopardi, poeta amato e odiato dai giovani, specchio di molti disagi dell’adolescenza ma anche eccessivo pessimismo lontano dalla voglia di vita dei giovani. E Leopardi è il poeta della solitudine: quando leggiamo Il passero solitario non possiamo che riflettere su quella “solitudine” obbligata, segno di un disagio di vivere che tanti hanno provato almeno una volta e tipico dell’adolescenza: “Sollazzo e riso, / della novella età dolce famiglia, / e te german di giovinezza, amore, / sospiro acerbo de’ provetti giorni, / non curo, io non so come; anzi da loro / quasi fuggo lontano; / quasi romito, e strano / al mio loco natio, / passo del viver mio la primavera.”
La giovinezza come momento di tristezza per i grandi desideri che si hanno e le difficoltà che ci sembra ci siano per realizzarli; Leopardi ci costruisce la filosofia del “pessimismo cosmico” in cui la contraddizione tra speranze e impossibilità nel realizzarle diventa l’elemento tipico della condizione umana. Gli studenti spesso si ribellano a questo pessimismo e preferiscono pensare che il futuro per loro prepara qualcosa di bello. Ma sempre più spesso mi imbatto in qualche piccolo “Leopardi” che è depresso, che non trova stimoli nell’andare avanti, che si blocca con facilità di fronte alle difficoltà. Mi sembra che in molti ragazzi ci sia tanta fragilità e solitudine; e bisogno di essere incoraggiati, di avere punti di riferimento. Tanti reagiscono quando mostri loro attenzione. Qualcuno non viene più a scuola, ma se telefoni o mandi un messaggio di incoraggiamento spesso si sblocca e torna. Alcuni hanno bisogno di sfogarsi e dopo che li hai ascoltati e offerto anche poche parole sembrano rasserenati. Altri improvvisamente smettono o perdono ogni interesse per la scuola dopo anni di buoni risultati. L’impegno di chi insegna è sempre più difficile: non si può pensare di muoversi a scuola senza tener conto di questa dimensione di fragilità e solitudine dei giovani d’oggi (o di sempre?).
Qualche volta faccio presente ai miei studenti come anche Leopardi nel suo estremo pessimismo non aveva scelto la depressione o il suicidio ma ci ha lasciato le pagine de La Ginestra in cui invita alla solidarietà tra tutti gli uomini: “Tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune.”

L’abbandono
All’inizio dell’ultimo anno propongo le poesie di Giovanni Pascoli (che in genere preferisco a D’Annunzio, che svolgo più frettolosamente) e riesco sempre a farle apprezzare, anche se il tema della “morte” così ricorrente non piace troppo. Una delle prime poesie che leggiamo è Lavandare, esempio tipico di lirica “impressionistica”, apparente bozzetto veristico che nasconde significati simbolici… e il significato simbolico qui sta proprio nella “solitudine”, intesa come abbandono. Ecco un’altra faccia del tema: essere lasciati soli, essere abbandonati “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Il senso della mancanza, quando qualcuno parte o ci lascia: “Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / resta un aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggero.” Rimanere senza i “buoi” che ci guidano, immersi nella nebbia, “dimenticati” è una condizione che tutti hanno provato e gli studenti si identificano facilmente. C’è chi è stato lasciato da un genitore (la condizione di figli di separati è sempre più frequente e incidente sulla personalità degli adolescenti), chi ha avuto la prima delusione amorosa…
Ma la poesia parla di un particolare “abbandono”, quello vissuto dai familiari dei migranti: “e tu non torni ancora al tuo paese! / quando partisti, come son rimasta!” Una condizione frequente nell’Italia di un tempo che Pascoli denuncia in più scritti e che qui stigmatizza dal punto di vista di chi rimane ad aspettare e forse non rivedrà più il caro partito. Oggi questo problema è poco sentito dai giovani italiani (ma anche da una società dalla memoria corta) ma torna di attualità con i nuovi immigrati. E sono proprio gli studenti stranieri (sempre più sono presenti anche nella scuola superiore) che rimangono colpiti dalle parole di questa poesia.
Una mia alunna albanese in una sua riflessione di scuola ha scritto: “Personalmente posso dire che l’immigrazione non è per niente una cosa bella, almeno per me, anzi è tutto il contrario. Io sono venuta in Italia a 11 anni, ho lasciato la scuola, gli amici, i parenti e, per problemi di documenti, ho lasciato anche la mia mamma.
E’ stato il mio primo viaggio in traghetto, avevo tanta paura e allo stesso tempo ero anche molto emozionata per l’arrivo in Italia ma anche addolorata per aver lasciato la mia mamma in Albania. Sul traghetto c’era tantissima gente e per me era la prima volta che stavo con così tanta gente sconosciuta, quindi ero imbarazzata e piangevo anche perché sapevo che l’Italia era tutto un altro mondo. La cosa che più mi faceva paura era il porto in Italia, perché era notte e perché era pieno di poliziotti armati e con i cani che non smettevano di abbaiare e poi ero in traghetto sopra il mare e avevo paura di affogare in quelle acque scure.
Quando arrivai qui trovai tutto un altro modo di fare, un’altra lingua e gente che giustamente ti guardava in un modo, come dire, strano. Il primo anno è stato difficile sia per gli amici nuovi, sia per la lingua e in più la nostalgia della mia terra.”
Una sintesi un po’ confusa ma spontanea di sentimenti che racchiudono tante problematiche dell’emigrazioni e che accostano il senso di “abbandono” e solitudine di tanti italiani del primo Novecento ai nuovi migranti dei giorni d’oggi.

La scomparsa dei propri cari
Nel corso della quinta leggiamo poi i poeti del Novecento da Ungaretti a Montale passando da Campana, Saba e Quasimodo, e tutti in un modo o nell’altro parlano di “solitudine”, come condizione tipica del mondo moderno.
Giuseppe Ungaretti, ad esempio, tocca il tema legato alla tragedia della Prima guerra mondiale, quando vengono meno tanti compagni nella carneficina delle trincee, nell’“inutile strage”. Il tema della solitudine per il venir meno dei propri cari. “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” dice in San Martino del Carso e conclude che “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.
Quando ci muore qualcuno a cui siamo legati ci sentiamo più soli, sembra che venga a mancare un pezzo di noi stessi, della nostra esistenza; ci accorgiamo come la nostra vita sia composta di relazioni, di affetti e se scompare qualcuno si perde qualcosa, siamo più soli. Gli altri sono così parte della nostra vita che a volte li sentiamo dentro di noi, animano i nostri sogni e quando muore un caro lo ritrovi poi nei tuoi pensieri, ti appare quando meno te lo aspetti, lo senti parlare dentro di te. Mio padre ad esempio torna a visitarmi a volte con la sua figura imponente ma discreta. “Ma nel cuore / Nessuna croce manca”. Poi riapri gli occhi e ti senti come abbandonato, incompleto…
Anche i ragazzi avvertono la drammaticità della scomparsa dei cari e quando muore un loro amico (e sempre più spesso capita oggi in quella continua “guerra anomala” che sono gli incidenti stradali) rimangono annichiliti, prostrati, non sanno come reagire all’improvvisa, inspiegabile mancanza e la solitudine li attanaglia, li priva di vitalità, li priva di una parte di loro. Un mio studente ha perso di recente il cugino con cui spesso studiava, ora non riesce più a stare al tavolo che condivideva con lui.
E di fronte alla morte dei giovani, in guerra i compagni di Ungaretti, per le strade (o a volte per mali incurabili) gli amici dei miei alunni, non ci sono parole, è difficile dare conforto, ciascuno vive il suo dolore in solitudine.

Una condizione esistenziale
E il tema della solitudine nei poeti del Novecento diventa una condizione esistenziale ricorrente insieme al disagio di vivere, o il “male di vivere” di Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato).
Anche Salvatore Quasimodo ci ha lasciato una brevissima ma intensa poesia sul disagio esistenziale, Ed è subito sera: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”.
In soli tre versi il poeta ci descrive la condizione della solitudine esistenziale, la brevità della felicità e la precarietà della vita. Sono poesie come questa che i ragazzi intendono subito e riescono ad apprezzare per la loro intensità. Si discute con loro su quel “trafitto”: indica l’intensità della gioia o l’ambiguità negativa della brevità della felicità? Si concorda della condizione di “solitudine” pur se circondati dagli altri, pur se in contatto virtuale con tante persone come mai siamo stati prima di oggi con i nuovi mezzi di comunicazione: TV, e-mail, Internet, telefonini, sms… essere nel “cuor della terra” eppure soli.
La finale poi è di comprensione immediata ed amara: l’arrivo della “sera”, metafora ricorrente (già incontrata continuamente nella frequentazione scolastica con tante poesie) per la morte. Ma quello che colpisce è quell’accostamento allitterante con “subito”: – no, mi dicono, la morte è lontana – E certo il nostro desiderio è di pensarla “lontana”, l’esorcizziamo ritenendola affare di anziani (riguarda sempre solo quelli più vecchi di noi).
Infine si torna al tema centrale delle prime tre parole che scandiscono la condizione di solitudine di “ognuno”, che “sta” irreparabilmente da “solo”. E la discussione si fa serrata: la dimensione di solitudine va accettata o dobbiamo cercare di colmarla? Ma l’uomo non è un essere sociale? Se siamo “soli” dobbiamo quindi pensare solo a noi stessi o aprirci agli altri che ci possono completare? Ci si accorge piano piano come la condizione umana sia ambigua, come abbiamo bisogno degli altri ma allo stesso tempo di essere attaccati a noi stessi; di essere solidali ma anche capaci di guardare alle nostre risorse, a valorizzare i nostri “talenti”; sapere ascoltare gli altri ma poi sapere guardare dentro di noi.
In questa situazione di ambiguità mi riconosco e anche io ho provata una volta a metterla in versi in occasione di una gita scolastica a Venezia. Quella atmosfera ambigua della città lagunare, un po’ terra e un po’ acqua, in cui le zone sono separate dai canali e poi riunite dai ponti e collegate dai battelli mi ha ricordato la nostra condizione di uomini, “soli”, isolati come tante isole, ma in continua ricerca di collegamenti con gli altri verso cui stabiliamo ponti o inviamo barche:

“Venice

Galleggiamo in questa laguna
ogni uomo una piccola isola
tra canali e bracci di mare

qualche ponte ci unisce all’amico
qualche barca si stacca da noi
qualche calle si ferma nell’acqua

Traversiamo un intrico di strade
per viuzze sempre più anguste
raggiungiamo spazi più aperti
dove svettano torri nel cielo

dalle parti pareti cadenti
finestrelle chiuse da anni
caseggiati senza nessuno

poi appare un palazzo sontuoso
un giardino di fiori a un balcone
un percorso pieno di luci

E’ lo specchio di ogni cammino
lo respiri nel salmastro dell’aria
nei sestrieri di questa città”