Vivere senza menzogna: un ricordo di Aleksandr Solzhenitsyn
di Piero Sinatti
La vita del “grande vecchio” Aleksandr Solzhenitsyn, recentemente scomparso, dalla testimonianza contro l’Arcipelago Gulag all’esilio (e autoisolamento) americano fino agli ultimi, controversi anni, del rientro in Russia, ha voluto essere soprattutto una testimonianza di moralità civile, etica e religiosa. Un’eredità, in larga parte, oggi incompresa nel suo stesso, grande e travagliato, Paese.
“Alla fine della mia vita posso sperare che il materiale storico, i temi storici, i quadri di vita e i personaggi da me raccolti e presentati, riguardanti gli anni durissimi e torbidi vissuti dal nostro paese, entreranno nella coscienza e nella memoria dei miei connazionali (…). La nostra amara esperienza nazionale ci aiuterà nella possibile nuova ripresa delle nostre mutevoli fortune, ci metterà in guardia e ci terrà lontani da rovinose rotture”.
Queste parole, che sono una sorta di congedo o di testamento spirituale, il grande scrittore russo Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn le pronunciò nel giugno 2007. In occasione del premio di stato conferitogli per “i grandi risultati raggiunti in letteratura”, circa tredici mesi prima della morte, che lo ha sorpreso nella notte del 3 agosto[1].
Si stava avvicinando, Aleksandr Isaevich, al novantesimo anno di vita. Era da tempo ammalato e costretto a muoversi solo grazie a una sedia a rotelle, nella sua appartata residenza boschiva presso Mosca, a Troitse-Lykovo, dove viveva circondato dall’affetto della preziosissima moglie e grande collaboratrice Natalja – con cui fino alla vigilia della morte ha curato l’edizione in trenta volumi della sua opera – e dei suoi tre figli, Ermolaj, Stepan, Ignatij.
In quella residenza, venne a visitarlo, per consegnarli di persona il premio, l’allora presidente russo Vladimir Putin. Fu un incontro improntato a cordialità e reciproca stima.
Vale la pena ricordare che quello stesso premio, Aleksandr Isaevich lo aveva rifiutato, quando lo avrebbe dovuto ricevere dalle mani del presidente Eltsin, cui il grande scrittore non perdonava, soprattutto, il modo in cui le ricchezze del Paese erano state predate dagli oligarchi della “Famiglia”, il composito e ubuesco entourage del “Primo Presidente” russo.
Una parentesi: non ho letto in nessuno degli obituaries a lui dedicati dai giornali che fu proprio Solzhenitsyn a usare per primo il termine oligarchia. Lo fece nel discorso pronunciato alla Duma subito dopo il suo rientro in patria nel 1994, per designare il sistema di potere economico-politico che stava costruendo l’élite russa[2], la sola beneficiaria delle cosiddette “grandi privatizzazioni” degli anni Novanta. Che tutti noi, (ahimè, compreso chi scrive, mea maxima culpa) salutammo come il segno della “fuoriuscita” dal comunismo e della tanto attesa transizione alla democrazia e al mercato.
Un grande testimone del tempo
Con Solzhenitsyn scompare uno dei grandi testimoni del XX secolo, un uomo la cui vita è stata segnata da un indomabile coraggio e un’alta moralità, civile e religiosa, da una profonda coerenza tra vita e opera intellettuale e letteraria, secondo la sua celebre professione di fede degli anni Settanta del secolo scorso: “Non vivere secondo menzogna”[3]. Solzhenitsyn è nato a Kislovodsk, sud-est russo, l’11 dicembre 1918, da una famiglia di agiati agricoltori, padre russo e madre ucraina. Fisico e matematico per formazione (e professione, prima di dedicarsi interamente alla letteratura), è stato il primo scrittore a vedere pubblicata nel novembre 1962 in URSS, (nel novembre 1962), un’opera letteraria incentrata su un tema fino ad allora rigorosamente tabù: la vita di/in un campo di prigionia dell’epoca staliniana.
Si tratta del romanzo breve, o povest’, Una giornata di Ivan Denisovich[4], apparso con grande scalpore e con un lungo e fitto seguito di polemiche, nella rivista letteraria “Novyj Mir”, grazie al parere favorevole del suo direttore, il famoso poeta Aleksandr Tvardovskij, ma soprattutto dell’allora leader “destalinizzatore” del PCUS Nikita Khrusciov. A quest’ultimo la pubblicazione della povest’ serviva nella battaglia condotta – in modi del tutto insufficienti e ambigui – contro i suoi avversari stalinisti o “conservatori”.
L’apparizione di questo libro in URSS rappresentò una sorta di rivoluzione mentale, un lampo che squarciava il cielo, del tutto inatteso. Nessuno allora pensava che del lager, nella “patria del comunismo”, si potesse parlare tanto presto.
In un passo di un suo romanzo, Reparto C, Solzhenitsyn stesso riflette su questo stato d’animo, quando fa dire a un suo personaggio, una donna passata per i lager: “Dove leggere un libro che parli di noi, di noi? Tra cent’anni?[5]”.
Chiaramente, il noi sono tutti coloro, milioni di uomini e donne, che hanno vissuto quella orribile esperienza.
Nella povest’, senza alcuna enfasi e con un realismo degno di Anton Chekhov e Lev Tolstoj, Solzhenitsyn racconta un giorno trascorso in un lager da un semplice contadino ed ex-soldato, Ivan Denisovich Shukov, che è riuscito ancora una volta a sopravvivere alle fatiche e agli stenti del lavoro forzato, mantenendo intatta – quel che più conta – la propria coscienza in un mondo di gerarchie crudeli e imposizioni volente.
L’altro grande scrittore e poeta russo, un sopravvissuto dei “campi”, Varlam Shalamov, criticò Ivan Denisovich, affermando che le condizioni di vita e di lavoro rappresentate da Solzhenitsyn non corrispondevano alla durezza e crudeltà dell’esperienza vissuta dagli altri zek[6] in campi come quelli da lui conosciuti nell’”ultimo cerchio” del Gulag: la Kolyma[7].
L’Arcipelago Gulag
Ma è in Arcipelago Gulag che Solzhenitsyn racconta tutti i cerchi del Gulag. Rispetto alla Giornata di Ivan Denisovich, è un’opera di ben altra mole. Il suo fine è quello di impedire che del male dei “campi”si perda la memoria, smascherando al tempo stesso la natura concentrazionaria del sistema comunista.
Solzhenitsyn non si limita al racconto dei campi di lavoro servile nei diversi “cerchi” del Gulag. Dando voce ai testimoni, rappresenta tutte le fasi che il prigioniero, il “nemico del popolo”, attraversa prima di arrivare nel campo di lavoro a scontarvi la pena: l’arresto, la perquisizione dell’abitazione, il destino dei familiari, l’isolamento e le torture nei carceri giudiziari e/o nelle sedi dell’NKVD[8], il processo, il trasporto nei campi di lavoro nelle condizioni bestiali dei vagoni cellulari, le soste nei campi di transito, le violenze ed angherie di ogni genere, il lavoro servile e le sue “norme” produttive (una tragica imitazione del fordismo, segnato dalla brutalità, arbitrarietà e disordine russi), le morti, le uccisioni quotidiane.
In una parola, l’umiliazione che viene inflitta a un essere umano da esseri umani. La soggezione al male.
E’ questo, in ultima analisi, oltre alla denuncia del sistema che ha reso possibile tutto questo, il messaggio, metastorico, che l’autore affida a quest’opera monumentale.
A costruire questo monumentum aere perennius Solzhenitsyn ha legato non solo il lavoro di lunghissimi anni (il tempo di raccogliere le testimonianze, sistemarle, nasconderle, scrivere, farlo arrivare in Occidente), ma il suo destino inimitabile di scrittore.
Sul sistema concentrazionario
I sette libri che formano i tre grossi volumi dell’Arkhipelag Gulag, furono pubblicati attorno alla metà degli anni Settanta, subito dopo la sua forzata espulsione dall’URSS (1974), dalla casa editrice francese in lingua russa Ymka Press[9].
Si tratta della prima e più grande e originale ricerca documentario-letteraria sul sistema concentrazionario staliniano, costruita attraverso le testimonianze raccolte da Aleksandr Isaevich in gran segreto, in modo “cospirativo” (il tema trattato era un tabù), tra oltre duecento persone che avevano vissuto sulla loro carne l’esperienza del lager. Al pari e più dello stesso scrittore.
Infatti, lo stesso Solzhenitsyn aveva scontato una condanna a otto anni di lager tra il 1945 e il 1953, per aver criticato la condotta di guerra di Stalin in una lettera scritta al fronte a un amico e commilitone, quando si trovava, giovane ufficiale d’artiglieria, nella Prussia orientale ed era stato insignito di medaglia al valore .
L’opera, cui lo scrittore aveva lavorato con rischio, tenacia e intransigenza, consacra e rende proverbiale il burocratico e anodino acronimo Gulag. Esso designava la “Direzione centrale dei lager” (Glavnoe Upravlenie Lagerej), cioè il sistema concentrazionario sovietico, che compendiava una duplice funzione: da una parte, repressiva, in quanto organizzava la reclusione e la punizione dei veri e presunti “nemici del popolo”. Dall’altra, economica: gli zek (politici e di diritto comune) impiegati in una miriade di cantieri-lager, gestiti dal ministero di polizia e sparsi in tutto l’immenso paese, impiegati per la costruzione delle infrastrutture (strade, ferrovie, canali, porti, aerodromi, addirittura nuove città nei distretti minerari, fabbriche), per lo sfruttamento delle risorse naturali (dall’oro al legname, dal carbone all’uranio) e per diversi settori industriali (compreso quello militare-industriale).
Successivamente, il termine Gulag è passato a designare sia (metaforicamente) l’intero sistema sovietico negli anni di Stalin, sia (erroneamente) un singolo campo di concentramento[10].
Nell’“Arcipelago” sono rappresentati tutti i cerchi dell’inferno concentrazionario, compresi quegli ferocemente estremi della Kolyma, il “crematorio bianco” dell’Estremo Nord Est sovietico, raccontato con impareggiabile capacità di rappresentazione artistica e intensa trasfigurazione metaforica da Varlam Shalamov.
Purtroppo, tra lui e Solzhenitsyn, che ne aveva altamente apprezzato i racconti kolymiani, in circolazione già nei secondi anni Cinquanta nel samizdat, e lo aveva invitato a collaborare con lui per la scrittura dell’Arcipelago, i rapporti furono aspri, se non ostili. L’auspicata collaborazione non ci fu[11].
L’ Arcipelago è una vera e propria requisitoria contro il sistema concentrazionario e contro il sistema etico-politico che lo aveva prodotto. Un’opera di grandissimo respiro, segnato dall’impressionante varietà e ricchezza dei registri linguistici, letterari, storici.
Potremmo parlare di altissima oratoria storico-artistica, che inchioda per sempre alle sue immani responsabilità il sistema totalitario-inquisitorio creato da Lenin e da Stalin.
Un’opera gigantesca, mai apparsa fino ad allora. Tanto più necessaria, in quanto lo stesso autore non prevedeva che la fine del sistema sarebbe sopraggiunta con tanta rapidità. Un’opera, insomma, perché il suo paese e il mondo non perdessero la memoria del Gulag.
Primo cerchio e Padiglione cancro
Al tema del lager e più in generale della condizione umana in quella tremenda temperie storica sono legati altri due grandi libri, scritti negli anni Sessanta, prima del forzato esilio che inizia nel 1974 e si protrae per un ventennio, prima in Svizzera, poi negli USA.
Si tratta de Il Primo cerchio (scritto tra i secondi anni Cinquanta e il 1965) e Padiglione cancro (scritto tra il 1965 e il 1966). La censura ne vietò la pubblicazione e dopo la loro pubblicazione in Occidente, lo scrittore venne espulso dall’Unione degli scrittori (1969). Di fatto, si trattò di una vera e propria messa al bando da parte delle autorità sovietiche. Si stava affermando, in URSS, il rigelo brezhneviano, una volta cacciato dalla guida del partito-stato Nikita Khurusciov. E si assisteva a tentativi striscianti di riabilitare Stalin. Da allora, Solzhenitsyn divenne il personaggio simbolo del “dissenso sovietico”. Una sua icona.
Nel Primo Cerchio (titolo ispirato all’inferno dantesco), Solzhenitsyn rappresenta la sharashka, ovvero quella singolare istituzione del Gulag staliniano, che erano istituti tecno-scientifici speciali in cui lavoravano a progetti di primaria importanza specialisti, scienziati, ingegneri e tecnici condannati a pene detentive come “nemici del popolo”, “controrivoluzionari”.
In esse si viveva in condizioni molto migliori di quelle riservate agli altri “cerchi” del Gulag (la Kolyma ne era l’ultimo).
Una parte della sua prigionia Solzhenitsyn l’aveva trascorsa in due sharashki , quella di Rybinsk, nella regione del Volga, e quella di Mavrino, a Mosca.
In quest’opera, di idee e di destini, dal forte impianto corale, Solzhenitsyn (rappresentato qui nel protagonista, Gleb Nerzhin, mentre un altro importante personaggio, il marxista Rubin, rappresenta il noto, germanista, dissidente ed esule Lev Kopelev) riflette sul potere e la sua totale arbitrarietà, sui rapporti tra potere e scienza, tra potere ed etica individuale.
Di particolari originalità ed efficacia ci sembra la rappresentazione del “compagno Stalin”, sul finire della sua vita, “un uomo sull’ottantina”, “un piccolo vecchio con una borsa di pelle rinsecchita sul collo (…) con dita grasse che lasciavano impronte sui libri”, che pensa alla vecchiaia che si è ormai impadronita del suo corpo e della sua mente [12]
Il secondo è ambientato nel reparto oncologico dell’ospedale di Tashkent negli anni Cinquanta, dove Solzhenitsyn, liberato dal lager ed esiliato in un misero villaggio uzbeko, fu operato e curato per un cancro, da cui miracolosamente guarì.
Reparto C è una profonda e intensissima riflessione sui confini che separano la vita dalla morte, sulla corruzione dell’anima (quella del personaggio del burocrate di partito Rusanov), sulla resistenza che al male oppone l’ex ufficiale ed ex-zek Oleg Kostoglotov, l’alter-ego dell’autore. Il cancro, oltre al terribile male fisico, è anche la metafora di un male più profondo, quello morale, di cui soffre la società sovietica. La guarigione di Kostoglotov parrebbe simboleggiare (nei toccanti capitoli finali, tra le pagine più belle della narrativa di Solzhenitsyn) la lenta guarigione della società sovietica . Che non ci fu [13].
Si può affermare che Solzhenitsyn raggiunge i risultati artistico-letterari più alti con questi due romanzi, oltre che con Una giornata di Ivan Denisovich e Arkhipelag Gulag, assieme a preziosi racconti come La casa di Matriona, Alla stazione e Il bene della causa [14].
Sono opere scritte tutte in patria, in condizioni difficili, segnate dalla paura del sequestro dei manoscritti (di cui Solzhenitsyn provvidenzialmente faceva battere a macchina e microfilmare più copie, che affidava in custodia a persone diverse a lui devote). Il manoscritto del libro conservato in casa sua gli fu sequestrato durante una perquisizione del KGB.
La Ruota Rossa
Le opere narrative successive – quelle dell’esilio in un Occidente che egli non ama – non raggiungono risultati altrettanto felici.
Lo scrittore tenta il difficile connubio, all’interno del medesimo libro, tra romanzo, fiction (come si dice ora) e documentazione storiografica, cui aggiunge la sperimentazione di una scrittura che, in determinati momenti della narrazione, sono simili a quelle delle sceneggiature cinematografiche.
Parliamo dell’ambiziosissimo progetto de La Ruota Rossa (in russo, Krasnoe Koleso), già iniziato in patria, ma sviluppato e portato a termine durante l’esilio (e l’autoisolamento) dell’autore nel Vermont (USA).
Si tratta di un grande ciclo narrativo, in cui l’autore ricostruisce le fasi, anzi i “nodi” (uzli), salienti che preparano la Rivoluzione del 1917. Un evento che l’autore paragona a una sorta di “catastrofe cosmica”, simboleggiata dalla Ruota Rossa, che si mette in moto già nel 1914, all’inizio del conflitto, per poi abbattersi tre anni dopo sulla Russia e sul mondo.
I “nodi” storici sono quattro, quanti i volumi del ciclo, di circa 5000 fitte pagine complessive. In esso personaggi di fantasia, come il protagonista, il coraggioso e onesto capitano Vorotintsev, che accompagna gli avvenimenti rappresentati nei quattro “nodi”, si accompagnano alla rappresentazione di personaggi storici: dallo zar Nicola II al generale, suicida, Samsonov, da Lenin al presidente liberale della Duma Guchkov, dal protagonista della rivoluzione di febbraio Kerenskij all’avventuriero e ideologo marxista Helphand-Parvus e moltissimi altri.
Ed insieme Solzhenitsyn riproduce atti e risoluzioni dei governi, dichiarazioni di uomini politici e militari, articoli di giornale e altri materiali che hanno il compito di dare sostanza storica obiettiva a quanto la fiction narra, oltre a offrire una testimonianza dei momenti storici topici del periodo fatale, 1914-1917.
Da queste difficili e complesse pagine, in cui spesso l’intreccio è solo meccanica giustapposizione, emerge un severo processo che l’autore intenta all’intera classe politica russa prerivoluzionaria, alla dinastia e soprattutto all’intelligentsija radicale (e liberale), cui dà la massima responsabilità della catastrofe in cui 1917 sprofonda la Russia.
L’opera è andata incontro a un forte insuccesso di critica e di pubblico, in Occidente e in Russia, dove appare è apparsa nel periodo post-sovietico.
Importanza letteraria di Solzhenitsyn
L’importanza sul lato letterario di Solzhenitsyn è attestato soprattutto dal fatto, incontestabile, che Ivan Denisovich fa da battistrada alla grande memorialistica che da allora si svilupperà sull’età staliniana e sui lager tempi di Stalin.
Inoltre, grazie alla rappresentazione non real-socialista di un contadino russo come Shukhov, si dà inizio alla “letteratura campagnola o dei villaggi” (derevjanskaja literatura) che racconta la crisi del mondo rurale e tradizionale russo e che ha i suoi massimi rappresentanti in scrittori come Mozhaev, Rasputin, Abramov).
Il grande scrittore ha al suo attivo una vastissima opera di documentazione storica: quella raccolta per la Ruota Rossa e quella relativa ad altri periodi, avvenimenti, personaggi della Russia del XX secolo. E un’opera pubblicistico-polemica vastissima dedicata alla Russia, ai suoi problemi sociali, ai caratteri che dovrebbe avere la sua “ricostruzione” (obustrojstvo), al significato profondo che per la Russia rivestono sia la tradizione ortodossa, sia istituzioni rappresentative come i parlamenti locali (gli zemstva).
Ma dedicata anche all’Occidente la sua vis polemica, aspra e recisa come il taglio dell’accetta, non risparmia nessuno. Serrata è la critica alle filosofie illuministe e radicali, in nome dei valori tradizionali e religiosi. E ancor più veementi sono gli attacchi al sistema mediatico, al consumismo e all’obshchedosvolennost’ (“onnipermissivismo”) del mondo occidentale[15].
Nel 1994 ritorna da trionfatore in Russia. Alla fine della perestrojka gorbacioviana erano state pubblicate in URSS le sue opere principali.
Atterra a Magadan, centro della Kolyma e simbolo estremo del Gulag. E da là, percorrendo in treno la Russia da Oriente a Occidente (con evidente significato simbolico), arriva a Mosca.
Inzialmente le accoglienze sono quasi trionfali. Ma in poco tempo l’entusiasmo creato dal suo arrivo si dilegua.
Nell’anno dell’arrivo pronuncia un duro e poco applaudito discorso alla Duma. In esso definisce (per primo) oligarchico il sistema eltsininano. Seguono interventi e rubriche televisive, che non incontrano il favore del pubblico.
Il grande pubblico, tanto meno i politici “liberalizzanti” e la nuova rapace borghesia russa, non apprezza i suoi appassionati interventi diretti non solo contro i mali prodotti dal sistema sovietico, ma anche contro il consumismo, la corruzione, le trionfanti mode occidentalizzanti, la corsa all’arraffa-arraffa, il disprezzo per i valori tradizionali.
Il fatto è che la Russia post-sovietica insegue altri valori rispetto ai suoi. E soprattutto ha altre urgenze, a partire da una lotta darwiniana per la sopravvivenza (la nuova massa di poveri) e l’appropriazione della ricchezza (i “nuovi russi” o “nuovi ricchi”, che detesta).
Qualche anno prima di tornare in Russia, Solzhenitsyn aveva pubblicato un pamphlet dal titolo Come ricostruire la Russia. In esso auspicava, nel contesto di una pur lenta rigenerazione morale, sia la costruzione graduale di un nuovo sistema politico, basato sulla “democrazia dei piccoli spazi” e sull’autogoverno locale, oltre che su un’economia mista, di ispirazione solidaristico-cristiana, sia l’unità della Russia con i “fratelli slavi” di Ucraina e Bielorussia, uniti dalle comuni radici storiche e religiose [16].
Ultimi veleni
L’ultima grande opera per mole e impegno storico di Solzhenitsyn è il saggio in due volumi Duecento anni insieme (2001-2002). Vi descrive i difficili rapporti tra ebrei e russi negli ultimi due secoli.
L’opera si propone come “una ricerca di tutti i punti di comprensione comune e di tutte le possibili strade verso il futuro, purificate dalle amarezze del passato”[17]. L’opera è stata accolta da critiche (per esempio, il ricorso a fonti quasi esclusivamente russe) e da accuse, tutt’altro che nuove, di “antisemitismo”.
Si ricorderà che in passato, critici e avversari dello scrittore, avevano creduto di rilevarne traccia in alcuni passi dell’Arcipelago in cui Solzhenitsyn non evita di citare le origini ebraiche di alcuni dei massimi ideatori e realizzatori del sistema concentrazionario (per esempio Naftoli Frenkel’).
E a questo proposito si è citava anche la sulfurea rappresentazione solzhenitsyniana del rivoluzionario ebreo russo Israel Helphand, alias Parvus, nei “nodi” de La Ruota Rossa, che riguardano Lenin negli anni della Prima Guerra Mondiale [18].
Parvus, figura di estrema complessità, fu anche uomo d’affari, agente del governo tedesco durante la prima guerra mondiale, occulto ispiratore di Lenin oltre che finanziatore, con i soldi di Berlino, del suo ritorno in Russia nell’aprile 1917 per promuovervi la rivoluzione bolscevica (che avrebbe portato al ritiro della Russia dal conflitto). A Parvus si attribuisce la paternità della teoria della “rivoluzione permanente”.
Gli ultimi interventi politici
Infine, a un anno della morte, Solzhenitsyn si rende colpevole, agli occhi dei liberali occidentali e russi, di altri due crimini imperdonabili, che non gli vengono perdonati.
In una delle sue ultime interviste, come quella concessa al settimanale tedesco “Der Spiegel” (23 luglio 2007) Solzhenitsyn attribuiva a Vladimir Putin il merito di “una lenta e graduale ripresa della Russia…dopo aver ereditato un paese saccheggiato e disorientato, con un popolo povero demoralizzato”.
Infine, nell’ultimo intervento, apparso sulle “Izvestija” lo scorso aprile, Solzhenitsyn attaccava la russofobia dei dirigenti ucraini i quali, avendo bisogno di creare una “figura del nemico” ai fini della loro difficile costruzione identitaria, pretendono – con un mal celato sottinteso anti-russo – di definire “genocidio” ai danni del popolo ucraino, le morti a milioni per carestia e fame dei primi anni Trenta, che colpirono in modo massiccio l’Ucraina, ma certo non risparmiarono altri popoli dell’URSS tra cui i russi, vittime, come gli ucraini, della collettivizzazione forzata delle campagne realizzata da Stalin e dal regime comunista.
Solzhenitsyn accusa certi dirigenti occidentali (come il presidente americano Bush, allora in visita in Ucraina) di appoggiare le pretese di Kiev, allo scopo di approfondire il solco che divide due popoli uniti, secondo Solzhenitsyn, dalle stesse radici etniche, storiche e spirituali [19].
Anche su questo controverso tema, nel dileguare dei suoi giorni terreni, Solzhenitsyn ha mostrato di volere e sapere andare contro corrente, forte dei suoi convincimenti, fermi e severi. Che esemplarmente lo hanno accompagnato nella sua lunga straordinaria esistenza [20].
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[1] Da notare la coincidenza: S. scompariva cinque giorni prima che il suo paese affrontasse l’aggressione georgiana a Tskhinvali e dintorni, costata la morte oltre che a mille ossetini, a una ventina di soldati russi, i mirotvortsy o forze di interposizione e di pace schierati da oltre un decennio “nell’area di conflitto” ai confini tra l’Ossetia del sud e la Georgia. [2] Diciamo russa, ma le origini etniche degli oligarchi non sono solo, né in maggioranza, russe [3] Questo messaggio fondamentale è stato affidato a una “lettera ai dirigenti dell’Unione sovietica” del 5 settembre 1973, alla vigilia della sua espulsione dal Paese: una lettera restata “senza alcuna eco, risposta o cenno di reazione”. Si veda A. S., Vivere senza menzogna, Mondadori, Milano 1974. Di grandissimo valore è l’opera pubblicistica di A. S. in cui, tra l’altro lo scrittore e pensatore non lesina critiche all’Occidente, mettendo l’accento in particolare sui mali del consumismo e della sua “civiltà mediatica”, con il profluvio di informazioni inutili, fuorvianti, inessenziali, spiritualmente oscene, che essa rovescia sul pubblico. Il leit-motiv di A. S. è il disarmo spirituale dell’Occidente nei confronti del comunismo e del totalitarismo. Si vedano, in particolare, i tre discorsi pronunciati nel giugno e luglio 1975 a Washington e New York, raccolti in italiano nel volume Discorsi americani, Mondadori, 1976, tradotti da Sergio Rapetti, lo slavista che più di ogni altro ha contribuito a far conoscere e rendere felicemente in italiano l’opera di Solzhenitsyn). Un altro importante discorso, quello pronunciato a Harvard nel 1981, è apparso, invece, sempre tradotto da Sergio Rapetti, nel volume L’errore dell’Occidente, La Casa di Matriona, Milano 1980. Altri scritti e interviste sono raccolte nel volume Ricostruire l’uomo – Scritti e interviste su Polonia, Russia e Occidente, La Casa di Matriona, Milano 1983. Va ricordato che i liberali occidentali, fino ad allora adoratori dello scrittore-dissidente, accolsero a dir poco con delusione e ostilità questi interventi dello scrittore, poco in linea con il loro pensiero unico. La sinistra ne profittò per rincarare le accuse contro uno scrittore che detestava. Formulando giudizi che si potrebbero così riassumere: “Guardate un po’ quanto è reazionario questo Solzhenitsyn. Noi – la sinistra – lo avevamo sempre detto”. [4] Dopo la prima mitica edizione del 1963, tradotta da Raffaello Uboldi (allora corrispondente da Mosca di un giornale italiano) per Einaudi, Una giornata di Ivan Denisovic, ha avuto altre successive edizioni. Abusando di “Testimonianze”, ricordo che nel 2007, è stata pubblicata l’ultima edizione, nella serie tascabili, con un “contributi” del sottoscritto, che nel 1999 erano stati la prefazione di una precedente edizione Einaudi della povest’ solgenitsiniana. [5] A.Solzenicyn, Reparto C, introduzione di Vittorio Strada (il grande slavista italiano, che cercò di portare per primo il manoscritto di questo libro fuori dell’URSS), Einaudi, Torino 1969, pag. 521. Una nuova edizione di questo romanzo è uscita nel 2006 presso lo stesso editore. Quando apparve in Italia, il libro (bellissimo, toccante, profondo) apparve, a molta intelligentsija di sinistra e allo stesso Strada, allora militante del PCI, come la prova che il comunismo sovietico fosse rigenerabile, al pari della guarigione dal cancro dell’ex-lagernik Kostoglotov, il protagonista di Reparto C . Kostoglotov rispecchia la drammatica biografia dell’autore, prima ufficiale dell’Armata Rossa, poi prigioniero di un campo di concentramento, infine ammalato di cancro miracolosamente guarito. [6] Zek è un’abbreviatura che indica il termine prigioniero (zakjluchennyj). [7] Regione così nominata dall’omonimo fiume, situata nell’estremo nord-est della Russia, centro di una sezione del Gulag, il Dal’stroj (Costruzione dell’Estremo Oriente). Nella Kolyma – capitale Magadan, sulle rive del Mare di Okhotsk – i lager erano legati in particolare all’estrazione dell’oro in giacimenti a cielo aperto, in condizioni climatiche spaventose, in cui la temperatura scendeva fino a 50-60 gradi sotto zero. [8] Abbreviatura che significa Commissariato del popolo agli affari interni. Fu la polizia politica, erede della Ceka e della Ghepeù leniniane, protagonista del Grande Terrore degli anni 1936-1938. [9] A.Solzhenitsyn, Arkhipelag Gulag, opyt khudozhestvennogo issledovanija (Arcipelago Gulag, saggio di inchiesta narrativa), I volume, 1973, II volume 1974, III volume 1975, Ymka Press, Parigi. In italiano furono editi tra il 1974 e il 1976 dall’editore Arnoldo Mondadori, per la traduzione di Maria Olsoufieva e la cura di Sergio Rapetti. In Italia la pubblicazione fu accolta da un clamoroso insuccesso di pubblico. Si sa, la destra legge poco da noi, e la sinistra – con poche eccezioni – era in preda a gretti e calunniosi aprioristici pregiudizi contro Solzhenitsyn, che ha scoperto tren’tanni dopo, forse senza neppure capirne il messaggio più profondo. Le ultime edizioni di Arcipelago Gulag sono del 2001, una apparsa nella prestigiosa collana “I Meridiani”, in due volumi, curati da Maurizia Calusio con illuminante introduzione di Barbara Spinelli, l’altra in edizione economica (collana Oscar), in tre volumi. In Russia Arkhipelag Gulag apparve per la prima volta negli anni 1988-1989 sulla rivista “Noviy Mir”, prima di apparire in edizione a sé. Sulla storia e la struttura del sistema concentrazionario staliniano si legga il fondamentale volume di Anne Applebaum, Gulag – Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, Milano 2004. [10] Quante volte si leggono frasi come queste: è stato detenuto in un gulag. [11] La prima e parzialissma edizione italiana dei racconti kolymiani di Shalamov fu quella curata dal sottoscritto presso l’editore romano Savelli nel 1976, con il titolo Kolyma – Trenta racconti dai lager staliniani. L’edizione completa dei racconti, con il titolo I Racconti di Kolyma, è apparsa in italiano soltanto nel 1999 presso Einaudi, nella collezione I Millenni e nella versione di Sergio Rapetti. Di questa pregevolissima edizione, la Einaudi, decise di non pubblicare la prefazione in forma di intervista condotta da chi scrive con il grande scrittore polacco Gustaw Herling, uno dei primi autori della memorialistica del Gulag, con il suo capolavoro è Un mondo a parte, apparso in Italia negli anni Cinquanta da Laterza, e mal distribuito intenzionalmente. La motivazione ufficiale dell’editore fu che nella prefazione-intervista si parlava troppo di lager e poco di letteratura. In realtà urtò i dirigenti di Via Biancamano il fatto che sia io che Herling avessimo rilevato la sordità, su cruciali temi russi, di alcuni autori-chiave della Einaudi, come Primo Levi (su Shalamov) e Italo Calvino (su Pasternak). E forse non piacque neppure il fatto che avessimo paragonato il Gulag ai campi di sterminio nazisti. Neppure allora, per certi sinistri, si poteva dire una cosa simile. Ma tant’è… Quanto ai rapporti tra Solzhenitsyn e Shalamov, il primo ne parla in alcuni passi del suo libro autobiografico, La quercia e il vitello, edito in Italia da Mondadori nel 1975, a cura di Sergio Rapetti. [12] Si vedano i capitoli 18 e 19 (pagg. 115 e sgg.) della prima edizione italiana del libro, tradotto da Pietro Zveteremich, e uscita da Mondadori nel 1968. La seconda edizione italiana è del 1981. Mentre non è apparsa la versione definitiva e completa del libro (vedi nota seguente). [13] Il primo cerchio fu presentato da S. a “Novyj Mir” nella stessa versione, accorciata e liberata dalle pagine più difficili a passare attraverso le maglie della censura, che fu pubblicata in Occidente (Italia compresa, da Mondadori) nel 1968-1969. Nelle successive edizioni, in Occidente e in Russia, che sono degli anni Novanta e primi Duemila, è stata pubblicata, sotto la supervisione dell’autore, la versione completa. Di Reparto C, vorremmo citare la prima edizione einaudiana del 1969, con prefazione di Vittorio Strada. Da Einaudi sono apparse altre due edizioni, rispettivamente nel 1997 e nel 2006. [14] I primi due sono apparsi insieme ad Una giornata di Ivan Denisovich , nel volume einuadiano del 1999 citato nella nota 4. [15] Si veda la nota 3. [16] A. I. Solzhenitsyn, Kak nam obustroit’ Rossiju ? (come dobbiamo ricostruire la Russia ?), Ymca Press, Parigi 1990. Da citare, infine, anche due saggi apparsi in Francia nel 1998. Uno ha caratteri autobiografici e tocca il periodo 1974-1978, i primi anni dell’esilio: si intitola Le grain tombé entre les meules, edito da Fayard (l’unico editore che ha pubblicato per intero la Ruota Rossa) . L’altro è un saggio sulla profonda crisi politica, economica e morale in cui è caduta la Russia post-sovietica. Si intitola La Russie sous l’avalanche, ed è anch’esso edito da Fayard, l’editore francese che ha i diritti sull’intera opera di Aleksandr Isaevich. Nessuno dei due è apparso in Italia. [17] A. Solzhenitsyn, Dve veka vmeste, Mosca 2001-2001, in 2 voll. In Italia, i due volumi sono stati pubblicati nel 2007, con lo stesso titolo Due secoli insieme, dall’editrice Contropiano di Napoli. [18] Pubblicati a parte nel volume Lenin a Zurigo che in Italia, nella traduzione di Sergio Rapetti, è apparso da Mondadori, nel 1976. Il primo “nodo”, imperniato sul 1914, primo disastroso anno per la Russia del primo conflitto mondiale, è anch’esso apparso in italiano da Mondadori, nel 1972, nella traduzione di Pietro Zveteremich, con il titolo Agosto 1914. Ma si trattava della prima redazione, cui è seguita negli anni dell’esilio in Vermont una seconda ampliati e arricchita di nuovi documenti. In versione inglese la Ruota Rossa (The Red Wheel) è apparsa integralmente presso l’editore francese Fayard e l’americano Farrar, Straus and Giroux di New York. In italiano solo i due volumi sopra indicati. In russo apparirà nella edizione delle Opere in trenta volumi, in via di pubblicazione. [19] A. Solzhenitsyn, Possorit’ rodnye narody ? (Seminare la discordia tra due popoli ?”), in “Izvestija”, 2 aprile 2008. [20] La più esauriente biografia di A.Solzhenitsyn, è quella di D.M.Thomas, Alexander Solzhenitsyn – A Century in his Life, edito da Little, Brown and Company , New York-Londra, 1998. Copre gli avvenimenti fino al ritorno in patria dello scrittore. Non è una biografia autorizzata.