In attesa di una stagione di fiore e frutto di Andrea Bigalli
In questa fase storica, la gerarchia cattolica pare orientata a non valutare positivamente la pluralità di orientamenti con cui tradurre i valori evangelici e a seguire invece il modello culturale occidentale, di stampo neoliberista. Si sente bisogno di un diverso approccio che superi chiusure e scelte moralistiche per un attenzione all’uomo concreto.
Il Grande Inquisitore e il caso WelbyMi ha fatto molto piacere trovare, in copia su di un tavolo, presso una parrocchia amica, lo stesso riferimento che avevo suggerito alla mia comunità parrocchiale come spunto per la Pasqua di questo anno 2007. Ne I fratelli Karamazov Ivan propone all’ascolto del giovane fratello teologo Aliosha una sua opera, non scritta su carta ma ben chiara nella mente. Immaginando un ritorno del Cristo, un Cristo silenzioso ma sempre efficace nel venire incontro alle sofferenze umane e alla morte operando segni di guarigione e di resurrezione, egli racconta di come il Grande Inquisitore, a Siviglia, negli anni appunto della Santa Inquisizione, reagisca all’incontro con il Salvatore. Fattolo imprigionare, lo visita nottetempo in carcere: ne segue un monologo affascinante, in cui l’Inquisitore rimprovera a Gesù un atteggiamento di misericordia, da cui deriva una libertà umana che in realtà impedisce alla Chiesa di dirigere le coscienze come potrebbe fare, assai meglio di quanto non riescano a fare gli esseri umani stessi. Si delinea la possibilità che l’Inquisitore faccia andare al rogo Gesù: ma in un soprassalto di pietà lo libera, lasciandolo andare nella notte. Prima di scomparire nel buio, Cristo bacia sulla bocca, all’uso russo, il Grande Inquisitore. Il racconto (inserzione di alcune pagine nel testo sterminato del grande scrittore russo) risente sicuramente della polemica di Fiodor Dostoevskij contro la Chiesa cattolica; in questo contesto storico vanno collocate le sue argomentazioni di critica al cattolicesimo romano. Ma leggere di un’autorità cattolica che afferma la necessità di subordinare la libertà personale non tanto al Vangelo e alla signoria dello Spirito, quanto ad istanze gerarchiche, determinate da logiche umane per il governo di una dimensione umana incapace da sola di dare un senso a se stessa, ha fatto pensare a molti, di quelli che conoscono questo testo, alla fase storica che sta vivendo buona parte dei cattolici italiani.
Forse il termine adatto per raccontare il loro stato d’animo è disagio: anche sconcerto va bene.
Le esperienze conciliari
Chi proviene dalle esperienze di stampo conciliare, chi si è formato in tale contesto, fa fatica a riconoscere la Chiesa a cui pensava di appartenere. Essa sembra essersi trasformata in una realtà conservatrice, in cui aumenta l’omofobia, ci si sofferma sempre molto sui temi di morale sessuale ma non si dedica un’attenzione analoga a quelli legati alle problematiche della pace, della giustizia, dell’etica sociale, della nonviolenza, governata da una gerarchia che tende ad imporre la propria visione senza porsi in chiave dialettica, imponendo aut aut ai politici – in primis a quelli cattolici – chiamati a legiferare, qualora abbiano intenzione di farlo secondo istanze contrarie alla dottrina cattolica, mettendo in dubbio l’autonomia del temporale dallo spirituale.
Come fatto emblematico di tale sconcerto possiamo segnalare il caso di Piergiorgio Welby, a cui sono state negate le esequie religiose dopo che egli ha, a più riprese, richiesto che si interrompesse la linea terapeutica con uso di respiratore artificiale, fino a quando non si è venuti incontro alla sua volontà ponendo fine alla sua esistenza, ma con un atto illegale. Il caso è stato valutato non come di accanimento terapeutico (su cui la dottrina cattolica non è d’accordo), ma come eutanasia: da qui il rifiuto ai funerali religiosi, consentiti da Welby, ateo, per rispetto ai propri congiunti, cattolici. Ma al di là della valutazione teologica del suo intendimento, quel che ha addolorato molti cattolici è stata appunto la decisione del Vicariato di Roma, che fa capo al cardinal Camillo Ruini, di non concedere di celebrare in chiesa i suoi funerali. Si è molto discusso se questa decisione non si traducesse in una mancanza di pietà, che in altri casi non è mancata: altri suicidi sono stati celebrati tranquillamente in forma religiosa secondo la prassi ormai consueta e qualcuno ha notato che ai funerali di Pinochet non mancavano prelati, per quanto l’estrema gravità della sua condotta di vita non penso possa essere messa in dubbio. Avrei voluto che una scelta così grave, che ha ferito i congiunti cattolici di Welby (in particolare la madre e la moglie), fosse stata presa dall’ex presidente della CEI dopo averlo conosciuto personalmente, dopo un confronto faccia a faccia sulle sue posizioni, come farebbe qualsiasi parroco che si prenda responsabilità nei confronti dei suoi parrocchiani. Il caso era ed è complesso, penso voglia la saggezza dell’esperienza interpersonale di comunicazione, il guardarsi negli occhi…questo funerale poteva essere una grande occasione per confrontarsi; Ruini stesso poteva assumere un ruolo interlocutorio presiedendo di persona le esequie, spiegando i motivi del disaccordo con una scelta ritenuta non giusta. Come molti altri, nemmeno io capisco perché si è arrivati a coinvolgere una persona in una questione dottrinale, passando oltre al suo diritto di essere considerato di fronte al giudizio divino accompagnato dalla presenza e dai segni della Chiesa, che sempre deve testimoniare la misericordia divina e non i limiti di quella umana.
Una Chiesa appiattita sul modello culturale occidentale?
I richiami della Conferenza Episcopale Italiana sui temi morali e politici spesso trovano argomentazioni generalizzate, che non si possono applicare secondo una logica partitica ristretta, ma nel susseguirsi dei pronunciamenti si può fare un’esegesi certa anche quando i riferimenti non sono chiarissimi: il tema ricorrente, fino all’eclissi di qualsiasi altro argomento, della difesa della famiglia attraverso la non opportunità di una legislazione che sancisca diritti per coppie omosessuali e di fatto, è uno degli esempi di come invece si assista ad una parzializzazione del magistero in chiave politica. Nel contesto italiano le affermazioni pontificie e le loro contestualizzazioni, da parte della presidenza della CEI, si traducono di fatto nell’appiattirsi delle indicazioni etiche dei vescovi sulle visioni politiche di destra, sovente di quella più radicale. O viceversa: i politici di centrodestra, anche quando personalmente seguono stili di vita non consoni alla dottrina ecclesiale, sostengono in maggioranza che le loro tesi etiche di riferimento corrispondono a quelle cattoliche. Questa appropriazione partitica della dottrina morale ecclesiastica può avvenire perché su altre questioni, in cui l’ideologia neoliberista tipica della destra anche italiana sostiene tesi altrettanto inaccettabili per la dottrina sociale della Chiesa, i toni delle dichiarazioni dell’episcopato non sono altrettanto netti ed inequivocabili. I vescovi poi non sconfessano tale appropriazione: Berlusconi dichiara pubblicamente che non si può essere cattolici e di sinistra e tutti tacciono. Tutela della vita non può significare soltanto l’attenzione a contrastare aborto ed eutanasia; ci sono questioni connesse alla qualità della vita che chiedono prese di posizione altrettanto energiche, come produzione e vendita degli armamenti, conseguenze della economia di guerra con i mostruosi investimenti nel militare che sottraggono risorse ai poveri della Terra, comunicazione positiva tra individui soprattutto nella relazione pedagogica, peso dei fattori economici in realtà che non possono essere considerate solo in ordine al mercato come i farmaci o i beni naturali come acqua ed energia…La questione ambientale vede la Chiesa cattolica troppo poco attenta: l’urgenza dei problemi richiederebbe appelli etici duri e disturbanti, ma necessari e autorevoli. L’equidistanza necessaria per il ruolo di intermediazione che la Chiesa deve rivestire a livello internazionale giustifica il silenzio del pontefice di fronte alla politica internazionale del presidente Bush quando lo ha ricevuto in udienza durante la sua visita a Roma? Eppure in altri casi i toni sono stati precisi quando si è trattato di sollevare questioni inerenti al rispetto dei diritti umani o alla responsabilità nello scatenare una guerra…
Molti degli elementi fino adesso presentati non rientrano in una chiave di interpretazione meramente politica. Sembra non ci si stia accorgendo, da parte vaticana, che il relativismo etico che tanto – e a ragione – preoccupa la teologia ufficiale, si traduce nel contesto mondiale in neoliberismo, contro cui però non si notano requisitorie o condanne degne di attenzione. Eppure è l’ideologia corrente che produce più danni, a persone, culture, ambiente.
Una fase etnocentrica?
E’ come se si fosse tornati ad una fase etnocentrica dell’azione della Chiesa: il fulcro culturale e di lettura degli eventi storici rimane per lo più nordoccidentale e fa interpretare molti dati in una dimensione ristretta. Quel che è accaduto con le teologie delle Chiese non europee, represse quando non sufficientemente “romane” nei loro assunti, si è verificato, ovviamente, anche con la morale. Così ci siamo forse giocati anni preziosi di elaborazione teologica, non dando strumenti adeguati a studiosi a cui abbiamo chiesto l’uniformazione a criteri di studio occidentali, senza favorire percorsi autonomi. Che avrebbero notevolmente arricchito una teologia chiamata ad essere realmente cattolica, cioè universale: le Chiese sono state una delle prime realtà a globalizzarsi e in questo trovano grande forza, perché possono affrontare la contemporaneità in una pluralità di elementi di raffronto e di analisi. Forse in questa prospettiva di ricerca interculturale troveremmo elementi nuovi per affrontare la questione del rapporto tra cultura e natura, legge naturale e istanza di evoluzione etica che molto affligge i rapporti tra teologi e filosofi. Si pensi ad esempio a quanto si è discusso sul concetto stesso di famiglia: il dibattito mostra come tale concetto resta orientato su modelli europei, non riesca a sollevarsi per porsi sul piano del contesto globalizzato. Cosa significa parlare dell’amore che fonda il matrimonio come espressione di quello divino pensando che buona parte – forse maggioritaria – dell’umanità accede alla vita di coppia senza aver potuto scegliere il proprio coniuge, dato che le nozze sono pianificate dai genitori? La generazione dei figli si vive dappertutto secondo la stessa logica? Le questioni legate alla contraccezione incontrano lo stesso contesto culturale? Perché nella chiesa cattolica non si è più in grado di sollevare la questione dell’uso del preservativo per motivi di ordine sanitario, come è urgente nei paesi flagellati dall’AIDS, dove ha sicuramente senso che la questione venga posta? Mi piacerebbe che nelle riflessioni legate alla condizione della famiglia italiana uscisse come elemento di analisi il dato dell’aumento del 600% dei delitti intrafamiliari negli ultimi 5 anni, da porre accanto all’altro dato che la violenza su donne e minori avviene per lo più all’interno della cerchia di coloro che compongono la famiglia stessa. Non esistono modelli assoluti di famiglia, tutti devono essere messi sotto esame per capire se sono adeguati al benessere integrale delle persone. Mi piacerebbe più criticità da parte cattolica nei confronti del modello tradizionale euro\nordamericano, che rischia spesso di essere una educazione all’egoismo e al culto di sé, molto funzionale alla nuova etica del bisogno di consumi di stampo neoliberista.
Da questo punto di vista l’attenzione al dato personalista, in cui trovare elementi sugli aspetti relazionali e della sessualità, deve essere affiancato ad una sensibilità sociale, che tenga conto di come gli individui debbano affrontare la pressione valoriale, in senso positivo e negativo, del contesto culturale a cui appartengono. Alcuni temi di morale familiare godrebbero della possibilità di evoluzione in chiave interetnica, quando venissero affrontati tenendo conto di letture culturali diverse. Il confronto e i percorsi per realizzare ciò sarebbero comunque utili, anche quando le visioni di fondo restano distanti. Personalmente non ritengo valido il modello familiare poligamico per un sacco di motivi diversi, ma quanti si sono presi la briga di farsi spiegare da chi lo sostiene perché lo ritiene ancora un modello valido? Sulla condizione della donna quante musulmane siamo stati ad ascoltare? O le consideriamo semplicemente represse, vittime di una cultura che subiscono passivamente? La parola d’ordine a riguardo resta “reciprocità”: è un concetto che mette ancora molta paura. In campo cattolico qualcuno lo ritiene condizione di transito verso il relativismo, eppure è l’approccio alla relazione capace di mettere in crisi i presupposti di ogni fondamentalismo. Postula la necessità del dialogo e del confronto; sostiene la validità di questi ultimi anche quando ci si confronta con realtà che non necessariamente devono essere condivisibili e condivise; introduce il paradigma basilare della costruzione della identità attraverso la comunicazione, nella prospettiva di rafforzarla, proprio perché la si elabora di continuo mettendola alla prova con le convinzioni altrui.
La comunione e la verità
Si pensi alla dinamica con cui si vive ogni forma di identità: per esempio quella con cui ci si relaziona con la propria confessione religiosa. Siamo di fronte a percorsi di vita spesso affascinanti, in cui i fattori familiari, della cultura dominante, del contesto storico, si intrecciano con quelli dell’esperienza, la dimensione razionale si pone in dialettica con quella emotiva e della relazione. Un’acquisizione complessa e articolata, che ha influenze significative sull’ambito culturale e quindi del ruolo sociale. Uno degli errori per me più fastidiosi del pensiero laico sta nel suo confrontarsi con i membri di una religione come se questa annullasse le differenze di pensiero che inevitabilmente si producono all’interno di realtà storiche di tali dimensioni. La negazione della complessità nell’identità di fede è forse frutto di molto dogmatismo religioso, ma non rende ragione di quanto possano essere articolate e differenti le posizioni politiche, etiche, sociali e anche dottrinali tra i membri di una stessa comunità. Il Nuovo Testamento mostra quanto la diversità abbia segnato la vita delle comunità cristiane fin dal loro sorgere: la pluralità degli indirizzi non ha mai pregiudicato il futuro della Chiesa, messo in dubbio semmai dal suo contrario, l’assolutismo. L’unità – idea adoprata spesso come deterrenza del dissenso – non si sostiene con l’unicità del pensiero, ma casomai sulla necessità di molte risorse, in relazione di reciprocità, per affrontare passaggi storici che vogliono la duttilità delle idee in cui tradurre principi che non cambiano, né devono farlo. In questa fase storica, la gerarchia cattolica pare invece orientata a non valutare positivamente la pluralità di orientamenti con cui tradurre i medesimi valori. Lo si è visto con chiarezza con il referendum sulla procreazione assistita di pochi mesi fa, conclusosi con il dato schiacciante di una astensione massiccia (come nelle indicazioni della CEI), oltre il 75%: in quella circostanza il dibattito interno alla Chiesa ha visto passaggi aspri, con punte di autoritarismo (le note della segreteria CEI sull’obbligatorietà per i cattolici della scelta dell’astensione) e toni, in qualche caso, decisamente deliranti (“se vai a votare sei complice di un omicidio”: messaggio diffuso in posta elettronica da un gruppo cattolico). Se il fronte referendario, in alcune componenti, non ha dato prova di diversa capacità di confronto (penso alle dichiarazioni di Marco Pannella sulla “militarizzazione” delle parrocchie a favore dell’astensione: ciò fa capire quanto poco si sappia della vita nelle comunità cattoliche), bisogna poi annotare che la costituzione dei grandi cartelli di associazioni cattoliche, elemento che ha caratterizzato anche la realizzazione del “Family day” per la richiesta di adeguate politiche per la famiglia (in realtà dimostrazione di forza avversa alla realizzazione di una legislazione per le coppie di fatto, omosessuali e non) mostra una monoliticità del mondo cattolico che in realtà non esiste. Un conto sono le tesi di maggioranza, un altro ciò che si sostiene su valori fondanti, che non si possono non pensare condivisi (chi può affermare di essere “contro” la famiglia, quando questo termine è presentato con elementi generici?), ma che si possono mettere in atto e tutelare secondo dinamiche diverse. Esempio. Lasciando a latere, per un momento, la questione delle coppie, una legge sui nuclei solidali che garantisca diritti – per l’assistenza, l’ottimizzazione delle cure, il mutuo aiuto – per un gruppo di anziani che decidono di vivere insieme o una comunità di assistenza per soggetti fragili, sarebbe contraria alla dottrina cattolica sulla famiglia?
Alcuni di noi tacciono
In altri termini, in questo momento in ambito cattolico molti sentono la mancanza di un approccio autenticamente pastorale a ciò che non è Chiesa e un dibattito interno che non releghi le opinioni di minoranza nel ghetto delle idee di cui assolutamente non si può trattare. Ammesso, su alcuni temi, che di minoranza si possa parlare: sull’omosessualità, per esempio, o sullo status dei divorziati risposati, la maggioranza dei cattolici, anche i praticanti, ha opinioni discordanti dalla gerarchia, affermano molti sondaggi. E tra i vescovi italiani stessi il pensiero non è così univoco come la dinamica di lavoro della CEI (la prolusione del presidente traccia le linee della discussione: ma spesso ne definisce già termini e conclusioni) dà da pensare. La Chiesa cattolica avrebbe tutto da guadagnare nel riattivare un dibattito interno, che tenesse conto delle sue diverse anime, senza silenziarne nessuna: perché tutta questa paura della dialettica, ad intra e ad extra? Il dissenso non viene proibito in virtù di una manifesta volontà di censura – che a volte si attiva, e dolorosamente, ma forse non quanto desidererebbe buona parte della gerarchia vaticana – bensì affidando questa funzione alle dinamiche stesse di appartenenza. Alcuni di noi tacciono non per paura ma perché sembra essere in gioco la comunione ecclesiale: è la cosa più difficile da spiegare, soprattutto ad un non cattolico. E’ come se fosse necessario affrontare un grave problema all’interno della propria famiglia: si sa che ciò è ineludibile, ma si sa anche che si deve mettere in conto la difficoltà di farlo preservando vincoli affettivi e di identità, la comunione e la verità, e tutto nel contempo. Quanto ho affermato non nega la necessità di franchezza e di onestà. Anzi. Lo spirito critico è una forma di amore per ciò a cui si è legati: vuole capacità di mediazione notevoli e tutta l’intelligenza del caso. Non se ne può fare a meno perché senza di esso ogni realtà si immobilizza, decade e muore. L’autoreferenzialità è uno dei morbi più pericolosi per ogni realtà umana. Ma non è facile mettere in discussione i parametri con cui si è assimilata una identità, che poi si nutre di una rete di relazioni. Appartenere alla Chiesa significa fare la fatica di procedere insieme a molti altri: in dei momenti trovare il passo altrui è importante per non isolarsi, in altri l’isolamento è un prezzo necessario da pagare per il servizio che si fa alla collettività con la propria verità, che magari non è certo esauriente, ma rappresenta il proprio contributo alla vita collettiva. Basta che non si mettano bavagli in nome della carità verso i membri della propria comunità. La carità più urgente è quella della verità, anche se bisogna imparare a dirla: con amore, quindi con umiltà. In questo tempo difficile la cattolicità è destinata all’accrescersi del conflitto interno: i dati sono indiscutibili, le istanze che si confrontano non facilmente conciliabili, dalla sfera dottrinale a quella sociopolitica. Avremmo bisogno di un ritorno ai nostri principi originari, quelli evangelici, più che sospirare per l’assenza di personalità egemoni che si carichino addosso il peso di una sintesi sempre più difficile da operare. Il problema è dialogare tra le diversità che costruiscono il mondo cattolico, non far finta di essere tutti uguali, imporselo per principio o imporlo per forza. Abbiamo bisogno di linguaggi nuovi, verso il mondo ma anche interni alle Chiese stesse. Se non li troviamo, la Chiesa non sarà più capace di comunicare: le piazze piene per gli eventi straordinari non sono garanzia in tal senso, anche il rock aggrega a milioni. Se chi non è organico alla realtà ecclesiale viene ad una celebrazione liturgica, quanto può capire di quanto vogliamo comunicare? E ciò che sta al centro del messaggio cristiano è addirittura la salvezza umana e creaturale… La domanda sull’efficacia della comunicazione di fede va valutata nella ferialità, quando l’ordinario, sovente doloroso, della vita mette di fronte alla necessità di capire il senso di quanto si sta sperimentando. Non so quanto la maggioranza delle persone ci intenda in grado di comunicare tale senso. E’ certo che molto di quanto stiamo discutendo – dibattiti su tesi morali complesse, questioni di ordine politico – non è ritenuto importante per comunicare tale senso. Alla Chiesa si chiede la possibilità di acquisire e rafforzare una propria spiritualità, inserita in una esperienza viva e vitalizzante. Non basta fornire dei servizi sociali; o essere agenzia etica dei costumi: non è mai stato questo il nostro compito storico principale. Bisogna testimoniare una comunicazione possibile con il Divino: e se questo non è inteso come tale, sia compreso come appello al trascendente, a ciò che trascende il contingente delle biografie. Per questo abbiamo necessità di ritrovare i termini di un ecumenismo interno ad ogni singola Chiesa, e in questo momento ciò riguarda in particolare la Chiesa cattolica.
La svolta di Papa Ratzinger
I due anni di pontificato di Benedetto XVI ci mostrano infatti una Chiesa cattolica con precise nostalgie: affermazioni sulla dimensione conservativa, e non profondamente innovativa, del Vaticano II (tesi storicamente del tutto discutibile), concessioni al tradizionalismo con buona libertà di celebrare in latino, adoprando il messale precedente alla riforma liturgica di Paolo VI, le recenti affermazioni – a mio parere, di grande gravità – sulla impossibilità per le Chiese Ortodosse e della Riforma di definirsi tali al pari della Cattolica. Il suo viaggio in America Latina, per il convegno della Conferenza Episcopale dell’America Latina, ha visto Joseph Ratzinger dichiarare ormai trapassata la Teologia della Liberazione. A ciò è preceduta la messa sotto inchiesta del teologo salvadoregno Jon Sobrino, già amico e riferimento del vescovo martire Oscar Arnulfo Romero: le accuse di insegnare una cristologia che tiene più conto del Gesù storico che di quello conosciuto per fede, comporta la notazione della necessità di porre a lato una riflessione sulle conseguenze esistenziali, sul piano storico sociale, dell’insegnamento e della prassi concreta del Cristo. Tutte le prospettive pastorali nate a partire da un modo diverso di leggere la sua figura, sottolineando come Gesù ha vissuto nel contesto della sua epoca, nella concretezza dei comportamenti necessari a fronteggiare le realtà negative del tempo, sono relegate nell’angolo del sospetto. Tutto il metodo storico-critico, negli ultimi vent’anni utilizzato per interpretare la Scrittura e analizzare la figura di Gesù Cristo, è messa tra parentesi nel libro – alla cui uscita si è premesso che non si trattava di un testo magisteriale, suscettibile quindi di critiche e rilievi – di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, dove si tratta della figura del Cristo sul piano della fede, senza toccare i punti controversi che gli studi cristologici hanno sottolineato come problematici (ad esempio, la questione dell’autocoscienza progressiva del Figlio di Dio di essere tale).
La Chiesa nell’iniziale pontificato Ratzinger assume istanze già dichiarate nel suo lungo servizio come prefetto della Congregazione della Fede, e sono istanze che potrebbero essere accusate di radicalizzare una tendenza a diffidare dall’umano, consegnando all’autorità ecclesiastica un ruolo di tutela dallo spirito del mondo, come se la Chiesa dovesse difendersi con gli strumenti con i quali viene attaccata, come se i cristiani dovessero essere preservati dalla realtà a cui appartengono, non bastando lo Spirito con cui vengono inviati in missione. La linea più pastorale, incarnazionista, vede la necessità di mostrarsi in atteggiamento di reciprocità nei confronti della contemporaneità, e non è affatto disposta a cedere sui valori ma vuole comunque comunicare il senso del rispetto e dell’attenzione: adesso sembra messa in disparte. Nell’ormai celebre discorso tenuto a Ratisbona da Benedetto XVI, i commenti si sono per lo più accentrati sulla parte in cui si discetta dei rapporti con l’islam e che hanno provocato forti reazioni da parte del mondo islamico più radicale. Non entro nel merito di tali reazioni, ma annoto che nella sua seconda parte, il discorso di Ratzinger trattava della necessità del recupero del senso culturale del cristianesimo. La questione è seria: da un lato è forte la percezione di una scissione tra la razionalità – in un’epoca di predominio dei linguaggi tecnico- scientifici è ovvio che ogni umanesimo trovi le sue difficoltà a illustrare i propri elementi – e fede, nel rischio costante di uno scientismo disumanizzante; dall’altro il cattolicesimo rischia una vera e propria deriva di stampo irrazionalista, con sospetti di ritorno ad elementi superstiziosi, miracolistici o del devozionismo avulso da ogni riferimento di dottrina. La fede non può essere totalmente spiegata, ma non è neanche una dimensione di ordine soltanto sentimentale, che si esaurisca sul piano del “sentire” personale: si possono condividere i tratti comuni della ricerca di un senso all’esistere, si può rendere conto della speranza che ci è stata donata, secondo la bellissima frase della prima Lettera di Pietro. A meno che, come appare per molti credenti, non si comunichi l’arroganza di chi ha trovato, senza bisogno di verifiche o condivisioni, nell’autoreferenzialità di chi si sente un gradino più su, il riferimento al pronunciamento in cui si scredita lo status ecclesiale delle altre confessioni cristiane corre il rischio di essere compreso in questa logica. In un momento storico in cui occorre pensare una più stretta collaborazione tra i credenti in Cristo, tra coloro che credono in Dio, per fronteggiare i problemi drammatici del momento, si screditano gli elementi di piena dignità comune, presupposto irrinunciabile di ogni dialogo degno di questo nome.
Un cristianesimo “ellenistico”?
Anche il riferimento, a Ratisbona, al recupero della componente ellenistica nel cristianesimo, ha lo scopo di fondarne l’assetto filosofico in una prospettiva razionale, tale da giustificare il presupposto che il cristianesimo sia la forma migliore di pensiero per dare struttura etica ai sistemi umani. Quel primato etico che la Chiesa possedeva in virtù della propria statuizione soprannaturale, si tenta di recuperarlo in un contesto secolarizzato come paradigma di autorità culturale. Sono perplesso di fronte all’utilizzazione dell’impianto filosofico classico: mi chiedo come si possa prescindere dall’apporto di altre scienze dell’analisi umana per affrontare le molte questioni legate ai contesti sociali, anch’esse ambito della teologia perché realtà umane. La questione fu sollevata con il processo alla Teologia della Liberazione, verso la metà degli anni 80, accusata di adoprare gli strumenti della sociologia marxista, e ribadita nell’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, in cui si presenta il ruolo irrinunciabile della filosofia neoscolastica per gli studi teologici. Ma al di là di quale possa essere il presupposto teorico per la teologia, la questione è se si può, in nome della condizione razionale della fede, sottacere la componente mistica del cristianesimo. La mistica unisce le fedi e relativizza le religioni, nella impossibilità di dire razionalmente un Dio che sta oltre l’umano, pur dando Egli di sé – a tutti gli esseri umani, secondo i diversi livelli della Rivelazione – elementi per una conoscenza che è autentica, ma nel confronto con l’Infinito e quindi in un divenire che assolutizza il proprio status di erranza, di esodo perenne. In questa esistenza, diretti verso il tempo definitivo in cui si compie il destino di ciò che è creato, siamo tesi ad un compimento che, sappiamo bene, travalica l’umano eppure ne è al contempo costitutivo. Questo postula la necessità della dialettica – ma non solo su di un piano solo mistico o soltanto della ricerca razionale – con le altre realtà di ordine religioso: un solo nome di Dio non ne esaurisce la potenzialità di conoscenza, il non poter dire Dio ci chiede non certo di moltiplicare vanamente le parole ma di dire insieme, di condividere quei frammenti che conosciamo. Perché nemmeno quelli che sono di Cristo possono dire di possedere il Divino; anche noi siamo avvolti dalla Nube da cui Dio comunica ma che Lo cela, perché la pienezza di Dio non è compatibile con i termini di questa esistenza. E ricordiamoci che l’essenza dell’inconoscibilità è la libertà del credere: dimensione questa imprevedibile, non a caso da comprendere nella prospettiva del dono. Qualcuno lo riceve in una forma evidente, esplicita, altri si affidano a prospettive che rimandano a Dio secondo passaggi più complessi ma non per questo meno ricchi. Ecco il nodo: il valore dell’esperienza di chi non è in una prospettiva di fede. La linea dottrinale vigente rischia di affermarne l’inferiorità, l’incapacità etica, l’insufficienza nella risoluzione di senso, il limite nella comunicazione. La linea pastorale affermerà (e ricercherà) quanto è prezioso, perché è difficile vivere nella nudità delle sicurezze, cercherà il meglio di un mondo che non va demonizzato perché è per esso che il Cristo consegna se stesso alla morte: per condividere e quindi salvare.
Siamo sicuri che chi non vuole celebrare il proprio amore con riti o obblighi di legge si ami meno, o di un amore più fragile, di chi lo vive nella dimensione dell’affidarsi a Dio? Perché nella polemica recente sulle unioni di fatto si va insinuando un pericolo: quello di considerare il matrimonio, religioso o civile (vista la implicita posizione CEI sul valore anche del rito civile per i non credenti), già di per sé come qualificante un rapporto. Due non credenti che danno qualità al loro vivere insieme sono comunque meno di due credenti coniugati che però massacrano la bellezza del vivere coniugale con comportamenti inadeguati? Credo che ciò si possa affermare senza sminuire assolutamente il valore dell’unione sacramentale: ma per far questo non occorre sminuire l’amore umano, senza cui non sussiste neanche il sacramento.
Di cosa ha paura la Chiesa?L’argomento su cui la Chiesa dovrebbe essere più esigente con il mondo laico è quello della definizione dei fondamenti dell’etica non teista: ciò in cui crede chi non è credente (in Dio). Non è proprio il caso di svilire questo tentativo di definizione, sancendo per principio la debolezza di fondazione al di fuori del soprannaturale, perché abbiamo bisogno di interlocutori sicuri della propria identità, capaci di darsi un sistema etico il più definito possibile, che riorganizzi dati, valori ed esperienze già possedute, anche se in urgenza di rinnovamento (come per le Chiese). Ribadisco: bisogna ricominciare a confrontarsi. Anche con le realtà che ci sono più ostili. Chi ci dice che chi ci contesta di più non lo faccia proprio perché ha bisogno di quanto afferma il Vangelo su tante condizioni di vita, ha necessità di incontrare quella compassione che definisce come completare l’amore per Dio attraverso l’amore per il prossimo, mettendoci in condizione di riconoscere chi è questo prossimo? Si rilegga a riguardo la parabola cosiddetta “del buon samaritano” nel vangelo di Luca: o la compassione divina si traduce nella compassione per chi è colpito ai bordi della strada o si tradisce la logica di un Dio che vuol convertire accogliendo. Come mostra lo stesso Luca nella parabola del figlio prodigo e del Padre che possiede “viscere (femminili nell’originale greco) di misericordia”, tali da poter rigenerare il figlio che se ne va, ma pure quello che resta e concepisce sé stesso come un servo. Entrambi devono essere educati a recuperare la dignità di figli; che tutti abbiamo terribilmente bisogno di conoscere e diffondere. Non lo si può fare disprezzando alcunché: negare la dignità altrui è negare irrimediabilmente la propria.
Urgente quindi riallacciare contatti con alcuni gruppi in particolare. Tutti coloro che abbiamo sovente bollati con l’idea che vivano una vita “irregolare”, per esempio. Metterei in cima all’elenco le persone omosessuali. Non si può continuare a comportarsi come se non esistessero, lo dico da tempo. Cercando di calarmi in certa mentalità ecclesiale, che però non mi appartiene, non capisco perché una condizione di dialogo sia necessariamente da considerarsi una legittimazione: fermo restando che per me ogni condizione umana è da considerarsi degna di dialettica, anche nelle proprie negatività. Essere interlocutore significa divenire partecipe in toto delle logiche altrui? Di cosa ha paura la Chiesa? Forse il problema è quello di un rimosso che la riguarda molto da vicino, vista la condizione omosessuale di una parte del clero. Se l’apparenza storica ci consegna l’immagine di una Chiesa mai così poco messa in discussione, forse mai così in grado di condizionare la vita politica del Paese, in realtà i presupposti per interpretarne una fragilità consistente (e preoccupante) ci sono tutti. Una fragilità di identità. La fragilità di per sé non è un dato negativo, anzi. La nostra condizione umana ci costringe a riconoscere il bisogno della Grazia divina e dei grazie che possiamo rendere alle sorelle e ai fratelli che ci consentono di vivere. Ma quando la fragilità è negata, disconosciuta, diventa pericolosa. Spesso si traduce in una radicalità che non è frutto di nessuna virtù, ma della paura. Una cecità senza nessuna prospettiva di salute, che spinge a escludere, rinchiudere, negare. Diminuisce il numero di coloro che vogliono porsi in dialogo con la Chiesa, aumenta quello di coloro che lo fanno strumentalmente, perché ci leggono come una istituzione di potere e di tale potere vogliono approfittare. Se fossi uomo dell’autorità, chiederei con urgenza un’inchiesta sui rapporti tra Chiesa e massoneria, tra istituzione ecclesiale e poteri più o meno oscuri, senza parlare di gruppi cattolici, anche molto influenti, che agiscono loro stessi con dinamiche di ordine massonico. Inoltre, il problema del rispetto dei diritti umani è urgente anche all’interno della Chiesa, tra coloro che la compongono. Come urgente è definire un atteggiamento preciso nei confronti di coloro che sono stati vittime di abusi sessuali da parte di preti da bambini, questione dolorosissima che pare esplodere con un numero crescente di casi segnalati. Sento molte discussioni su come punire i colpevoli, molto meno riflettere su come sostenere le vittime, tutelando l’integrità residua, lavorando per la guarigione, ponendosi il problema di come restituirle alla fede, qualora – comprensibilmente – l’avessero perduta a causa di quanto hanno subito. Perché la teoria delle poche mele marce non basta ad esaurire la gamma delle nostre responsabilità collettive: è stata realtà ecclesiale, non tutti sono responsabili direttamente, ma la Chiesa è un organismo unico, le sofferenze devono essere comuni, le domande su come evitare che accada ancora sono irrinunciabili e da condividere sul piano delle risoluzioni conseguenti. Proprio la teologia sulla Chiesa stessa, l’ecclesiologia, dà le sue risposte. Siamo il corpo del Cristo, ciò che falliamo ne costituisce le piaghe, la consapevolezza della misericordia necessaria al perdono deve spingere alla conversione, che è cambiamento di vita, evoluzione nella trasformazione delle mentalità per non soggiacere alle logiche oppressive della realtà peggiore del nostro mondo, della nostra identità, della nostra cultura. Prima di lamentare nei riguardi degli errori delle gerarchie, pensiamo noi, nelle diverse condizioni con cui viviamo la e nella Chiesa, a esserne sempre più compartecipi e responsabili. Il grande Primo Mazzolari affermava: “Papi e vescovi sono spesso la nostra croce. Noi siamo la loro. Gesù Cristo ci salverà insieme”. E a riguardo, un occhio alla citazione seguente: “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo e ultimo tribunale, e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce inoltre un principio che si oppone al crescente totalitarismo”. Da annotarsi, qualora si ponesse mano, un giorno, al valore imprescindibile della coscienza personale di fronte all’istituzione dottrinale. Anche valutando di chi è questa affermazione (che cito con precisione): Joseph Ratzinger (in Commentary on the documents of Vatican II, vol. V, pag. 134, a cura di Herbert Vorgrimler, Herder and Herder, 1967-1969, New York, traduzione inglese da Das Zweite, Vatikanische Konzil, Dokumente und Kommentare).
La primavera in agguato
Ho seguito la vicenda dell’inchiesta della Congregazione per la dottrina della fede sulle opere di Jon Sobrino con molta trepidazione. E’ un teologo che conosco bene, esponente di una teologia che non ha avuto paura di sporcarsi le mani con il fango della storia e ha pagato un prezzo altissimo, nella diffidenza di molta Chiesa ufficiale e nella violenza con cui si è voluto colpire una riflessione capace di sconfessare la menzogna di regimi che si fregiavano dell’aggettivo cristiano, ma lo infamavano nell’ingiustizia e nella violenza. Fu con l’intendimento principale di ucciderlo che uno squadrone della morte si introdusse nei locali dell’Università Cattolica dell’America Latina a El Salvador, di cui è docente, massacrando cinque suoi confratelli (tra cui lo stimato collega Ignacio Ellacuria) e una donna del personale di servizio con la figlia quindicenne. Si salvò perché altrove, quella sera: per caso. Molti teologi vivono in realtà difficili il loro servizio alla Chiesa: dispiace debbano essere giudicati da altri, che chiusi nelle loro accademie credo trovino difficile comprendere quanto un contesto chieda passione e coraggio. Proprio per questo credo abbiano diritto ad un ascolto particolare,ad un’attenzione capace di trasmettere tenerezza.
Sono riuscito a trovare il suo indirizzo di posta elettronica e gli ho scritto: “Carissimo professor Sobrino, sono un prete, e parroco, della diocesi di Firenze, fin dagli inizi dei propri studi in teologia partecipe e sodale con la Teologia della liberazione. Ho letto molte delle cose che ha scritto in questi anni, sulla rivista ‘Concilium’ e sui suoi libri, e le ho molto apprezzate. Volevo esprimerle il mio affetto e la mia vicinanza in questo momento difficile. Io e la mia comunità le garantiamo la nostra preghiera. Domani sera, durante la grande Veglia di Resurrezione, leggeremo un testo del suo Gesù Cristo liberatore. Con grande stima e gratitudine, le auguro una Pasqua di Resurrezione che renda ragione delle amarezze che ci decretano le logiche ristrette di questo mondo.”
Mi ha risposto. “Querido Andres: Muchas gracias por tus palabras. Que esta pascua de Jesus nos ilumine y anime. Un abrazo. Jon Sobrino” (“Carissimo Andrea: Molte grazie per le tue parole. Che questa pasqua di Gesù ci illumini e ci animi. Un abbraccio”).
La Resurrezione ci illumini e ci animi. Ci dia intelligenza e tenerezza per capire e condividere, per criticare e trovare elementi di una comunione vera. Ci dia il coraggio di cambiare quanto non è adeguato alle prospettive migliori che ci portiamo dentro, come seme che anela il suo pieno sviluppo. Degli individui come delle comunità. Nel primissimo articolo scritto per “Testimonianze” (guarda un po’, dieci anni fa…) concludevo dicendo che la primavera era in agguato anche per la Chiesa cattolica. Non ho cambiato idea. Anzi. Più ritarderà, più sarà evidente quanta forza di vita comporta in sé. Quanto vecchio tempo ci lasciamo indietro, quanta stagione di fiore e frutto abbiamo davanti.