L’assedio del nulla
di Andrea Bigalli
“Non siamo nulla”
(…)Fra i ricordi recuperati in quei giorni c’è stata anche la morte di Vittorio, il padre del mio amico Alessandro, malato di cancro, e dell’immagine che mi porto dentro dall’ultima volta che l’ho visto. Quest’uomo piegato in due, aveva un tumore terribile, che insistentemente mi ripeteva: “Non siamo nulla, non siamo nulla, non siamo nulla”. Credo che questa possa essere un’immagine seria, perché esistenziale e concreta, legata a quanto la morte rappresenta, emblematica del percorso che ci si è proposti in questo lavoro. La morte è l’assedio del nulla alla nostra esistenza, a quelle che si possono definire le nostre felicità, le nostre conquiste, il nostro pensiero; cosa può opporsi a questo nulla? (…)
Quale linguaggio per la morte
Proprio su questa dimensione di un nulla che rischia di vanificare il resto, è indubbiamente in corso nella società occidentale un enorme tentativo – più o meno consapevole – di rimozione. Si tenta di rimuovere ciò che non si può conoscere: non si ha neanche un linguaggio adeguato per affrontarlo.(…) Può accadere di celebrare un rito sulla propria morte o su quella dei propri cari in un luogo che è estraneo culturalmente; questo accade per molti funerali religiosi. In questo caso il linguaggio sarà giocoforza inadeguato: è comunque vero che da preti ci si rende conto di adoperare un linguaggio che rischia veramente di essere scaduto. La questione del linguaggio per affrontare i temi ultimi e le realtà in particolare della morte è complessa da definire. Questo è un tema molto interessante; se i temi ultimi sono affrontabili con un linguaggio che sia oltre da quello religioso. A riguardo mi viene da fare una riflessione: in realtà noi non siamo chiamati ad affrontare questi temi con un linguaggio strettamente religioso. Qui non voglio introdurre degli sdoppiamenti furbeschi, ma resta da vedere fino a che punto il linguaggio religioso adoperato dalle Chiese è autenticamente tale, cioè esclusivamente religioso. Nella nostra prospettiva è molto più importante affrontare la questione del linguaggio del testo sacro, qualunque esso sia, e in particolare della Bibbia, almeno per quanto riguarda il nostro contesto culturale. Io ritengo che il linguaggio biblico non sia solamente religioso; lo è diventato poi. Le religioni fanno un grosso sforzo per ritornare ad un linguaggio autenticamente ispirato, per ritornare alla parola sacramentale detta in quanto Parola di Dio. E la Parola di Dio non è una parola staccata dall’esistenza. Qui un po’ dissento da Wittgenstein, perché la sua famosa non dicibilità dell’esperienza religiosa (“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”), in Wittgenstein stesso trova delle contraddizioni. Egli in realtà si arresta davanti ad una domanda (quella sul limite dei linguaggi umani) e introduce una problematica: quando afferma che un linguaggio possibile sull’esperienza di Dio è il linguaggio della preghiera, fa un’affermazione che ci condanna in qualche modo all’insufficienza del linguaggio religioso, condivisibile solo nella prospettiva della fede religiosa. Quando però introduce la sua celeberrima definizione di preghiera, “pregare è pensare al senso della vita”, Wittgenstein, che è e rimane ateo o agnostico (secondo le letture critiche) ma passa ore intere in preghiera, riporta tutta la questione sul piano di un linguaggio esistenziale. Il linguaggio biblico è esistenziale, cioè rimanda alla riflessione sull’esperienza concreta e soprattutto all’essere per gli altri e l’essere attraverso gli altri. Questa è la cifra fondamentale dell’esistenza secondo il pensiero biblico, quindi secondo il pensiero giudaico-cristiano. Si è attraverso gli altri, e in questa prospettiva si è oltre la morte in questo essere per gli altri.
Tra rimozione e accettazione
A riguardo di quello che diceva Vittorio morendo, “non siamo nulla”, mi è venuto in testa un passaggio fondamentale di uno dei testi capitali del cristianesimo, conosciuto come “L’inno all’amore” e tratto dalla prima lettera ai Corinzi di San Paolo (12,31-13,13). Un testo che è uscito prepotentemente dall’area confessionale. Non so se qualcuno si ricorda Film Blu di Kieslowski, che, non a caso, trattava del grande tema della libertà, e che si chiude proprio su questa pagina della Bibbia, musicata dal personaggio principale, che attraverso la riflessione sul significato dell’amorecarità risolve la questione personale della sua libertà. Per la protagonista del film la libertà è quella di sparire, di cancellare la propria vita dopo averne sperimentato tutto il dolore nella perdita delle persone care; ella riesce a ritornare all’esistenza attraverso ciò che sottende alla prima lettera ai Corinzi, la relatività di tutto ciò che sta nell’esperienza umana all’assolutezza dell’amore. Un passaggio della lettera ai Corinzi sottolinea che: “Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e la scienza e possedessi la pienezza della fede, così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla”. Questo termine, carità, si può tradurre più propriamente, pur con l’ambiguità dell’italiano, con il termine amore. C’è una potenzialità nell’esistenza dell’essere nulla, ma questo nulla è in qualche modo controbattuto, contraddetto, dalla potenzialità dell’amore. Su questo c’è da spendere qualche parola, perché la Bibbia quando intende amore, intende un significato molto più vasto e più ampio del linguaggio corrente; nella fattispecie l’amore di cui parla Paolo è “agape”, la capacità di rendersi conto che la mia vita è legata all’esistenza degli altri, che senza gli altri la mia esistenza non sarebbe definibile come tale, non sarebbe niente. Di conseguenza arrivo a teorizzare che l’esistenza degli altri è più importante della mia, io imparo ad esistere per gli altri. Questa è la lezione di uno dei grandi testimoni del secolo scorso, Dietrich Bonhoeffer, che teorizza la dimensione della pro-esistenza come il linguaggio che riesce a mettere in comunicazione coloro che credono e coloro che non credono. Bonhoeffer parla di un tempo ultimo in cui la Parola, quella di Dio, sarà comunque intesa al di là della fede – e quindi da tutti, sarà nella pienezza dell’eloquenza – proprio perché la parola biblica è parola che chiede riflessione sull’esistenza, chiede preghiera nel senso di Wittgenstein. L’ultimo approdo, secondo me, di questa preghiera e di questa riflessione sull’esistenza non può essere che la comprensione e la necessità di questo nostro essere attraverso gli altri. Insisto molto su questo, perché, a mio parere, il mondo contemporaneo, in particolar modo quello occidentale, è in difficoltà di fronte alla dimensione della morte, quindi la rimuove o la banalizza. (…)
Ma anche la non accettazione della morte (realtà assai diversa dalla sua rimozione) presenta degli aspetti positivi. E’ qualcosa che mi è capitato di ascoltare molto spesso ed è tale da poter mettere sullo stesso piano credenti e non credenti. La sensazione di non potersi arrendere di fronte alla scomparsa di una persona, sottolinea davvero che c’è un legame capace di andare anche al di là della morte; come non ve lo saprei spiegare, ma qui io non m’arresto soltanto in un linguaggio religioso o in uno puramente escatologico, ma mi sposto su un linguaggio esistenziale, cioè di ciò che si vive, di ciò che si avverte, di ciò che si sperimenta.
Mi sono imbattuto qualche tempo fa in una frase di Kierkegaard, il quale afferma: “Gli uomini hanno per natura più paura della verità che della morte”. E se la speranza della vita dopo la morte, in qualunque senso la si voglia intendere, religioso o non, fosse davvero quella verità che sottende alla nostra esistenza? Questo comporterebbe vivere in un altro modo, in un’altra prospettiva. La dimensione etica si allinea a quella escatologica. Credo che questa dimensione dell’esistere per gli altri come unico modo per affrontare la problematica della morte e in parte anche risolverla in positivo, sia importante. Il 23 marzo, 2000 abbiamo fatto memoria del ventesimo anniversario di un testimone eloquente del secolo scorso, il vescovo Oscar Arnulfo Romero. Non avrete letto molto a proposito sui giornali, perché il sentire collettivo tende a metabolizzare fino alla scomparsa quelle figure che dovrebbero essere più presenti. Quello che in questo caso è stato rimosso è il percorso esistenziale di un uomo, che rientrando, dopo esserne uscito anche per propria scelta, nella sua cultura natale, si rende conto di cosa significhi vivere in un contesto di morte e reagisce a questo contesto attraverso una testimonianza sul valore del sacrificio per i poveri, gli altri più “altri”. In quest’essere per gli altri Romero dà risposta anche alla propria morte quando fa la sua professione di fede affermando con forza “Questi mi possono ammazzare e lo faranno senz’altro, ma ricordatevi che un popolo non lo si può ammazzare, io resusciterò nel mio popolo”. Questa è un’espressione molto bella di cosa significhi vivere per gli altri e così facendo imparare a vivere anche per se stessi. Mi fa piacere che questa è la conclusione che anche Maggiani, in “Testimonianze” (409), presenta al termine della sua intervista, quando sottolinea che l’essere per gli altri in qualche modo significa essere già proiettati al di là della morte. Questo fa parte delle retoriche della morte, di cui parlava Fabio, che in qualche modo non sono rappresentative del livello individuale e quindi rischiano di essere clamorosi fallimenti? E’ una domanda che si lascia aperta, ognuno si deve dare poi le proprie risposte. Ricordiamoci del grande tentativo operato da Ernst Bloch, anche questo parzialmente rimosso nel pensiero contemporaneo, di rileggere l’escatologia cristiana in termini laici e del dialogo fecondissimo che è nato con molti teologi cristiani, in particolare con Jurgen Moltmann. Questo dialogo ha prodotto una delle opere più significative della teologia contemporanea, “Teologia della speranza”, che riflette su un patrimonio comune di speranza, che rischia, se mal inteso, di essere mistificazione che opprime la vita dell’individuo. Però si ritorna alla questione che sottolineavo prima e se, davvero, la vita che non muore fosse la verità delle cose?
Lottare contro la morte con la fedeltà alla vita
(…)Il problema non è soltanto quello della sofferenza personale, ma di quella che ti raggiunge attraverso gli altri, quella che è veramente distruttiva è soprattutto la sofferenza che sperimenti nella morte di coloro con i quali hai dei carichi pendenti, motivi di rancori, incomprensioni. Vi posso garantire che ho visto metabolizzare molto meglio la morte da parte di persone che si sono veramente amate, piuttosto che nei casi di persone che non avevano rapporti significativi, risolti positivamente. Apparentemente dovrebbe essere più facile nel secondo caso, di te m’importa fino ad un certo punto, ho visto i limiti, ho visto le crisi, le difficoltà, te ne vai, mi lasci molti meno problemi, molti meno rimpianti, e invece la mia esperienza dice esattamente il contrario, cioè si elabora molto meglio il lutto in un contesto d’amore, che diventa un contesto positivo di ricordo, per ciò che sarà, per ciò che si avverte, secondo quella prospettiva di resistenza all’abbandono e all’oblio che delineavo prima, di quanto non accada quando ci sono state delle difficoltà di convivenza.
Cosa posso concludere con questa mia riflessione? Che i sentieri da percorrere sono difficili, ve lo dico da prete, qui siamo veramente di fronte alla dimensione dell’inconoscibile. Sono convinto che se si vive nella verità questa dimensione di finitudine, che definisce la vita, se si ha il coraggio di affrontarla, di confrontarsi con essa, e se il pensiero sulla fine continua ad essere la riflessione sul fine che può avere l’esistenza umana, anche quella rappresentata da ognuno di noi, si possono identificare le risposte che sono sufficienti a vivere in pienezza e fecondità il tempo della nostra vita, viverla nonostante la nostra fragilità, nonostante il nostro limite, anzi, trovando proprio in questa fragilità e in questo limite ciò che consente di essere per gli altri, e di conseguenza, di vivere in forma concreta la speranza di non morire. La fedeltà alla vita, ai suoi aspetti più significativi e belli, diventa lo strumento con cui lottare con la morte. Dietrich Bonhoeffer scriveva dal carcere da cui non sarebbe uscito vivo: “Penso che dobbiamo amare tanto Dio nella nostra vita e in ciò che ci concede di bene, e avere tanta fiducia in lui che quando giunge il momento, ma solo allora, si possa andare a lui con amore, fiducia e gioia. Ma per dirla franca, che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l’aldilà è, a essere indulgenti, mancanza di gusto, e comunque non volontà di Dio”.
La fedeltà all’umano diviene, nell’etica, fedeltà a Dio; la fedeltà alla vita è passione per la vita, la propria attraverso quella degli altri. Così la morte trova i suoi avversari ed essi una speranza concreta.