Paesi di confine: l’arte della convivenza
di Maurizio Bassetti
Una riflessione sulle problematiche della convivenza tra diversi
a partire dall’esempio di alcuni paesi di frontiera dove le tensioni
interetniche hanno maggiore evidenza.
«La cicogna
che vola in cielo di Tracia
non sa se quel fiume è turco o greco
vola elegante
in bianco e nero
e si posa sul minareto
e si posa sulla croce.
Si traversa la frontiera
a fatica
emigranti
in attesa sotto il sole
con nel cuore
il sorriso di un’amica
ed il sogno
della casa oltre il mare.
Li saluta
la cicogna
alta in volo
sorridendo
elegante
in bianco e nero
sia al turco
sia al greco»
Viaggiando capita spesso di attraversare zone vicine alle frontiere, regioni di passag-dal passato conteso. Proprio in quei luoghi le contraddizioni delle difficili relazioni umane tra diversi si evidenziano, balzano agli occhi prepotentemente, fanno e sulle molteplici problematiche della convivenza.
Bozen, una città con due anime
Bozen/Bolzano è forse il luogo in Italia dove la difficile convivenza tra gruppi etnici diversi si è fatu senflre di più nella storia del ‘900, dalle prepotenze fasciste al terro-rismo sudtirolese. Oggi i maggiori problemi politici e amministrativi sono risolti con un’ampia autonomia regionale, il riconoscimento del bilinguismo ecc. Ma come si vive la quotidianità? Quali relazioni tra le due «anime»?
Nella ciflà di Bolzano convivono il gruppo di lingua tedesca (concentrato nel centro e nella parte storica) e il gruppo di lingua italiana (nelle periferie e nelle zone più mo-derne), nella provincia predominano i «tedeschi», che a volte hanno pochi contatti con gli «italiani». La separazione tra i due gruppi appare la norma, a partire dai quar-tieri e dalle scuole. Le scuole sono o di lingua tedesca o di lingua italiana e gli stu-denti sono rigidamente divisi: nelle scuole «italiane» si insegna in italiano e si impa-ra il tedesco, nelle scuole «tedesche» si insegna in tedesco e si impara l’italiano e non c e nessun contatto tra le due. Llstituto tecnico commerciale (Handelsoberschule) «Kunter», ad esempio, è attaccato all’analogo istituto di lingua italiana, anzi sono in un unico stabile, ma le due scuole hanno ingressi diversi, cortili separati e nessuna re-lazione è possibile. C’è quasi una maniacale preoccupazione di salvaguardare l’iden-tità tedesca in terra italiana. È questa la strada della convivenza? I ragazzi di lingua te-desca sembrano vivere come in esilio, parlano del resto d’Italia come di un altro paese: «Come si vive là da voi?» chiede in uno stentato italiano una ragazza di Bolzano di lingua tedesca ad una sua coetanea di Firenze venuta in visita scolastica. La fio-rentina rimane perplessa: «Ma non siamo in Italia anche qui?»
Come si sentono questi ragazzi «tedeschi» ma italiani? Come si sentono tutte le mi-noranze linguistiche o etniche nei loro paesi?
Nella birreria Hopfen & Co, uno dei migliori locali di Bozen, in Piazza delle Erbe, ascolto tratti di conversazione tra due ragazze del posto: una parla italiano l’altra ri-sponde in tedesco, poi passano tutte due ora all’italiano, ora al tedesco; percepisco il superamento della barriera linguistica, una strada per il dialogo: si può parlare indif-ferentemente le due lingue senza considerare una superiore all’altra e capirsi, rispet-tarsi nella differenza, venirsi incontro…
L’istria, ponte tra Italia e Balcani
Giungendo in Istria si respira un’atmosfera particolare, si avverte di essere in una re-gione a sé, è questa una delle zone più contese del ‘900 tra ltalia, Austria, Yugoslavia, con tristi episodi di intolleranza e spostamenti di popolazioni, come dopo il i 920, di-venuta italiana, per fuggire dal fascismo, e poi nel i 945, divenuta yugoslava, per fug-gire dal comunismo.
Oggi gran parte è in Croazia e una più piccola, intorno a Koper/Capodistria, è in Slo-venia: nello spazio di pochi chilometri si passa due volte la frontiera, si cambia tre voI-moneta e scritte, ma il paesaggio non cambia, la popolazione è la stessa.
L’Istria è una penisola ricca di storia: testimonianze romane, come l’anfiteatro di Pula/Pola, bizantine, come la basilica Eufrasiana di Porec/Parenzo, veneziani, come il palazzo del comune a Capodistria, le danno una connotazione di terra ponte tra Italia e Balcani, cosmopolita e tollerante, con un passato fiero di roccaforte cristiana contro invasioni dei turchi. Paesini di costa circondati da mura, con sopra le porte teste scolpite di guerrieri cristiani a loro difesa; sull’Arco dei Balbi, all’ingresso principale all’interno la figura rassicurante del cavaliere veneziano, all’esterno testa del turco da cui difendersi.
Gli istriani sono gentili, aperti, parlano volentieri italiano, sono fieri di essere «Istriani», sentono lontane la Croazia e la Slovenia; nel censimento del 1991 in Croazia, molti di loto (il 2O%) dichiarò di essere di nazionalità «istriana» invece che croata. Come appare vana la volontà che che divide, che disegna frontiere, separa costringe popoli a vivere sotto bandiere sempre più particolari e a non sentirsi legati poi a stati creati a tavolino o con la forza. Cercare di sezionare ogni territorio per isolare la diversità risulta sempre una strada perdente, mentre sarebbe più facile e costruttivo favorire la convivenza tra diversi, ribadendo quello che Pedrag Matejevic chiamava “il diritto alla differenza”: “Confrontato alle resistenze legittime nei riguardi dell’assimilazione o della dominazione culturale dei più forti sui più deboli, dei più sviluppati su coloro che lo sono meno, il pensiero della nostra epoca ha fatto valere il diritto della differenza” (Cfr. P. Matejevic, L’Europa delle identità plurali, in “Testimonianze” 398/1998 p. 101).
La Tracia, terra di cicogne
La Tracia è una tipica terra di confine. Nell’antichità nell’orbita greca, senza essere greca, poi romana, terra di conquista, quindi cristiana, sollo l’impero bizantino, dipendente dalla capitale Costantinopoli, poi turca, sotto l’Impero ottomano. Infine nel 1920 viene divisa in due parti una greca, cristiana, e una turca, musulmana. Da una parte caddero i minareti, dall’altra i campanili; migliaia di persone si spostarono da una nazione all’altra. Solo le cicogne, che d’estate affollano quella regione, soprattutto nel delta dell’Evros al confine tra i due stati, continuano a fare i loro nidi indiffe-rentemente nella parte greca e in quella turca. Le cicogne volano sopra la frontiera senza ostacoli, invece per passare il confine greco-turco gli emigranti turchi, che arri-vano da ogni parte dell’Europa per passare le vacanze in patria, sono costretti a fare interminabili file (anche di 8 ore) di fronte a una burocrazia incredibile che ti spedisce da uno sportello ad un altro senza fine come in un racconto di Kafka.
Il confine divide una stessa terra, le stesse campagne, lo stesso popolo, ma a pochi chilometri di distanza si nota in modo stridente una profonda differenza di livello economico: ad Alessandropoli grandi supermercati ricchi di ogni prodotto occidentale auto moderne, strade lisce … ad lpsala l’asfalto molle, pieno di grinze e buche delle vie turche, i trattori, usati come autovetture, i supermercati dove trovi solo detersivi e biscotti (il resto le famiglie contadine lo hanno nel campo).
Viaggiando sulle strade greche della Tracia ti chiedi come mai ci sia accanto alla carreggiata centrale una corsia stretta delimitata da una riga continua, dove le auto più lente si accostano per far passare quelle veloci; poi in Turchia ti si aprono gli occhi: le strette corsie laterali servono per i trattori! Migliaia di trattori percorrono le strade turche, per andare a lavoro, per fare la spesa, o semplicemente per spostarsi, segno di un passo in avanti tecnologico (ormai i carri e gli animali da trasporto sono sempre meno) ma anche di un limite dello sviluppo (i contadini possono comprare un trattore ma non anche un’auto come i loro colleghi greci).
A Xanti, una delle città più importanti della Tracia greca, dove c’è stato un recente sviluppo industriale, che l’ha resa ricca e vivace, convivono etnie e culture diverse e ogni sabato mattina si confondono nel mercato settimanale. È questo un esempio di mercato multietnico dove si mischiano cristiani, musulmani, turchi, greci, Pomaks (minoranza greca musulmana di origine slava con dialetto bulgaro). Si vendono prodotti occidentali e orientali, le donne velate musulmane si accalcano intorno alle bancarelle di tessuti, larghi tendaggi colorati riparano dal sole le persone, vestite di varie fogge, che passano tra i banchi della frutta e verdura, un pope dalla barba bianca e codino tratta l’acquisto di galline vive chiuse dentro gabbie anguste, giovani ragazze chiacchierano alcune vestite all’occidentale, altre col capo coperto alla musulmana. Qui sembra possibile la convivenza; due piccole processioni passano per la stessa strada una dopo l’altra: prima cinque prelati ortodossi, due alti dignitari, con le lunghe tonache nere, le folte barbe, i copricapi e le insegne del loro rango, ricevono gli omaggi dei fedeli, gli altri tre, novizi col capo scoperto, seguono in corteo; poi una famiglia musulmana, l’uomo, ben vestito e con barba, avanza davanti, lo seguono due donne con le vesti lunghe e il capo coperto (le mogli), poi tre bambini e una giovanetta con il fazzoletto in testa (i figli). Mi sembra bello e naturale che possano convivere sotto la stessa bandiera.
Tangeri, città da Mille e una notte.
Lo stretto di Gibilterra divide due continenti ma anche li unisce: la traversata è semplice e non ha mai ostacolato invasioni e contatti; oggi in due ore si va da Algeciras a Tangeri in comodi traghetti, tagliando in diagonale lo stretto, accompagnati dai delfini con alle spalle la rocca imponente di Gibilterra, mentre le onde s’incontrano e il Mediterraneo bacia l’Atlantico. Da ogni sponda si vede l’altro continente e i marocchini giungono facilmente in Europa anche clandestinamente.
Eppure quando entri nella Medina di Tangeri sembra di tornare indietro nel Medioevo, di entrare in una fiaba delle Mille e una notte. Non solo per le antiche costruzioni, il dedalo di stradine, ma anche per il modo di vestire e di vivere che contraddistingue i paesi arabi e orientali più in generale. Lunghe tuniche, fazzoletti colorati, veli, piedi scalzi, bambini seminudi per strada … I vicoli stretti e bui si riempiono la sera di ragazzini e bimbi che giocano, giovani staccendati, donne velate che si celano dietro le porte e le finestre, al maffino è tutto un via vai di gente colorata, piccoli negozietti, bancarelle, artigiani animano la città. Ogni giorno ancora da secoli arrivano berbere (ogni giorno da un villaggio diverso) vestite con costumi tradizionali a vendere per strada i loro prodotti. Per terra ad ogni angolo piccole donne dai volti rugosi, la pelle cotta dal sole, ma sorridenti e con i vestiti colorati della festa, offrono povera mercanzia: agli, cipolle, frutta…
Tangeri, la porta dell’Africa, a pochi chilometri dall’Europa opulenta, mantiene il suo fascino esotico, sembra quasi che il mondo arabo cerchi di serbare la sua identità, il suo aspetto diverso rispetto al mondo occidentale che lo ha oppresso e che lo minac-
cia con i suoi miti e la sua ricchezza. Non si sa però quanto le forme arcaiche che sopravvivono siano volute, esprimano una cultura diversa che s’impone, e quanto invece siano il frutto di un difficile sviluppo, di una civiltà ancora arretrata; nei quartieri più moderni del Marocco ci si veste all’occidentale, si mostrano gli oggetti provenienti dall’Europa, si progetta l’emigrazione, si modificano gli stili di vita, avanza la globalizzazione, alimentata dalle antenne paraboliche che captano le eminenti europee e diffondono un’ unica cultura.
Il turco e Del Piero
Nei paesi di confine dunque il confronto con il diverso si fa più stringente e le rea-zioni sono legate alla storia e alle tensioni politiche. La preoccupazione di essere fagocitati dai popoli e dalle culture più torti spinge alla chiusura, all’arrnccamento; antichi rancori, diffidenze, l’orgoglio di una cultura che si sente superiore possono portare alla divisione, al disprezzo del diverso. Eppure appare naturale quando due persone parlano lingue diverse e si capiscono, quando in uno stesso mercato s’incontrano razze, costumi e religioni diverse, quando si parla di calcio e a Smirne/lzmir un ragazzo ci dice che l’italia ha perso il titolo europeo di calcio per colpa di Del Piero.
Oggi il turco, l’albanese, il marocchi no, l’altro da noi lo incontriamo nelle nostre strade, in ogni città del mondo si affollano gli stranieri, le razze, le culture, le lingue sempre più si mescolano. E allora ci sentiamo dovunque in paesi di confine e la pacifica convivenza, la naturalezza del rapporto con il diverso divengono una necessità, l’unica strada possibile in un mondo senza frontiere.
Vorrei terminare queste brevi note di viaggio con una riflessione di Ernesto Balducci che ci ha indicato da tempo la via del dialogo; «Attraverso il dialogo attento tra le altre culture, messe su un piede di parità, considerate del tutto come la nostra, senza fare gerarchie prive di senso, possiamo riscoprire gli archetipi comuni, ritrovare il limite del nostro modello che presumeva di esaurire tutte le possibili forme umane e invece non è che una forma della inesauribile ricchezza con cui l’umanità può creare il proprio futuro come ha creato il proprio passato. Questo è un atteggiamento che potremmo chiamare di “etnocentrismo critico”. Esso non implica affatto la rinuncia alla nostra identità, non chiede affatto che noi imitiamo gli orientali; questo cedimento non ha senso perché il nostro rapporto con l’alterità avviene attraverso una com-prensione critica della propria identità. Comprensione critica vuoi dire anche fedeltà alle proprie identità non come ad un tutto che tutto in sé risolve, ma come a una parte che intende rapportarsi, con mutue fecondazioni, con le altri parti con cui l’umanità si è espressa.
Questo apprendimento dell’uomo del futuro noi lo possiamo fare oggi più che ieri perché i rappresentanti di queste culture “altre” girano attorno a noi, sono con noi.» (cfr.E. Balducci, I barbari nostra speranza in «Testimonianze» 323-324/1990 p. 63).