Dal concepimento alla nascita
di Giuseppe Vettori
Limiti alla scienza e alla tecnologia, in ambito bioetico, possono essere posti solo dì fronte ad una lesione certa e condivisa della dignità umana.
Si è detto che la bioetica “sarà (com’è stato in passato per la proprietà) il campo di battaglia ove si fronteggeranno gli interessi più rilevanti dei privati”. Ed è facile comprendere il perché. “La ricerca e la tecnologia hanno ampliato e modificato la possibilità d’uso del proprio corpo; hanno cambiato i confini della vita e della morte, la rappresentazione culturale del corpo e della persona, la riconoscibilità della famiglia e della parentela”
(5. Rodotà, Tecnologia e diritti, Bologna 1995, pp.144 55>)
La ricerca apre orizzonti impensabili, emergono interessi a vietare manipolazioni, a conoscere o non conoscere informazioni tratte dalle strutture genetiche. Le nuove modalità della filiazione pongono a confronto interessi diversi: da un lato un “diritto” a procreare dei coniugi, della donna non coniugata, delle coppie gay, dall’altro l’aspettativa del nascituro ad una famiglia naturale. Si parla di un diritto di morire con dignità di un legittimo rifiuto delle cure e di un diritto ad esprimersi sulle modalità del trattamento degli ultimi istanti.
Domande e fatti che esigono risposte forti, ma il legislatore è in difficoltà nell’assumere scelte sotto la pressione di contrapposti schieramenti etici e politici, sicché prevale la tendenza al rinvio, per evitare una decisione traumatica e l’esigenza di una conoscenza diffusa su questi temi è sempre più pressante.
La riflessione sullo spazio temporale ( va dal concepimento alla nascita, pone luce alcune questioni essenziali che sono enunciate negli scritti qui pubblicati. La natura giuridica dell’embrione è base di ogni scelta concreta e su di si dividono giuristi e politici, moralisti e religiosi.
Basta pensare che il frutto del concepimento può essere oggetto di un intervento di procreazione assistita (omologa o eterologa). Può essere il contenuto di un contratto che prevede la cessione del seme o dell’ovulo o l’utilizzo di un corpo. altrui, per portare a termine una gravidanza artificiale. Può essere fonte di responsabilità per chi arrechi danno alla sua evoluzione. Sullo sfondo si intrecciano interessi e desideri: della coppia, del singolo del nascituro; e al centro di tutto sta la riflessione su almeno due aspetti.
Il ruolo delle forme giuridiche e il compito delle scelte morali che in una prospettiva laica e religiosa possono formularsi i questi temi.
Provo a dire qualcosa sul primo profilo e sono molte le domande che sollecitano risposte
Il ruolo del diritto
Quale ruolo ha il diritto in presenza di culture e sensibilità diverse: deve sostituire un’etica che non c’è o porsi come ponte fra le morali? In che modo la legge deve intervenire, con regole leggere che valorizzino principi, a cui non sempre è utile giungere precetti concreti, o con divieti e prescrizioni rigide? È giusto che lo Stato definisca aspetti delicati come l’inizio della vita e della morte o è opportuno diffidare di ogni legge che si propone di creare un costume, una mentalità anzichè recepirla? Uno sguarrdo al passato può almeno farci comprendere i motivi del ritardo della consapevolezza comune su questi aspetti. Nei primi decenni del secolo le questioni che sono restate ai margini della riflessione teorica ed operativa per vari motivi.
Da un lato ha dominato in quegli anni l’idea di una scienza medica capace di tracciare i confini della propria azione e di uno Stato deciso a tutelare la salute e i diritti dei cittadini, in base a fini e mezzi prefisssati da una visione assoluta. La dimensione giuridica è stata del tutto marginale e ne è riprova il rilievo del consenso del paziente che non si è imposto, per decenni, come situazione soggettiva protetta.
D’altra parte la riflessione morale è stata condizionata da due fattori opposti. La religione ha spesso identificato i principi morali con i comandi divini, mediati dalla legge di natura o da qualche Autorità religiosa. La cultura marxista ha collocato ad un livello secondario e sovrastrutturale le relazioni più intime fra le persone. Negli ultimi anni si è assistito ad un ‘inversione netta di tendenza.
L’etica teorica ha assunto un ruolo centrale, non solo per gli esperti. Ha fornito indirizzi e giustificazioni sulle scelte personali in tema di nascita, cura, morte. Ha contribuito a liberare ciascuno da confusioni e distorsioni.
Si è potenziata, nella consapevolezza comune, l’importanza della forma giuridica nella regolamentazione di quei fenomeni. È emersa la tensione ad individuare e definire nuovi diritti e nuovi doveri
Attorno agli anni 70 il legislatore ha iniziato a prendere in esame il consenso del paziente come situazione soggettiva tutelata. Se ne tratta, in qualche modo, nella legge sull’aborto (1 978) e sul mutamento di sesso (1 980) e in maniera diffusa e precisa nella legge sulle trasfusioni (1991), sulla prevenzione dell’Aids (1990), sulla sperimentazione ed il consenso dei farmaci (1992), sulla privacy (1996). I giudici, sin dal famoso Caso Massimo (1990), hanno valutato il consenso informato come posizione soggettiva intangibile del paziente e come presupposto autonomo della responsabilità medica. La Commissione Nazionale di Bioetica, nel 1992, e la Commissione Regionale Toscana, nel 1 995, hanno elaborato documenti sul tema a cui ha dedicato grande attenzione io stesso codice di deontologia dei medici. La semplice lettura di questi testi conduce ad una conclusione importante.
I conflitti che emergono nella cura medica divengono, con ritardo ma senza più incertezze, oggetto di valutazioni giuridi-che e non più solo etiche o religiose.
Il trattamento sanitario, anche se effettuato a regola d’arte, lede, se privo del consenso effettivo, personale e non burocratico del paziente una situazione soggettiva autonoma e fondamentale. Ogni fase della cura ed anche il trattamento degli ultimi istanti di vita deve essere oggetto di specifica autorizzazione del malato, consapevole e coerente. Grava sul medico un dovere di comportamento delineato in ogni sua fase.
D’altra parte il tema della fecondazione assistita ha posto al centro dell’attenzione del giurista il problema della revoca del consenso del coniuge che abbia autorizzato la fecondazione dell’ovulo della moglie con il seme di un donatore. Assai dubbia era la possibilità di un’azione di disconoscimento della paternità e i quesiti sottoposti al giudice ponevano in sostanza due integrativi di fondo. In assenza di ogni intervento legislativo in Italia, occorreva valutare la compatibilità di norme pensate per una procreazione naturale con le peculiarità del la fecondazione assistita.
La soluzione che è emersa nelle varie sedi giudiziarie, pur con alcune diversificazioni, fa leva sul dovere del soggetto di non contraddire un consenso che ha reso possibile, in modo naturale o assistito, la procreazione.
La forma giuridica indica ancora un forte segnale per la responsabilità dei soggetti che intervengono in modi e fasi diverse sulla vita e la salute delle persone e questo è un primo dato di valutazione forte.
La soggettività del concepito
Alcuni dei contributi qui raccolti, si propongono di chiarire la rilevanza giuridica dell’embrione. I saggi di Busnelli, Barni, Zatti pongono in luce, con chiarezza e con grande suggestione, un dato conoscitivo essenziale. La verità giuridica del frutto della procreazione naturale e artificiale. Emerge non solo il valore, per il diritto, delle varie fasi di sviluppo della vita ma il problema della soggettività del concepito e l’opportunità di una sua qualificazione come persona a cui riconoscere una capacità giuridica pari a quella di chi persona lo è dopo la nascita.
Problema arduo, risolto diversamente dai legislatori nazionali, discusso a lungo ed oggetto di proposte legislative diverse. Emergono con grande lucidità i limiti di utilizzare, per la qualificazione dell’embrione, il concetto di capacità giuridica che appare inadatto a definire e circoscrivere il rilievo del nascituro. Appaiono altresì con chiarezza gli indici chiari e univoci che attribuiscono ad esso valore e tutela indubbia.
L’interrogativo sfocia nel trattamento del nascituro. È una cosa, oggetto di diritti? Può essere sufficiente un’indicazione negativa come “non cosa”? Può essere esteso ad esso l’attributo di persona umana? o è più opportuno non definire e sottrarre allo Stato una definizione da riconoscere solo alla coscienza? I saggi di Busnelli e Zatti offrono sul punto un contributo dì assoluto valore.
È solo il caso di ricordare come una scelta legislativa che definisca o meno embrione abbia conseguenze rilevanti. L’attribuzione della capacità giuridica l’embrione induce, ad esempio, a ripensare la struttura e la ratio della legge sull’aborto che ha realizzato un difficile equilibrio. Si riconosce in quel testo un rilievo so all’embrione e se ne ammette la pressione solo, in un limite temporale presenza di un pericolo alla salute, psichica, della madre che è ritenuta azione prevalente. Si può discutere sulla attualizzazione di quei precetti, ma una rigida attribuzione di soggettività bilanciamento di valori che si regge una scelta molto sofferta. D’altra parte quell’indicazione sul grado di risolvere altri problemi, dall’inseminazione eterologa, alla surroga di maternità e costituirebbe solo una premessa dogmatica tale da ostacolare la difficile disciplina di fenomeni reali che interessano già migliaia di persone.
Il richiamo è d’obbligo ad una legislazione leggera che recepisca anziché indirizzare, disciplini senza sovrapporsi ai fatti rilevanti, esprima una tolleranza fra credenze e fedi diverse in una società complessa. Ma questo richiamo va precisato per non rappresentare solo uno slogan suggestivo.
Il diritto non può limitarsi a razionalizzare l’esistente. Deve fornire strumenti per la tensione e l’azione. Se la responsabilità è arnese duttile per la valutazione dei diritti del malato e dei doveri che gravano sui “soggetti” della procreazione, l’elaborazione del concetto di dignità umana emerge dai testi nazionali e internazionali, è un contributo importante in questa delicata fase. Non solo per un dialogo fra le culture, ma come guida concreta per il legislatore. Si tratta di precisare come tale principio possa essere riempito di contenuti e come possa operare per la disciplina di alcuni aspetti essenziali.
Sul concetto di dignità umana
Si è posto in luce come si tratti di uno dei termini più usati nel la letteratura filosofica perché ad esso è affidata la risposta all’interrogativo sul limite di liceità delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. “E’ in nome della dignità umana che la bioetica riesce – qualche volta – a dire se il concetto esige di essere “costantemente ridefinito” e rischia “di svuotarsi all’interno” lasciando spesso una crisalide vuota. (F. D’Agostino, Bioetica e dignità di un essere umano, in Un quadro europeo per la bioetica? Firenze 1998, pag. 153).
Non esistono, d’altra parte, alternative facilmente percorribili. L’utilitarismo si scontra con la difficoltà di misurare dubbi morali con un’analisi di costi e benefici, il riferimento ai valori è altamente equivoco in un epoca di “politeismo etico”. Di qui l’idea di una “bioetica pragmatica” che prenda sul serio l’autonomia delle persone e “l’eticità intrinseca della ricerca scientifica”, cui va garantita la massima libertà da esercitare sotto un costante controllo (F. D’Agostino, op.cit. p.156)
Ciò non esclude affatto la necessità di tematizzare il concetto che ha appassionato i filosofi, da sempre.
Pico della Mirandola parlava della dignità come percorso, “attraverso la riforma di se stessi e la piena espansione della conoscenza” che può seguire una pluralità di strade perché “le forme (…) per quanto varie e molteplici, per diversa via, si incontrano tutte nello stesso e unico fine” Un esito mistico che è incontro con l’Assoluto senza guide precostituite da un dogma, una fede, una cultura. Ciò che conta è l’ascesa grazie ad un modello di vita fondato sulla priorità della contemplazione e della ricerca (v. da ultimo RC. Bori, Pluralità delle vie, Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 93 ss.).
Al Discorso dinamico di Pico può contrapporsi la constatazione disincantata del filosofo esistenzialista proteso ad affermare il valore della “fiamma pura della vita” “che basta all’uomo, per il solo fatto che sia vissuta, in qualsiasi modo, anche solo nella sua essenzialità e nudità cinica”.
Il valore dell’esistenza, del vivere e del sentire, integra la “pienezza della soddisfazione purché sensazioni e pulsioni gonfino l’animo”. (v. A. Camus, “l mito di Sisifo”, Bompiani, 1998, con prefazione di C. Rosso, p. XIX). Sisifo ai piedi della montagna insegna la “fedeltà superiore che nega gli dei e solleva macigni”, esalta la dignità umana di ogni essere quale che sia la sua condizione ed afferma come valore pienamente positivo anche la semplice lotta per raggiungere la cima (Camus, op.cit. p. 121)
Queste opinioni, così distanti fra loro nel tempo e nell’ispirazione, testimoniano solo che il concetto di dignità umana ha radici millenarie nella storia del pensiero e che non può essere “né banalizzato nè minimizzato”. Su di esso non potrà che continuare la riflessione di ogni sapere, incapace, comunque, di contraddire la coscienza comune della impossibilità di reidificare il soggetto che “non ammette equivalenti funzionali” (E D’Agostino, op. cit. p. 157)
La posizione del concepito è anche sotto questo profilo peculiare. Ogni progetto di vita ha un valore riconosciuto dall’etica e dai testi normativi, ma la sua tutela non può che essere rimessa ad un bilanciamento fra interessi di soggetti già nati e la dignità umana attribuita al nascituro. Un confronto difficile che può giovarsi di scarni orientamenti per l’interprete e per il giudice a cui si chiede oggi di risolvere, da sé, i conflitti più acuti in un quadro normativo carente affatto.
Si è osservato che il concetto può essere precisato proprio partendo dalle negazioni più vistose che, proprio questo secolo, ha vissuto. Si ricorda in questo volume (Barbagallo) che la bioetica moderna ha le sue radici nel c.d. Codice di Norimberga nato per reagire alle pratiche dei criminali nazisti. Altri (P. Rescigno, in Un Quadro europeo per la bioetica? Op. cit. p. 130) invita espressamente a partire dalle negazioni della dignità per ricostruirne un contenuto impegnativo e ciò implica, mi pare, una conclusione importante.
Solo la lesione certa e condivisa della dignità Umana legittima ed impone la tecnica (legislativa e interpretativa) del divieto. La capacità di dire di no, alla scienza e alla tecnologia, non può che essere il frutto di una sicura lesione di quel bene, difficile da identificare, ma scritto sicuramente nel cuore degli uomini.