I ponti che dividono
di Debora Angeli
La guerra ha segnato quest’angolo dei Balcani e oggi sembra difficile ritrovare il tifo della convivenza: solo nelle nuove generazioni è possibile rintracciare segni positivi nel buio dell’odio e dell’isolamento.
Il Kosovo un anno dopo
Il Kosovo un anno dopo. Un titolo poco originale in tempi in cui molti analisti e commentatori di vario genere e provenienza fanno a gara per raccontare la loro verità sul “caso Kosovo”. Nel mentre cerco un altro titolo – non sono infatti un’analista ma piuttosto un’osservatrice per caso che vive da tempo in quell’angolo strano dei Balcani rappresentato dall’Albania ripenso ad un anno fa. Dove ero? che cosa tacevo e pensavo e sentivo?
Agli inizi di luglio dello scorso anno i profughi kosovari ospitati in Albania avevano incominciato il loro viaggio di ritorno che si sarebbe poi concluso di lì a breve, fatta eccezione per alcune migliaia di kosovari che ancora risiedono in Albania e che molto probabilmente non faranno mai ritorno nel loro paese. Di loro non si parla quasi mai. Sono come fantasmi di cui si conosce l’esistenza ma non possono essere visti e per questo in parte non esistono. Alcuni stranieri – ricercatori e studiosi vari – vengono di tanto in tanto a cercarli come se fossero ormai una merce rara o il segno tangibile che davvero la guerra in Kosovo c’è stata.
Decido, non senza sforzo, di ripensare e ripensarmi ma andare ancora indietro con la memoria fino a quel 27 marzo mi è tuttora difficile. “Perché?” mi chiedo. Immagini faticose si rincorrono. Scopro nuovamente la mia pigrizia ma vado oltre.
Aprile 1999
Un fiume di gente si dirige verso il Palazzetto dello Sport di Tirana. In molti arrivano su trattori. È la prima volta che ne vedo in Albania così tanti. Per la maggior parte sono donne e bambini. Hanno volti sporchi e stanchi. Sanno che in quel luogo decadente troveranno un rifugio in attesa di tempi migliori. Procedono in file ordinate e forse è proprio questo loro movimento quieto e ordinato a sorprendere chi li guarda. Anch’io li guardo. So che sono venuti da molto lontano. Li seguo dentro il Palazzetto dello Sport. Dovunque è disordine e sporcizia. I molti volontari albanesi non riescono a stare dietro ai tanti problemi e richieste. In un lato del Palazzetto ci sono famiglie albanesi che sono venute a reclamare una famiglia di profughi da portare a casa. “Che strani questi albanesì” – mi viene da pensare – “riescono sempre a sorprendermi”. Continuo a guardarmi intorno e solo facendo molta attenzione riesco a vedere volti, occhi, sorrisi e lacrime di esseri umani. Il fiume di gente improvvisamente si è fatto persone donne e uomini e bambini. lo sento che me ne devo andare. Non riesco a trovare una ragione credibile a tutto quel dolore.. So che da qualche parte anch’io ho perso. So che ho iniziato un viaggio senza ritorno.
Fresia di fare e di dire. Aumenta in Albania la presenza internazionale militare e non. Fortuna dei tanti tassisti e affittuari di case e bar di Tirana e altre città. Da che mondo è mondo dalla guerra ci si può guadagnare. E come rimproverare di questo proprio gli albanesi. D’altra parte mi capita di vedere ovunque azioni di vero e proprio business umanitario. E io? Sono anch’io parte di questa macchina? Preferirei far parte dei tanti che hanno creduto, anche ingenuamente, di portare solidarietà, dei tanti che sono comunque rimasti a lavorare e confrontarsi pur nelle contraddizioni senza nemmeno tentare di evitarle. In questo momento avrei voglia solo di fermarmi a pensare. Fortuna che non sono sola a sentirmi così. Ma non mi fermo. Seguo il fluire delle cose sapendo che ci sarà una fine. Se non facessi così dovrei decidere di andarmene. E dove? Mi sembra che in Italia come nel resto di Europa dilaghi solo il malessere per una sorta di morte della buona politica: quella che faceva un tempo azzardare i più temerari a sognare e pensare un mondo migliore. Dove sono finiti i buoni temerari? lo sento di navigare talvolta in una solitudine intellettuale che mi rende sazia e esausta. Vorrei davvero non essere qui anche perché essere italiani adesso in Albania non è così semplice. Quando da soggetto unico e irripetibile che si relazionava con altri soggetti sono diventa parte di un tutt’uno, di un’entità più grande scomparendo come per una sorta di sortilegio strano e incomprensibile? Ho cessato di avere un nome, occhi, mente e cuore miei propri. Sono diventata espressione di quell’incertezza italiana che qui è definita come un atteggiamento proserbo. E pensare che io con il dibattito di certa sinistra italiana non sono nemmeno d’accordo. Tutte le relazioni di amicizia e di amore si trasformano in una sorta di incomunicabilità. lo non posso farci niente. È così e basta. Decido di affidarmi al tempo che tutto cambia, che tutto guarisce. Imparo l’importanza vitale dello sguardo a distanza. Non ho altra scelta. Scopro allora l’improbabile verità che l’essere appartenenti sia più importante e vitale dell’essere soggetti e che una condizione esclude l’altra. Scopro anche che la convivenza tra chi insieme non vuoi vivere è un’invenzione astratta. La strada della sconflitta è lunga di fronte a noi e coglie impreparati anche chi ritiene di non esserlo.
Dopo la guerra
Il Kosovo un anno dopo. Non ho trovato un altro titolo o forse più semplicemente non ho il tempo per un’altra soluzione più fantasiosa. Il tambureggiare di immagini e pensieri mi insegue.
Sono tornata in Kosovo due mesi dopo la fine della guerra. Arrivai a Prishtina con un aereo delle Nazioni Unite. Immaginavo uno scenario da dopo-catastrofe. Ma Pri-shtina sembrava essere passata quasi indenne – fatta eccezione per qualche edificio centrale – dalla guerra. Ritrovai così gli stessi locali, le stesse persone, le stesse abitazioni. Ma dove si è combattuta questa guerra? Dovevo andare nella città di Peja e Jacova per capire dove era stata combattuta questa guerra. Interi quartieri erano stati distrutti e con essi molto spesso anche i loro abitanti. Migliaia solo ad Jacova erano le persone disperse. Ogni tanto si levava un fumo nero da una casa. Sono le case dei serbi che qualcuno ha voluto bruciare per vendetta. Sono solo gli ultimi atti di una guerra finita?
Mi aggiro tra le macerie e di nuovo non trovo spiegazione.
È la prima notte per me a Prishtina dopo la guerra. Sono stata con amici kosovari in bar e locali notturni che in Albania sono ancora solo impensabili. Migliaia i giovani di tutte le età che passano le notti a divertirsi tra alcool, musica e tanti sogni. Come forse tanti giovani nel mondo. E qui giovani sono tanti. La popolazione più giovane di Europa. Ancora mi chiedo come è possibile dopo così poco tempo dalla guerra. È forse l’euforia per quella che in molti pensano sia una vera e propria vittoria sui serbi, nemici di sempre? lo non sono più abituata a questi orari e i miei amici mi prendono in giro. “Si” rirspondo loro – “ma io vivo in Albania da troppo tempo ormai e dopo le dieci di sera non c’è niente da tare. Non è come qui”. vorrei che in Albania fosse come qui? Loro nemmeno mi ascoltano. Hanno troppo da dire e esternare. Mi trascinano nell’ennesimo locale. Sono ormai le tre di notte. Incominciano a ridere, scherzare, raccontano perfino delle barzellette sulla guerra. lo sono già altrove. Non comprendo e per questo cedo al mio silenzio. Intorno solo voglia di ricominciare vere. Decido di farmi cullare da quel desiderio vitale.
Mi incammino verso casa accompagnata da amici albanesi. Sarei potuta andare da sola. Qui non si avverte quel senso di pericolo così toccabile a Tirana. I kosovari dicono che qui la criminalità non estiste e che le poche attività criminali sono causate dagli albanesi che provengono dalla I ‘Albania. Si sa che gli albanesi in Albania sono ormai maestri di criminalità e corruzione e organizzazione mafiosa. lo non oso ribattere più di tanto. Mi fa sorridere pensare che esiste un popolo più immune di un altro da tendenze negative. E mi fa ancora più stupore vedere come è facile in nome dell’appartenenza negare un’evidenza tanto grande come la presenza decennale di una mafia kosovara che già prima della guerra andava a chiedere il cosiddetto “pizzo’ ai negozi e locali albanesi senza parlare del traffico di armi, di droga e prostitute di altri paesi.Entriamo a casa. Finalmente potrò dormire. Qualcuno mi chiama. Mi dirigo verso il terrazzo. Di fronte a me lo spettacolo di una grande casa in fiamme. Sembra che abbiano voluto attendere il nostro passaggio prima di dare parola al fuoco che tutto brucia e tutto cancella. Si tratta di una casa serba. Gli abitanti se ne erano andati già da tempo. Bisognava fare qualcosa per impedire che un giorno potessero tornare. La KFOR arriva in grande stile ma spegnere quel grande fuoco è tutt’altro che facile.
Io mi chiedo se mai il Kosovo potrà essere un luogo per tutti i kosovari o se al contrario tutti in un modo o in un altro stiamo partecipando in maniera silenziosa alla costruzione di uno stato etnico costretto ad accettare prima o poi come dato reale il non desiderio di convivenza tra albanesi e serbi e altre minoranze. Mi fa male pensare questo ed è difficile condividere questo timore con gli albanesi kosovari.
Tutti si portano dentro una grande rabbia e sete di giustizia. Sono contenta di tornare tra qualche giorno in Albania.
La difficile convivenza
La guerra del Kosovo è finita da tempo or-con essa anche l’attenzione dei media. Ogni tanto qualche servizio giornalistico ci ricorda gli scontri fra albanesi e serbi nella città di Mitroviza, la città divisa in due come Mostar. E strano dover pensare ad un ponte come ad un qualcosa che divide piuttosto che unire. Ma siamo in tempi di rovesciamenti e grandi cambiamenti e dunque tutto può accadere. lo ho smesso di andare in Kosovo. Sono gli albanesi di Albania a raccontarmi che cosa capita là. Molte organizzazioni albanesi infatti hanno ricevuto finanziamenti per realizzare interventi di sostegno alla popolazione kosovara albanese. Sono soprattutto le organizzazioni di donne ad aver stabilito contatti e collaborazioni con altre realtà kosovare. Una mia amica albanese, presidente di un’associazione che promuove la salute delle donne, mi ha raccontato che un suo collaboratore kosovaro è stata accusato da un giornale nazionalista kosovaro di sostenere la politica dei serbi poiché insegna alle donne a fare meno figli. Vorrei non credere a tutto questo.
Aveva forse ragione quell’intellettuale e giornalista kosovaro quando mesi fa scrisse che le azioni di vendetta degli albanesi verso i serbi sono semplicemente la ri-roduzione della politica serba di poco tempo prima e che tutto questo porterà il Kosovo verso la strada di un vero e proprio fascismo? Mi dicono che quell’intellettuale ha pagato un prezzo per la sua affermazione e così accade anche ad altri che cercano oggi con coraggio di dire basta alla catena della violenza e delle vendette.
Pochi giorni fa ho potuto rivedere alcuni amici kosovari conosciuti nel mio primo viaggio in Kosovo nel ’98 quando le milizie serbo avevano incominciato ad attaccare i villaggi albanesi. Uno di loro, scrittore, poeta e editore non lo vedevo da più di un anno. Era infatti rimasto durante tutta la guerra dentro la sua casa. Solo le due figlie erano riuscite a fuggire in Macedonia. Ci siamo salutati con molto calore. Durante quei terribili mesi della guerra spesso avevo pensato a lui e alla sua famiglia. Altre persone conosciute ed amiche erano tutte riuscite a fuggire in Macedonia.
Gli ho chiesto come stava e come è la situazione oggi in Kosovo. Lui mi ha risposto di stare bene ma era così difficile dimenticare la paura di quei mesi. Solo la vitalità del dopo-guerra gli permette di sperare. Prishtina è diventata quasi tre volte più grande. Le case dei serbi che non sono state bruciate continuano a venire occupate dagli albanesi e sono molti i kosovari che tornano dall’estero per ricostruire quello che considerano il loro paese. Quando gli accenno ad una possibile riconciliazione lui mi dice che non è possibile oggi e forse non lo sarà per molto tempo. Sento che non vuole andare oltre nella discussione. Immagino che ogni volta che gli fanno questa domanda lui possa ricordare quello che i suoi occhi hanno visto durante quei mesi di guerra in Kosovo. lo rispetto il suo desiderio di non parlare ma lui decide di andare avanti e mi racconta che in quel tempo il telefono della sua casa aveva smesso di funzionare. Aveva allora bussato alla porta del vicino serbo e gli aveva chiesto di poter usare il telefono per leggere la posta elettronica. il vicino aveva acconsentito e lui aveva potuto anche se per poco riconnettersi con amici che gli scrivevano per sapere come stava. Nel suo racconto mi sembrava di intravedere un sorriso. Forse non tutti i serbi in Kosovo si sono macchiati di crimini.
Mi avvicino ad un altro caro amico, filosofo e scrittore. Gli domando di una nostra amica comune che da sempre ha fatto parte del movimento delle donne e che ha da poco assunto un ruolo importante nel governo ONU di Koushnen Mi dice che sta bene, lavora molto. Poi sorridendo mi racconta che un giorno lei gli ha chiesto un consiglio per la promozione della democrazia in Kosovo e lui le ha risposto: segui gli americani non c’è nient’altro che potrai fare. E continuava a ridere.
La presenza internazionale in Kosovo rimane fortemente ancorata a logiche di protezione e gestione poco capaci di ascoltare e valorizzare le risorse locali. A novembre finalmente ci saranno le elezioni amministrative. Il livello dello scontro politico e l’incertezza su come i serbi vi potranno partecipare rimane una scommessa aperta. Ma ritengo che questo appuntamento sia irrinunciabile e determinante per il futuro del paese.
Mi rimangono in mente le parole di un giovane kosovaro che per la prima volta è venuto a Tirana qualche giorno fa. La curiosità di vedere quest’Albania così spesso dipinta come un luogo pericoloso e disastrato lo aveva spinto a quel viaggio. Tirana non gli sembrava così terribile. La cosa che però lo aveva colpito di più era dover accettare che molti giovani albanesi desideravano lasciare l’Albania e andarsene all’estero. Non riusciva a capire bene perché. Lui non lascerebbe mai il Kosovo per quanto i suoi genitori vorrebbero mandarlo a studiare all’estero. Gli chiedo che cosa c’è di così irrinunciabile in Kosovo: voglia di vivere, di costruire un futuro migliore, gli amici, tante opportunità che prima non c’erano.
Lo saluto. Spero che i suoi sedici anni lo portino dove vanno i suoi desideri. Sarà diversa questa generazione o dobbiamo dare ragione a chi dice che l’Albania, per quanto con passi incerti, si muove verso un futuro nuovo mentre il Kosovo continua a vivere nell’odio e nel l’isolamento del passato?