di Severino Saccardi
In tutti i tempi della storia umana è esistita la divisione fra ricchi e poveri. Ma la storia della povertà va studiata. Per conoscere le modalità diversificate con cui essa si è manifestata nelle diverse epoche e come ad essa la società si è rapportata, con atteggiamenti oscillanti fra la marginalizzazione (e la colpevolizzazione) degli strati più fragili della popolazione e la messa in atto nei loro confronti di «opere di misericordia» e talora anche di veri percorsi di solidarietà. In tempi a noi più prossimi si sono fatti spazio, peraltro, movimenti di riscatto sociale e si sono uditi messaggi come quello di La Pira su L’attesa della povera gente. Anche alla capacità di raccogliere la sostanza più profonda di quel messaggio (sia pure in un contesto profondamente mutato) è legato il futuro della democrazia di fronte alle sfide del «mondo globale».
Quella discussione di tanto tempo fa
Chi sono i poveri? Da un certo punto di vista (in senso ontologico, se vogliamo usare la terminologia filosofica), noi, esseri umani, lo siamo tutti. Tutti condividiamo una condizione radicale, di fondo, di fragilità, precarietà e finitezza. Ma, questa, è una considerazione che tendiamo a rimuovere. Parlarne (come aveva rilevato Pascal) è comunemente considerata una forma di indelicatezza. E, intanto, in questo passaggio che è la nostra vita, ci adoperiamo per creare e mantenere differenze e divisioni. Da un punto di vista sociale, nel corso della storia, le società umane hanno sempre conosciuto gerarchie, culture del dominio (e della sottomissione) forme di abbondanza e di privazione nel modo di vivere. I ricchi e i poveri, a memoria d’uomo, ci sono sempre stati. Una sorta di costante (nelle diverse epoche e società) della storia. Certo, nel tempo, le modalità delle relazioni umane e sociali cambiano e si evolvono. Un tempo c’era la schiavitù. Che oggi pare inammissibile, anche se si potrebbe dire che esistono forme vistose (e non riconosciute o rimosse) di nuove schiavitù. Sul tema (se posso indulgere, un attimo, a rievocare un ricordo personale), quando ero ragazzo, studente delle superiori, ebbi una discussione con un mio professore. Sicuramente, di orientamento democratico e progressista. Io sostenevo (con intransigenza morale) che la schiavitù è sempre inammissibile. E avevo in mente, credo, la rivolta di Spartaco (che, con i suoi compagni, pagò la sete di libertà con la punizione della morte sulla croce). Il mio insegnante, pazientemente, mi spiegava che, certo, da un punto di vista morale, avevo pienamente ragione. L’uomo nasce libero ed è un arbitrio ridurlo in catene. Ma mi invitava anche a considerare che c’è una storicità delle cose, che va tenuta sempre presente. Quella condizione (ingiusta) di tanti esseri umani era legata a un modo di produzione, a una mentalità (anche i più illuminati del tempo consideravano del tutto ovvia e naturale la distinzione fa liberi e schiavi), a una forma determinata delle relazioni umane. Per il superamento di tale stato di cose, mi suggeriva con un po’ di trasparente determinismo (come avrei oggi saputo notare), bisognava che se ne creassero le condizioni storiche. Non mi convinse, naturalmente, ma mi fece riflettere. Molto. Per orientarsi nelle cose del mondo è bene adattarsi presto alla cifra della complessità. Mi sto rendendo conto, peraltro, che, con questo riferimento, c’è il rischio di trovarsi fuori tema. Non sono la stessa cosa, e non hanno la stessa condizione necessariamente, lo schiavo e il povero. Nell’età classica, anche un principe se perdeva malamente una guerra ed era sottomesso, poteva essere fatto schiavo. C’erano, invece, coloro che, certo, erano liberi, ma vivevano in miseria. A Roma, come ci hanno insegnato con i primi rudimenti della storia, c’erano patrizi e plebei. Anche il termine «plebeo» non era, di per sé, sinonimo di «povero». C’erano varie gradazioni nelle condizioni materiali di vita della componente plebea della popolazione di Roma.
Epulone, il ricco e Lazzaro, il mendicante
Considerazioni che inducono a ricordare come sia fondamentale, per trattare tale argomento, studiare in maniera attenta la storia della povertà (su cui sono stati scritti molti, e assai interessanti, testi). Con il tempo, è cambiato, via via, anche il modo di considerare la figura del povero e la dimensione della povertà. Il messaggio evangelico e il cristianesimo (come non ricordarlo?) operano una rivoluzione. Non una rivoluzione sociale, né tanto meno una rivoluzione in armi come quella di Spartaco. No. Una rivoluzione di carattere antropologico, etico e spirituale. Il ricco ha da passare per la cruna di un ago se vuole accedere al Regno dei cieli1. Ha già avuto una condizione di vita privilegiata sulla terra, che gli ha consentito di vivere in maniera agiata, ma che, forse, ha contribuito a ottundergli la sensibilità e indurirgli il cuore. Le parabole evangeliche lo ricordano con chiarezza. Si pensi alla vicenda (narrata nel Vangelo di Luca) del povero Lazzaro e del ricco Epulone. Beati siano, dunque, i poveri, gli umili, gli ultimi. Un rovesciamento epocale del vecchio modo gerarchico di vedere e incasellare persone e relazioni umane. In un certo senso, al di là delle condizioni materiali di vita e dei rapporti gerarchici e di potere, non ci sono più né ricchi né poveri, se siamo tutti fratelli e figli del medesimo Dio. Un messaggio che ha inciso nel profondo, cambiando modi di sentire, giudizi di valore e criteri morali relativi al rapporto con l’altro. Al centro viene posto il riconoscimento della dignità della persona, di ogni persona. Un principio che dal cristianesimo transiterà nell’illuminismo (così è, di fatto, anche quando l’illuminismo misconoscerà espressamente l’eredità della tradizione e della cultura cristiana) e nelle idee di emancipazione e riscossa sociale del tempo a noi più prossimo. I principi nuovi del cristianesimo lasciarono, dunque, un segno profondo. Cambiarono il punto di vista sulla povertà. Il povero doveva essere soccorso e aiutato.
Ma i poveri non scomparvero. Nelle società dell’epoca della cristianità, le città e i borghi del Medioevo, non mancano certo gli indigenti e i miserabili. La povertà è, in certo senso, istituzionalizzata (e mantenuta) in un sistema di vita in cui è la misericordia cristiana che se ne prende (o se ne dovrebbe prendere) cura. Una concezione che, come ha ricordato nei suoi studi Bronislaw Geremek (che è stato un grande storico, allievo di Fernand Braudel) non reggerà al momento e nell’epoca dell’avvento e del trionfo della modernità. Il modo di considerare (e di trattare) i marginali (considerati devianti rispetto alla nuova concezione del lavoro e all’esaltazione della produttività) oscillerà fra due atteggiamenti, fra loro complementari e opposti: il paternalismo caritatevole e la repressione (con schedature e avvio al lavoro coatto).
Tra la pietà e la forca?
Si è incerti (e si ricorre a entrambe) fra la pietà e la forca2. L’indigente e il marginale e la dimensione stessa della povertà non hanno mai trovato, d’altra parte, una loro certa collocazione e accettazione all’interno delle stesse concezioni culturali nate per promuovere l’emancipazione sociale (anche quella di carattere più radicale). Si pensi a Marx e al marxismo. Marx, che denuncia, inquadra e descrive il dramma storico dello sfruttamento delle classi subalterne, non si pone affatto come una sorta di «profeta dei poveri». Figura di riferimento, nella concezione marxiana, non è il «povero», il marginale, lo sradicato. È il proletario, che è interno al processo produttivo e vive dal di dentro le dinamiche della società capitalistica, pur avendo e assumendo su di sé il compito di ribaltarne la logica e di inaugurare una nuova età della storia. Cosa che potrà fare proprio perché vive direttamente la dialettica capitale-lavoro. Il sottoproletariato è altra cosa. Si gioverà, secondo questa visione, del cambiamento globale della società, ma nell’incertezza della sua identità, non ne è né motore né attore. Ma nella società industriale (e in quella post-industriale), si sa, a volte, le figure sociali sono, drammaticamente, mobili e incerte della loro collocazione. Il capitalismo crea sviluppo e vive di lavoro e produttività, genera crescita, ma è scosso anche da crisi ricorrenti, dà opportunità mentre emargina e crea disoccupazione e precarietà. Come che sia, mentre la società va incontro, dall’ Ottocento in poi, a sempre nuove trasformazioni, i poveri continuano a bussare È quanto doveva avere ben presente Giorgio La Pira, quando, nell’ormai lontano 1951, scrive L’attesa della povera gente3.Un testo assai particolare, che fece non poco discutere4. I sentimenti e la spinta che muovevano l’autore avevano origine in un richiamo intransigente al carattere stringente del messaggio evangelico, in una visione di tipo sostanzialmente Keynesiana dell’economia e della società e in un riferimento implicito, ma chiarissimo, all’ispirazione sociale della nostra Costituzione repubblicana.
Il dettato dell’articolo tre
Al dettato dell’articolo tre, soprattutto. Lo stesso che stava a cuore, insieme all’articolo undici (che ripudia la guerra) a don Milani. La Pira, dopotutto, che passerà alla storia come «sindaco santo» di Firenze, aveva una precisa, e impegnativa, idea sul che cosa debba essere una città. Ricordiamolo: una chiesa per pregare, una casa per abitare, una fabbrica per lavorare. Del diritto al lavoro (che va difeso ad ogni costo) aveva una concezione esigente e intransigente. Quella che sta alla base delle sue storiche battaglie contro la disoccupazione ed a fianco degli operai fiorentini. Oggi, quei tempi, e quelle vicende, paiono (e, incontestabilmente, ormai sono) assai lontani. Ma il messaggio di Giorgio La Pira, così incisivamente formulato, ancora ci raggiunge e ci interroga. È a partire da questa considerazione che è nato questo volume con i contributi dei diversi amici che, tutti, ringraziamo. Oggi, viviamo in un contesto molto diverso da allora. Una realtà in cui la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, l’avanzamento della tecnologia e il cambiamento della dimensione stessa del lavoro hanno cambiato tante cose. Il mondo vive, insieme, nuove opportunità e nuove contraddizioni. Ci sono porzioni di umanità che hanno guadagnato un nuovo spazio mentre nei paesi più sviluppati settori delle classi medie e di quella che era tradizionalmente la classe operaia si sono andati impoverendo. Certo, nel pianeta, complessivamente, le aree della povertà sono diminuite. È un dato da cui partire. Ma le sperequazioni risultano ancora enormi ed evidenti (e risaltano ancor più nel tempo della comunicazione globale). Emerge, in primo piano (come fanno notare molto bene Andrea Giuntini e Fabio Dei) il tema della disuguaglianza. Nella nostra società, inoltre, la questione della povertà è spesso oggetto di un’evidente rimozione. Si fa fatica a riconoscerla. E ci sono situazioni (come ricordano efficacemente diversi interventi) in cui individui e gruppi sociali vivono, con amara sorpresa e con disagio, l’esperienza di ritrovarsi, anche in breve tempo, in una dimensione di deprivazione, di reddito insufficiente, di perdita del lavoro, di deterioramento drastico (in termini materiali e concreti e a livello della percezione soggettiva del proprio stato sociale) delle condizioni di vita. La povertà, d’altra parte, come efficacemente scrivono gli autori della nostra sezione tematica, assume tante forme e si presenta sotto diversificati aspetti. C’è la povertà materiale, il reddito che viene meno, il lavoro mal pagato, l’incertezza della condizione abitativa o il trovarsi, addirittura, senza fissa dimora.
Se si finisce fuori binario
Il finire fuori binario, per riprendere la denominazione di un’importante esperienza di solidarietà con gli emarginati e gli homeless (che viene raccontata nella rubrica Società civile). E poi c’è la deprivazione culturale. O il mondo delle dipendenze. Fenomeni che si collocano nella zona d’ombra della nostra società. Una zona d’ombra che così può essere definita perché spesso la povertà, la marginalità, i drammi della miseria è come se faticassimo a metterli a fuoco nella nostra società. L’essere poveri è, più o meno esplicitamente, considerata una condizione anomala, di cui chi ne è vittima è come se si vergognasse e che gli altri faticano a vedere. Non vogliono vedere.
C’ è spesso una grande rimozione collettiva del problema. L’opposto di quello di cui ci sarebbe bisogno nelle società del nostro tempo. La rimozione fa incistare le malattie sociali e ne moltiplica gli effetti nefasti. Intendiamoci, ci sono, nella nostra società, anche realtà che, in modo meritorio, non solo vedono bene l’esistenza e la consistenza del problema, ma costruiscono esperienze e percorsi significativi per alleviarne effetti e conseguenze e, in una certa misura, anche combatterne l’origine e le cause. Si pensi alla storia (e anche alle attività in corso) di un’istituzione come l’Opera della Madonnina del Grappa. O alla Caritas. Alla Diaconia valdese. O ad Emergency che, oltre a prestare la sua opera in zone di conflitto in tante parti del mondo, garantisce anche interventi sanitari per persone e soggetti bisognosi sul territorio nazionale. Sono manifestazioni importanti di solidarietà o, potremmo dire, opera di misericordia del nostro tempo. Un lavoro, spesso, di notevole portata e sicuramente di grande valore. Riflettere sulla loro azione aiuta anche a cercare strade nuove per affrontare, con recuperato senso di equità, le contraddizioni del nostro tempo. Vengono chiamate in causa la cultura (che non può non misurarsi con i temi di fondo della società) e, soprattutto, le responsabilità della politica. Che dovrebbe ricordarsi, nel caso del nostro Paese, delle indicazioni che ci vengono dal dettato costituzionale e di quelle che possono essere ricavate dalla storica Dichiarazione Universale dei diritti umani del 19485. Come nella Dichiarazione è scritto, nero su bianco, sono da difendere e da promuovere i diritti civili e politici, ma anche quelli sociali (che non possono essere colpevolmente obliati). I tempi sono profondamente cambiati e, dunque, è necessario trovare formule e ricette nuove per affrontare questo grande tema. Ma sull’esigenza di fondo (quella di rispondere alle attese della povera gente), La Pira aveva evidentemente e sostanzialmente ragione. E bisogna, forse, realizzare che sarà anche nella capacità di affrontare i bisogni degli svantaggiati, degli emarginati e degli ultimi che verrà misurata la capacità delle democrazie (segnate internamente da non pochi fattori di crisi e sfidate apertamente dagli autoritarismi nel mondo) di definire credibilmente il loro profilo, le loro prospettive e il loro stesso futuro.
1 Non a caso, don Lorenzo Milani, memore della condizione di agiatezza in cui aveva vissuto da giovane, prima di dedicare se stesso e la sua vita agli ultimi, nell’ora estrema della sua agonia (come i suoi ragazzi raccontano) dirà che, lì, si stava compiendo il passaggio prodigioso del ricco per la cruna di un ago. V., in merito: M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016.
2 B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Editori Laterza, Bari 1986.
3 G. La Pira, L’attesa della povera gente, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1951.
4 V. in merito, tra l’altro, Il politico a Dio solo soggetto, di P. Meucci e M. Primicerio, in: Fede, politica e profezia. L’attualità di Giorgio La Pira in un mondo in cerca di pace (a cura di A. Mattioli), Ed. In dialogo, Milano 2023.
5 V. Per un «atlante» dei diritti umani, volume monografico di «Testimonianze» (nn. 552-553), a cura di M. Meli, R. Noury, S. Saccardi, M. Ucci.