di Severino Saccardi

Viviamo in una società che sembra essere pienamente immersa nelle dinamiche del consumismo, ma che si è dovuta confrontare, e si sta confrontando, con situazioni di emergenza e grandissime difficoltà: la crisi economica, la pandemia, il cambiamento climatico, il ritorno della guerra in Europa. Sono stati, e sono, momenti drammatici in cui, messi alla prova, abbiamo capito a cosa possiamo appellarci: alla razionalità e al sapere scientifico, al valore del volontariato, alla (purtroppo, non molto diffusa) risorsa della «buona politica». Ma, in questo nostro tempo, c’è anche da riscoprire un bisogno, compresso e inascoltato, di attenzione alla dimensione dell’interiorità e delle questioni spirituali, la cui rimozione è, verosimilmente, una delle ragioni della diffusione delle patologie del nostro tempo.

La società liquida e il «mondo della complessità»
Hanno un’anima, gli anni Duemila? La domanda è chiaramente un po’ provocatoria e paradossale. Anche se (diciamolo sempre un po’ sul filo del paradosso) a volte, sembra che facciano (sempre loro, gli anni Duemila) di tutto per nasconderla e metterla poco in evidenza. Sia detto senza un filo di moralismo, l’impressione di vivere in un mondo dedito al culto, alla cura e alla ricerca ossessiva dei beni di consumo e un po’ soggiogato dal dominio delle cose non è del tutto priva di fondamento. E il «materialismo» che oggi è diffuso, si vive e si respira non è quello propugnato (e nobilitato) da filosofie o scuole di pensiero. È un materialismo un po’ terra terra, non di rado, che si appiattisce sulla realtà così com’è e ne accetta la logica di fondo. Si obietterà che il disincanto e una certa dose di nichilismo sono un portato ineluttabile della modernità. È un’obiezione, direi, di cui non si può non rilevare la fondatezza, anche perché intenzione di chi scrive non è certo quello di sostenere posizioni «anti-moderne». Al contrario. Ma, come si dice, est modus in rebus. È una questione di misura, di impatto sulla vita delle persone reali e, detto in altri (e forse più banali) termini, di qualità della vita.
Ci si è appassionati, in un tempo non lontanissimo, a discutere dell’alienazione e dei suoi effetti e condizionamenti sulla società. Era una riflessione, non di rado, un po’ gravata dall’ideologia, ma una rilettura (sia pure fatta con occhio critico) di alcune di quelle analisi non sarebbe oggi, forse, del tutto fuori luogo. Del resto, come Bauman1 ci ha insegnato, viviamo nella fluidità dei rapporti della società liquida. Una società in cui non sembrano più esistere certezze ed in cui la stessa, «antica», discussione sulla «crisi dei valori» sembra non avere molto senso. Una situazione, sia chiaro, in cui di punti di riferimento, ci sarebbe forse più bisogno di prima. Solo che non è facile individuarli, ricostruirli e condividerli.
Viviamo, dopotutto, nel «mondo della complessità», come ci ha insegnato Edgar Morin. Un mondo ambivalente, spigoloso e contraddittorio, denso di elementi di negatività, ma tutt’altro che privo di nuove, e inesplorate potenzialità. Un «villaggio planetario», basato su relazioni sempre più interdipendenti, in cui, per istinto di difesa, viene da chiudersi, non di rado, in se stessi. È la dimensione delle solitudini del nostro tempo2. E non è semplice, in una realtà così caratterizzata (anche se il nostro tempo è tutt’altro che costellato esclusivamente di solitudini: c’è anche una nuova relazione con l’altro che si va sperimentando), affrontare emergenze come quella che, imprevedibilmente, ha messo a dura prova le nostre società da alcuni anni a questa parte.

Quando si chiusero le frontiere
Un morbo di portata «globale» (nato non si sa come; su questo fioriscono ancora ipotesi e supposizioni, più o meno verosimili) che ha sconvolto il nostro modo di vivere. Si chiudono le frontiere. Si chiudono, alle spalle di ogni individuo o nucleo familiare, anche le porte di casa. Il flusso dei viaggi e il movimento incessante di persone da una parte all’altra del pianeta, subisce un brusco arresto. Era ieri. Nella «normalità» che sembra, adesso, apparentemente ritrovata (ma, anche da un punto di vista strettamente sanitario, sarà davvero così?), quel tempo sembra già lontano. Eppure, ognuno di noi ha vissuto, allora, esperienze e provato sensazioni che hanno inciso nel profondo. C’è stata, come in tanti hanno fatto notare, come una riscoperta improvvisa della nostra strutturale fragilità. Della precarietà, e provvisorietà, dell’essere al mondo. E ognuno ha pensato, istintivamente, a salvare se stesso. Tranne poi realizzare (secondo l’insegnamento del Camus de La peste) che solo insieme, ragionevolmente, c’è una possibilità di salvezza. E che nel momento in cui, per ognuno, massimo è il rischio del naufragio, è più che mai vitale, urgente e necessario riscoprire solidarietà con gli altri e amore per il prossimo3. Ma non è un approdo a cui è facile, e spontaneo, per tutti, arrivare. Anzi. Forte è la tentazione di chiudere (anche intimamente, e non solo concretamente) le porte al mondo esterno. E di subire, poi, però, le conseguenze di una simile scelta. In tanti casi, il tempo della pandemia ha lasciato dietro di sé (oltre ai danni di carattere fisico, alle perdite e ai lutti provocati) una scia di sofferenze non dette, nell’interiorità, a livello psicologico. Una crescita esponenziale, specie tra i giovani, delle patologie. Una germinazione diffusa, per reazione all’isolamento sofferto, di comportamenti violenti nelle relazioni con gli altri. È l’intero corpo sociale, d’altra parte, che è apparso, ad un certo punto, estenuato. Dopo tutto, il problema del Covid, è giunto improvvisamente, e violentemente, a porsi, dopo un periodo in cui la società già era sottoposta agli effetti di difficoltà economiche, che ci hanno tormentato per anni e che, a ben vedere, non si sono mai definitivamente risolte. E, dopo? Dopo è venuto il 24 febbraio 2022. E nell’Europa che ha vissuto l’esperienza inedita (un unicum dal punto di vista storico) di decenni di pace (sia pure segnati a lungo dalla «Guerra fredda») è tornata la guerra. Per la verità, la guerra in Europa, ahimè, c’era stata già prima, con la disintegrazione della ex Jugoslavia e le sanguinose vicende della Bosnia, del Kosovo, di Sarajevo, città-martire e città-simbolo, di Srebrenica. Vicende già rimosse, quasi dimenticate. Certo è che la guerra di Ucraina, oltre ad avere assunto un carattere particolarmente devastante, ha un impatto enorme sugli equilibri europei e globali. Il mondo è entrato in uno stato di fibrillazione e in un tempo di tensione e di pericolosa instabilità in cui sono in gioco, in realtà, i nuovi assetti di potere nel pianeta. Viviamo, insomma, in un’epoca, in un contesto e in un passaggio storico che sono carichi di problemi. Problemi che non è semplice affrontare e inquadrare con lucidità. Del resto, non si è aiutati, in questo, da una comunicazione mediatica che scambia l’informazione con la spettacolarizzazione delle notizie e delle immagini (anche delle più scioccanti) che arrivano dal mondo. La ruota del consumismo, intanto, come se niente fosse, sembra aver ricominciato a girare. È un modo anche per difendersi forse dall’inquietudine per i pericoli che incombono e gravano su una società che ha ripreso a misurare il PIL, a rilanciare il flusso dei commerci e la competitività dell’economia nel contesto di una «globalizzazione» che l’emergenza sanitaria sembrava quasi aver messo radicalmente in crisi. E che è ripartita con la sua logica di fondo. Anche se con dinamiche nuove, e non poco gravide di tensioni.

Chi comanderà nel mondo che verrà?
Chi comanderà nel mondo che verrà? Gli Stati Uniti o la Cina? E l’Europa riuscirà ad avere un ruolo? E, se sì, di quale rilevanza? E come si andranno sviluppando i rapporti fra l’Occidente e i Brics, che oggi stanno assumendo una configurazione nuova, con riflessi non solo di carattere economico, ma anche, con le posizioni sulla guerra d’Ucraina? In merito si pensi al comportamento, sostanzialmente ambiguo o equidistante, di una grande democrazia come l’India. Ma tutto questo rimane, intanto, sullo sfondo, mentre abitudini, frenesie e ritmi della quotidianità sembrano essere ripresi come prima. Anzi, più di prima. Sembrano decisamente remote le riflessioni che, qualche anno fa, si erano avviate, con un dibattito anche interessante, sulla opportunità/necessità di ripensare modello e stili di vita e di ipotizzare l’avvento di un nuovo «Rinascimento» possibile4. Sembra che ci sia soprattutto la volontà di rifarsi di quel che si pensa di aver perduto negli anni dell’isolamento, dell’emergenza sanitaria, della chiusura della frontiera. E l’ondata del turismo (come ricorda nel suo Glossario anche F. Dei), con il suo travolgente impatto sulle città d’arte, è ripartita. Molto più forte di prima, più consistente di prima. E con le stesse modalità. Mordi, consuma, passa e fuggi. La sostenibilità, in relazione a tale incontenibile fenomeno, pare essere niente di più che un dovuto richiamo retorico.

Turista per sempre?
D’altra parte, come si usa dire, la questione è complessa. Non è certo ammissibile rimpiangere i tempi in cui visitare le bellezze della Terra era un privilegio delle élite, dei ricchi, delle minoranze dei ceti intellettuali e più colti. Quindi, girare il mondo per diletto, per desiderio di curiosità e conoscenza o anche solo per scattare infinità di foto e fare shopping all’estero è una prerogativa che, in linea di principio, a nessuno può essere disconosciuta. Ma le città, ridotte talora a Disneyland del patrimonio artistico, soffrono, si logorano, e rischiano di perdere il senso stesso del loro esistere. Una situazione per cui apparentemente non sembra esserci rimedio. Lo scrive, con tagliente (auto)ironia e in maniera incisiva, Paolo Giordano5. «Da ragazzo», come viene spiegato, «mi credevo un viaggiatore estraneo alla massa. Però i posti belli del mondo sono tutti presi, il numero di chi li visita cresce come se la folla che assalta questi luoghi fosse comprimibile all’infinito. Ma di chi è la bellezza? Chi la può reclamare come sua? No, tutto questo è inarrestabile: quindi non proviamoci nemmeno»6. È un tema controverso, uno dei tanti del nostro tempo. In una realtà come quella attuale, verrebbe da chiedersi, insomma, tornando a quanto accennato all’inizio, dove è finita l’«anima»? E qual è, in definitiva, lo spirito del tempo di questi primi decenni del nuovo millennio? Gli amici che sono intervenuti in questo nostro volume (e che tutti, sentitamente, sono da ringraziare) hanno cercato di fornire le loro risposte, partendo da ottiche, da suggestioni, da esperienze e da punti di vista diversi. Colpisce anche (e di questo siamo grati) che le ragazze e i ragazzi delle classi delle scuole superiori coinvolte abbiano partecipato a questa nostra discussione, mostrandosi interessati e motivati. I temi dell’interiorità, degli interrogativi sulla propria identità, del confronto con l’altro e della qualità delle relazioni umane sono evidentemente presenti e sentiti, presso i giovani di quell’età, più di quanto spesso non siamo portati a credere. È una considerazione da non dimenticare. Quel che qui mi premerebbe ricordare è, comunque, che intanto c’è un aspetto, in senso generale, da sottolineare: che gli anni dell’emergenza, della crisi, della provvisorietà percepita a livello individuale e collettivo, non sono stati solo anni persi, o segnati in toto dalla negatività. Abbiamo imparato anche qualcosa di importante che è bene riportare ora alla memoria. Quando si è alle prese con la difficoltà estrema del vivere, nella ricerca di una via di uscita, non è difficile cadere preda dell’irrazionalità. Complottismo, ostilità alla medicina «ufficiale», refrattarietà ad assoggettarsi alle regole stabilite per salvaguardare l’incolumità propria e altrui: sono tutti atteggiamenti che nel tempo della pandemia abbiamo visto diffondersi e fare presa su una parte dell’opinione pubblica. Atteggiamenti che non sempre è stato semplice tenere sotto controllo. Proprio questa deriva ha fatto però comprendere a molti, d’altra parte, l’importanza di affidarsi alla razionalità e all’impostazione e alle soluzioni proposte (va detto, non sempre senza incertezze e contraddizioni) dalla scienza. Razionalità (e buon uso della ragione critica) e pensiero scientifico (che è cosa ben diversa da un certo «scientismo», non esente da sbavature ideologiche) sono apparsi come pilastri da tenere ben saldi perché l’edificio della comunità non cedesse e non crollasse. Riferimenti a cui continuare a richiamarsi, con nettezza. Ma a questi va aggiunta la valorizzazione delle dimensioni della solidarietà, del senso di responsabilità di chi fa silenziosamente il proprio dovere di ogni giorno e del volontariato. Quel volontariato che vede, in maniera rilevante, protagonisti anche i giovani e che ha dato, di nuovo, un’esemplare prova di sé nel dramma che ha colpito le terre dell’Emilia e della Romagna (come racconta Davide Drei nella nostra «Società civile»). All’elenco andrebbe aggiunta la «buona politica», che spesso latita e di cui, quando non c’è, si sente profonda la mancanza. Un’esigenza che rimane comunque all’ordine del giorno e di cui i giovani degli anni Duemila, che pure sono nati nel tempo dei populismi e dell’antipolitica7, è augurabile che si facciano costruttivamente e creativamente carico. Ma all’elenco c’è un elemento che mi sembrerebbe opportuno aggiungere e che non mi pare essere affatto in contrasto con quelli già richiamati. È quello della spiritualità. Che non vuol dire necessariamente, o solo, religioni. Che rimanda alla cura della propria interiorità, all’interrogazione sul mistero della vita e del mondo, alla «ricerca di senso», alla scoperta della relazione profonda e carica di significato che lega la dimensione del silenzio e quella della parola. Alla meditazione. Intendiamoci: sono considerazioni da fare dando per scontata la situazione di avanzata secolarizzazione delle nostre società occidentali (che le diversifica da tante altre parti del mondo) insieme al valore imprescindibile, e per tutti fondamentale, della laicità. Ma il tema rimane. In pieno. Il periodo della pandemia è da ricordare non solo per l’affidamento che abbiamo dovuto riporre nelle voci e nelle indicazioni di medici e scienziati, ma anche per la forza dell’immagine di papa Francesco che, da solo, pregava in piazza San Pietro. Una scena che, per l’appunto, ha parlato all’anima. Anzi, ha saputo parlare a tutti, credenti e non credenti, alle prese con la loro fragilità esistenziale. Ma la fragilità esistenziale, che nei momenti del pericolo, delle epidemie, delle guerre (come oggi in Ucraina, e non solo), torna con immediatezza ed essere presente, è un dato permanente della vita. Certo, ci sono dati di grande rilevanza, come l’aumento della speranza di vita e l’efficacia dei moderni farmaci e sistemi di cura, che cambia, in modo significativo, e in meglio, del modo (e della durata media) dello stare al mondo. Ma l’elemento del confronto con i «temi ultimi» e del destino finale dell’uomo rimane.

Ma ci sono, anche oggi, le ragioni del cuore
Che oggi tale questione sia, nel senso comune, ignorata, taciuta e rimossa, è cosa che non depone a favore della connotazione di fondo della nostra civiltà. La rimozione non è quasi mai una buona medicina. Del resto (ha ragione B. Salvarani e così anche M. Salucci), di «temi ultimi» non parla quasi più nemmeno la Chiesa. Dopo averne a lungo declinato la rappresentazione all’insegna del richiamo, talora strumentale, al «peccato» e alla «paura», oggi, con una sorta di imbarazzo, quasi li ignora. È una buona cosa, intendiamoci, come diceva Ernesto Balducci (e anche Lorenzo Milani) che il cristianesimo non sia in conflitto con la «fedeltà alla terra», non spinga alla fuga dall’assunzione di responsabilità verso i problemi del mondo e sappia rendere testimonianza nella «polvere della storia». Ma, mi chiedo, il cristianesimo può essere solo una sorta di «etica sociale» tendente quasi a mettere in secondo piano la dimensione della trascendenza, senza sembrare una sorta di «cristianesimo dimezzato»? È un grande tema di discussione. Sarebbe molto interessante (e a questo vuole rimandare anche la nostra sezione tematica) capire cosa di tali grandi questioni percepiscano i giovani. L’impressione, che ritengo non infondata, è che nella nostra società (non solo tra i giovani) ci sia un profondo bisogno, in senso lato, di attenzione alle questioni dell’interiorità e dello spirito (che non necessariamente rimanda direttamente alla fede cristiana o alle religioni, giova ripeterlo), ma che esso rimanga, in gran parte, inespresso. Viene da pensare che alla base dell’attuale proliferare di patologie (di cui scrivono, tra l’altro, G. Checcucci e L. Oddo), insieme ad altre ragioni (gli elementi condizionanti di una certa comunicazione «globale», la reazione alla solitudine del tempo del Covid, l’incertezza e la «fluidità» esasperata dell’identità…) possa esserci anche la compressione di tale, e non riconosciuta, esigenza di fondo.
Un’esigenza che richiede una nuova attenzione, che va compresa e a cui bisogna dar voce. Un’indicazione che non è affatto in contrasto, naturalmente, con il saldo riferimento alla razionalità critica e al ruolo imprescindibile della scienza. Era un grande scienziato, anche, Pascal. Un anticipatore. Che però aveva saputo dire, in maniera memorabile, come ci siano delle ragioni del cuore che la ragione non conosce. Bisognerebbe, forse, di nuovo farne memoria agli uomini e alle donne della nostra epoca.
Un’epoca che si presenta con tanti volti, con esperienze di grande umanità e anche con drammi, di cui si ha notizia e che poi vengono, presto, dimenticati. Qualche giorno fa, a Kramatorsk, in Ucraina, un missile Iskander, lanciato dai russi, ha distrutto un ristorante. Sono state uccise diverse persone, fra cui Viktorija Amelina. Viktorija, che era fotografa e scrittrice, non scriveva poesia prima della guerra. La sua poesia è nata dalla sofferenza e nel dolore, ma rimaneva aperta, nella prova estrema, alla prospettiva del futuro e alla speranza. È dalla lezione dei «testimoni del tempo», come sempre, che possiamo ricavare le indicazioni per andare avanti nel cammino.

1 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2019.
2 V. Le solitudini del nostro tempo (sez. monotematica a cura di P. Del Pasqua e S. Saccardi), «Testimonianze», n. 462.
3 V. Metafisica della peste (S. Givone a colloquio con S. Saccardi), nel volume monografico (a cura di F. Dei, M. Meli, P. Pedani, S. Saccardi, G. Trentanovi, S. Zani) di «Testimonianze» (nn. 532-533) dal titolo: Antropologia di un mondo in cambiamento.
4 V. in merito la sezione dedicata a Un «Rinascimento» possibile? Idee e temi, nel volume monografico di «Testimonianze» su Antropologia di un mondo in cambiamento, cit.
5 P. Giordano, Turista per sempre, «La Lettura» del «Corriere della Sera», 2 Luglio 2023.
6 È quanto viene sintetizzato nel sommario dell’articolo di P. Giordano, Turista per sempre, cit., di cui significativa è anche la conclusione, a effetto: «Così, in un impeto liberatorio mi dico: ma sì, venite. Venite e basta. Spagnoli, indiani, sauditi, turchi e messicani, americani e francesi: venite. Venite in massa, sempre di più, venite tutti! Riversatevi con i monopattini, i sidecar, gli hoverboard e i risciò, saccheggiate i condomini e mangiate miliardi di gelati contemporaneamente per poi non sapere che cosa farvene delle coppette. Strappate il vostro pezzo di questa città in degrado: vi spetta. Non appartiene a me più di quanto non appartenga a voi (…). Tutto questo è inarrestabile, lo sappiamo, quindi non proviamoci nemmeno a fermarlo».
7 V. in prop. V. Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Il Mulino, Bologna 2022.