di Rosy Bindi

Nel centenario della nascita (Firenze, 27 maggio 1923) di don Lorenzo Milani, il Comitato nazionale promosso da Fondazione don Milani, Istituzione don Milani di Vicchio e Associazione Gruppo di volontariato don Milani di Calenzano, con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, intende promuovere la conoscenza dell’eredità spirituale, civile e culturale del priore di Barbiana, per riscoprire la figura di un prete fedele alla Chiesa e alla Costituzione italiana, ma «scomodo» per la sua, rigorosa e coerente, dedizione ai poveri ed emarginati e alla cultura della pace, con scelte che appaiono dirompenti ancora oggi e che (pur nel mutare dei tempi) interpellano le coscienze, come ha sottolineato papa Francesco nella sua visita al piccolo cimitero di Barbiana.

Una voce profetica
Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani (Firenze, 27 maggio 1923) sarà un’occasione per tornare ad ascoltare la voce di una figura profetica nella Chiesa e nella società italiana del suo tempo ma che ancora oggi ci interroga sulle nostre coerenze di cristiani e di cittadini.
È questo il compito che si è dato il Comitato nazionale promosso da Fondazione don Milani, Istituzione don Milani di Vicchio e Associazione Gruppo di volontariato don Milani di Calenzano, insediato a dicembre con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, che vuole innanzitutto promuovere un’ampia e diffusa riscoperta dell’eredità spirituale, civile e culturale del priore di Barbiana.
Il Comitato riunisce esponenti delle istituzioni religiose e laiche – Arcidiocesi di Firenze, Conferenza Episcopale Italiana, Ministeri della Cultura e dell’Istruzione, Regione Toscana, Comuni di Firenze, Vicchio, Calenzano e Montespertoli – del mondo della scuola e del sindacato, docenti universitari e studiosi.
Don Milani ha rappresentato molto per la mia generazione, sia dal punto di vista ecclesiale che civile, e quando mi è stato proposto di presiedere il Comitato nazionale non ho potuto sottrarmi. Lo considero un dovere e spero che riusciremo a suscitare nel cuore e nelle menti di tante italiane e di tanti italiani l’attenzione e l’amore che merita.
Don Lorenzo, in realtà, continua a far discutere e non solamente in Italia. È una figura scomoda, profetica che ha molto da dire ai credenti, alla comunità civile e soprattutto a quanti hanno responsabilità politiche.

Un prete, prima di tutto
È stato prima di tutto un prete, animato e sostenuto da una fede profonda. Il desiderio di Dio, la sete di Assoluto portano Lorenzo ad abbracciare la Chiesa e a farsi prete. Un prete inquieto, appassionato ma sempre obbediente. Ha sofferto molto per la Chiesa e a causa della Chiesa. Non sono un mistero le incomprensioni, la diffidenza, persino il fastidio che parte della curia fiorentina e vaticana nutrivano nei suoi confronti. Dopo la sua morte ci sono voluti cinquant’anni perché un papa, venuto dalla fine del mondo, restituisse piena cittadinanza agli scritti e alla pastorale di don Lorenzo.
Sono grata a papa Francesco che a Barbiana ha ringraziato il Signore di aver donato alla Chiesa un prete come don Milani e lo ha indicato come un esempio di sacerdozio. Con quel pellegrinaggio, che nella stessa giornata ha unito don Milani e don Mazzolari «due parroci che hanno lasciato una traccia luminosa», il papa ci ha riconsegnato don Lorenzo com’era davvero: «innamorato della Chiesa anche se ferito», intransigente ma non ribelle, obbediente fino al dono della sua vita per la fede. Quando leggo le sue lettere, soprattutto quelle ai confratelli e all’arcivescovo di allora, vi avverto un prete desideroso di essere accolto dalla sua Chiesa, desideroso di paternità e comunione ecclesiale. Le cose che ha fatto e detto non erano dettate dalla volontà di rompere la comunione ecclesiale o di creare scompiglio, ma al contrario dalla ricerca di ciò che è essenziale, di una comunione più profonda. Don Lorenzo è scomodo per la sua radicale e integrale fedeltà al Vangelo: lì sta la sua forza. Sarebbe un errore pensare che fosse scomodo per la Chiesa preconciliare degli anni Cinquanta e Sessanta. L’insofferenza per una fede praticata per superstizione o abitudine, l’amore per i poveri e gli emarginati, la coerenza del suo pacifismo, la scelta di restare fino alla fine insieme agli ultimi di Barbiana appaiono dirompenti anche oggi. Pensiamo a ciò che dice papa Francesco. Siamo davvero convinti di esser quella Chiesa in uscita che si fa carico degli scarti e visita le periferie dell’umanità?

Una figura che fa discutere
Don Milani farà discutere per l’ostracismo a cui il Sant’Uffizio condanna nel 58 Esperienze pastorali e per il processo per apologia di reato nel 65 dopo la Lettera ai Cappellani militari della Toscana in difesa dell’obiezione di coscienza. Molto più accese saranno le reazioni alla pubblicazione della più famosa Lettera a una professoressa. Ma la grande attenzione che gli viene riservata oltre i confini ecclesiali è anche frutto di una strumentalizzazione da parte della stampa liberale e comunista, iniziata quando era ancora vivo, che ne sottolineava il profilo contestatario, di prete in rotta con le gerarchie, critico verso il mondo padronale e borghese.
È vero, Lettera a una professoressa divenne ben presto un formidabile atto d’accusa a una scuola che, eludendo il dettato costituzionale, perpetuava le distinzioni di classe e l’emarginazione dei figli di contadini e operai. Un testo che molti lettori non credenti e di sinistra interpretarono come anticipazione della rivolta studentesca del 68, senza però vederne le radici spirituali. Ancora oggi si fa fatica a riconoscere che in don Milani tutto muove da una religiosità profonda, rigorosa e coerente. La canonica, dove faceva scuola a tempo pieno, «(…) non doveva avere nulla in comune con la Casa del Popolo. Quasi tutto in comune con un monastero benedettino», scriveva in Esperienze Pastorali. Il servizio agli ultimi, ai poveri più poveri, come i piccoli figli degli operai di Calenzano e dei contadini di Barbiana, è stato il suo modo di servire la Verità, di rispondere a quella chiamata che aveva trasformato il rampollo di una delle famiglie più ricche e laiche di Firenze in un apostolo della Parola: «Dio – ripeteva – mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare e io non me la sento di dirgli che ho predicato quando so con certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare». Il primo compito del prete è quello di farsi capire, di aprire le orecchie e la lingua di un popolo fatto di «sordomuti» perché possano sentirsi finalmente liberi di scegliere. Per don Milani fare scuola significa certamente riscattare la dignità dei poveri, renderli consapevoli dei propri diritti, capaci di tenere testa al potere ma è soprattutto un modo, come ha ricordato papa Francesco, di «risvegliare l’umano per aprirlo al divino».
Rimuovere questa dimensione spirituale e pastorale per fare del priore di Barbiana solo un alfiere dei diritti di cittadinanza significa non capire la verità della sua testimonianza.

Una scuola per l’uguaglianza
Sul maestro don Milani si è scritto e detto moltissimo e il suo insegnamento resta ancora prezioso. Barbiana è stata un esempio di nuova pedagogia e nuova didattica, aperta ai contributi e alle sollecitazioni che venivano dall’esterno, che intrecciava tecnica e teoria, cultura e vita quotidiana. Una scuola accogliente, che include tutti e non scarta nessuno. Don Lorenzo credeva nella forza liberante della Parola ma per questo doveva prima offrire sapere e istruzione a tutti: «Solo la lingua fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli. Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti dalla voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata: “i capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere». L’ambizione a cui don Lorenzo spinge i suoi ragazzi è quella di diventare cittadini consapevoli dei propri diritti e per questo era un maestro esigente, non concepiva la ricreazione e non concedeva vacanze. Non si poteva perdere tempo, nel tempo pieno di Barbiana, perché il divario tra i signorini e i poveri era troppo grande. Don Milani può dire ancora molto in un Paese che registra tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa: una dispersione esplicita, di quanti lasciano prima di avere il diploma di scuola media, e una implicita tra chi non abbandona la scuola ma non riesce a raggiungere i risultati adeguati con il proprio curriculum di studi. La povertà educativa colpisce quasi 1 ragazzo su 4, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di figli dei figli dei poveri. Dobbiamo interrogarci se la scuola pubblica, una delle fondamenta della vita civile, è ancora in grado di esercitare la sua funzione primaria che don Milani indicava nell’art. 3 della Costituzione, quella di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Gli obiettivi del Centenario
In questo Centenario vorremmo far parlare don Milani depurando la sua figura da interpretazioni non sempre fedeli e ricollocandolo nella Chiesa e nell’Italia del suo tempo. Rileggere le sue lettere può diventare un’opportunità per riscoprire quel metodo così moderno ed educante di scrittura collettiva e provare insieme a scrivere una nuova pagina della vita della Chiesa e del nostro Paese.
Sul versante ecclesiale pensiamo di organizzare un convegno su don Milani e la chiesa a Firenze. È un momento straordinario, in cui si incontrano personalità come don Bensi, monsignor Dalla Costa, La Pira, padre Balducci, don Facibeni, Fioretta Mazzei. Al cuore di questa spiritualità ci sono gli interrogativi di don Lorenzo sulla comprensione della Parola tra i suoi operai e parrocchiani di Calenzano. La scuola popolare di San Donato e poi quella di Barbiana sono la risposta creativa e rivoluzionaria alla ricerca assillante di don Lorenzo di una modalità di evangelizzazione autentica. La crisi della comunicazione e le difficoltà di evangelizzazione di tante parrocchie hanno oggi forme e cause diverse ma non sono sfide minori di quelle che avvertiva settant’anni fa don Milani. Ma ci sono altri aspetti dell’eredità di don Lorenzo che intendiamo riportare all’attualità.
La sua fedeltà alla Costituzione, stella polare del suo magistero educante, sarà esplorata sia sul versante sociale e culturale che su quello etico. Cos’altro vuol dire l’espressione I care che non a caso contrappone al me ne frego fascista se non partecipazione alla vita civile, impegno per gli altri, cura dei beni comuni? Quel «mi importa» è a ben vedere il nocciolo della buona politica che sa affrontare e risolvere i problemi insieme, che forma «cittadini sovrani e coscienti».
La dignità del lavoro è stata una sua preoccupazione costante. Il mondo operaio di Calenzano e quello contadino del Mugello lo avevano costretto a fare i conti con la durezza della condizione dei salariati e dei disoccupati, di famiglie cariche di figli in miseria, con le pretese dei padroni e le rivendicazioni operaie. Don Milani non gira la testa altrove, si fa carico di quei drammi, si schiera dalla parte dei più deboli, si appella alla Costituzione nella difesa del diritto di sciopero, dei principi di uguaglianza e di giustizia sociale. E quando afferma che chi non ha parola è senza potere non è difficile pensare alle nuove forme di lavoro precario e sottopagato, allo sfruttamento inaccettabile degli immigrati nelle nostre campagne, ai tanti lavoratori con salari che non consentono di raggiungere una vita dignitosa e libera, come ancora prevede la Costituzione. La sua testimonianza appare poi di straordinaria attualità quando affronta il tema dell’obiezione di coscienza e del servizio al bene fondamentale della pace. Nella Lettera ai cappellani militari rilegge cento anni di storia e di guerre per smontare la retorica bellicista associata al concetto di Patria e nella successiva Lettera ai Giudici analizza più a fondo il dilemma tra obbedire e obbiettare, tra leggi giuste e leggi ingiuste e si sofferma sui rischi di un conflitto nucleare per concludere che «(…) non esiste più una “guerra giusta” né per la Chiesa né per la Costituzione».
Non so come avrebbe giudicato l’invasione russa e la guerra in Ucraina. Ma sono certa che ci avrebbe messo in guardia dalla tentazione, sempre presente, di usare una causa giusta per giustificare la guerra. Sono convinta che bisogna sostenere e aiutare il popolo ucraino e considero molto pericolose le spinte imperialistiche e nazionalistiche. Sono però altrettanto convinta che nel cuore dell’Europa si stia ormai combattendo una guerra mondiale e occorre fermare al più presto questa escalation.
Non possiamo non condannare le orribili atrocità che la guerra porta con sé: crimini contro l’umanità, distruzioni, impoverimento delle popolazioni. Dobbiamo interrogarci sulle conseguenze economiche e sociali di questa devastazione sui paesi europei. Ma se dopo un anno di battaglie feroci l’unica discussione aperta è sul tipo e la quantità di armamenti da inviare all’Ucraina, la sconfitta della politica è evidente. Non c’è ricerca di vie negoziali e diplomatiche che mettano fine ai combattimenti, non si discute di come raggiungere un cessate il fuoco e men che meno di come avviare una conferenza di pace. Al contrario, da una parte e dall’altra, si sente parlare di combattere fino alla vittoria. Siamo ancora prigionieri di un pensiero vecchio e il principio: «per la pace prepara la guerra» è tornato imperante. Ma se leggo don Milani trovo una chiara ispirazione: «se vuoi la pace prepara la pace».