di Aldo Bondi
Con la figura di don Lorenzo Milani e con la sua eredità culturale e spirituale, Ernesto Balducci sviluppa idealmente un confronto che si arricchisce ed evolve nel tempo. Una riflessione (che trova spazio soprattutto sulle pagine di «Testimonianze») sulla figura del priore di Barbiana e sulla sua esperienza pastorale a fianco degli ultimi e sul fronte della scuola. Ed è l’attenzione all’educazione e alla formazione dei giovani ad accomunare fin dall’inizio queste due figure, diverse per estrazione sociale, formazione e percorso esistenziale, ma convergenti sul valore rivoluzionario della parola e della scuola nel riscatto degli ultimi.
«Un giorno o l’altro viene uno, tenuto ai margini della grande impresa
perché un po’ pazzo, che insieme a un gruppo di bambini senza
nemmeno la licenza media, riesce a metterci in testa il dubbio che
bisogna ricominciare da capo perché si è sbagliato una cifra, la prima cifra.
Il pazzo se ne va e ci lascia col nostro dubbio. Ma è come se in una
grande diga si fosse manifestato un cretto, quasi invisibile.
Il regno di Dio comincia sempre così»1.
Li univa l’impegno per la formazione delle giovani generazioni
Nel corso dei suoi numerosi interventi pubblici su Milani, Balducci sottolinea spesso i tratti autobiografici antitetici che lo differenziano dal priore di Barbiana: la famiglia e l’ambiente di origine, la formazione culturale e umana, l’itinerario percorso per approdare al radicalismo evangelico, il temperamento e la disponibilità al dialogo con tutti, ambienti borghesi e non borghesi. Raramente accenna al fatto che li accomuna fin dall’inizio del loro ministero sacerdotale: essersi sempre occupati di scuola, educazione e formazione delle giovani generazioni.
Nel 1948, l’anno dell’entrata in vigore della Costituzione e del duro scontro elettorale tra le forze politiche che l’avevano partorita, il giovane cappellano di San Donato a Calenzano, convinto della necessità di rinnovare in profondità una pastorale inefficace, e che il possesso della «parola» e lo sviluppo dello spirito critico fossero il prerequisito indispensabile per un’autentica comprensione della Parola di Dio, dava vita alla sua Scuola popolare nella consapevolezza che «portare non la pace ma la spada» fosse salutare per la vita della parrocchia e per gli stessi benpensanti del paese, attaccati alla tradizione e custodi dell’ordine costituito.
In quello stesso anno lo scolopio Balducci dirigeva il convitto e insegnava religione alle Scuole Pie Fiorentine e, pur coltivando interessi letterari – studiava all’Università, celebrava la Messa degli Artisti nella chiesa di San Gaetano e iniziava la sua attività di pubblicista e di conferenziere – si occupava delle sorti del suo ordine religioso, denunciandone apertamente la grave crisi in un momento in cui i confratelli celebravano entusiasti un’inaspettata crescita quantitativa. Risucchiati dalla vita temporale della scuola e del collegio, a contatto con ragazzi per lo più di buona famiglia, individualisti e ingenerosi, avvezzi a «una religione di costume»2, gli scolopi si sono allontanati, più di altri sacerdoti, dalla «assoluta dedizione a Cristo». Per tornare ad essere, come in origine, sacerdoti educatori hanno bisogno di una «vera cultura» che alla conoscenza profonda della materia di insegnamento affianchi il nutrimento della teologia e riscoprire quel sensus Christi che dà calore all’insegnamento e si comunica al cuore di chi ascolta3.
Milani: «un samaritano dell’intelligenza emarginata»
Due preti esigenti e scomodi che vivono con intensità la loro scelta di vita e fin dall’inizio del loro ministero sacerdotale reagiscono vigorosamente all’inerzia dei rispettivi contesti operativi. Che si tratti di due sacerdoti che si muovono su piani diversi ma nella stessa direzione, emerge già dal primo scritto di Balducci su Milani. La lettura di Esperienze pastorali gli ha suscitato non poche perplessità e qualche irritazione, messe subito a tacere da «(…) un appassionato consenso (…) più che alle tesi particolari, alla tremenda serietà di questo prete», che ha scelto «(…) le vie dell’ira, vie ardue da mozzare il fiato anche ai profeti», diverse da quelle seguite dallo scolopio teologo, per realizzare «(…) una critica senza appello alle ipocrisie della civiltà occidentale e al conformismo apostolico». Due i rilievi critici: la Scuola di Calenzano non è forse uno «strumento illuministico» che assolutizza il «(…) momento scuola e più in generale il momento concettuale e verbale della cultura»? Perché nessun rilievo a quell’importante momento di esperienza cristiana che è una «(…) liturgia ricondotta alla sua primitiva potenza pedagogica»4–5?
Osservazioni non marginali, dichiarate «del tutto risolte» nel 1977, quando Balducci riconosce che nel 1958, da buon «maritainiano», non aveva compreso che «(…) la scuola come Milani la faceva era già in sé un processo di illuminazione evangelica (…) era vangelo in atto. Il samaritano della parabola non si cura del viandante ferito per portarlo a Dio, se ne cura per portarlo alla salute (…). Milani era un samaritano dell’intelligenza emarginata»6. Sembra sopravvivere il rilievo sulla disattenzione nei confronti del rinnovamento liturgico che è ripreso dieci anni dopo, come «una lacuna» che il priore di Barbiana avrebbe potuto colmare negli anni successivi se avesse seguito il Concilio con più interesse. Tutto preso dalla sua scuola, non aveva percepito che «(…) il discorso pastorale postula un mutamento stesso del modo d’essere della Chiesa»: non è forse contraddittorio voler «(…) suscitare uno spirito critico nei giovani, con la convinzione che i giovani potessero restare critici in una Chiesa dove la critica era demonizzata, in una Chiesa che mette in primo piano l’obbedienza in assoluto»7?
Sul carisma di don Milani
La morte di Milani fu vissuta da Balducci come l’occasione per riflettere sul carisma di questo prete fuori dell’ordinario, e trarne insegnamenti e moniti per la sua stessa coscienza. Fin dall’inizio il convertito Milani ha affrontato il solo problema che vedeva, quello pedagogico, con tutto se stesso «fino ai limiti ultimi della coerenza», contro tutti i «cattivi maestri» che violano o turbano «(…) ciò che sommamente vale in un fanciullo che cresce: la coscienza, si trattasse di cappellani militari o di professoresse di scuola media»8. Immerso totalmente «nel suo particolare», soprattutto a Barbiana ha saputo dare una risposta universale e anticipato i tempi. Ha affermato «nella sua assolutezza il Vangelo» mettendosi in urto contro le istituzioni ecclesiastiche, le scuole cattoliche, i partiti e sindacati d’ispirazione cristiana, ma restando fedele alla Chiesa e alle istituzioni ecclesiali (sacramento, culto). Ha scelto la parte giusta, quella dei poveri, non «(…) in nome dell’uguaglianza economico–politica, ma in nome del futuro del mondo, il cui germe è là dove i poveri imparano giorno dopo giorno, e forse senza saperlo, i modi e i tempi del giudizio di Dio». Dal suo carisma discende, ineludibile, il monito per tutti coloro che, come Balducci, pur adoperandosi nell’aiutare il mondo dei più poveri, hanno deciso di «rimanere nelle strutture costituite» obbligandosi «(…) forse al quotidiano compromesso nella speranza di servire la stessa causa», il Vangelo: «(…) ci siamo astenuti dal giudicare molte sue mosse incomprensibili perché avevamo da chiedergli di non giudicarci. Dalla trincea dei poveri egli ci ha invece giudicato più di una volta, ma tocca a noi sopportare in silenzio il suo giudizio, così vicino al giudizio a cui ci costringe il nostro esame di coscienza. Sapevamo che il futuro era dalla sua parte, non dalla nostra, che è la parte di un mondo ormai alla deriva». Ha scelto la via della rottura e della solitudine «(…) per far nascere in tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo germoglio della vergogna, che è appena la remota premessa di qualcosa di più, della nostra conversione»9.
Le successive letture che Balducci dà di Milani approfondiscono e sviluppano questi elementi interpretati sulla base dei «segni dei tempi», delle sollecitazioni provocate dal momento storico: non c’è svolta importante nel suo percorso che non sia accompagnata da una progressiva scoperta della consonanza col messaggio sempre più attuale di don Lorenzo. Nel 1970 la fede di Milani è interpretata alla luce della profezia di Bonhoeffer. Il fatto che la sua sia una «(…) una fede senza storia, caratterizzata da una fermezza assoluta nell’assenso alla verità cattolica, senza incrinature né inquietudine», senza attenzione a tutto quello che la teologia nuova stava proponendo, è perché a lui premeva quasi esclusivamente esistere in modo conforme al Vangelo10. Era come se riconoscesse che non avendo la Chiesa un linguaggio adatto per la società secolarizzata, «(…) è meglio stare zitti, è meglio ridurre il Vangelo a vita vissuta e la vita è sempre un linguaggio che vale»11 e, secondo il binomio di Bonhoeffer, operare la giustizia e pregare: una preghiera che «(…) non aveva molti momenti riservati a Dio, era un’oblazione totale di sé». Trasferendo la fede nel rigore ascetico di una vita quotidianamente spesa al servizio dei suoi ragazzi, egli attribuiva al suo agire il valore di trasparente e spontaneo annuncio di Dio. Il trapasso dalla fede all’impegno con i poveri fisicamente a lui vicini12 era senza mediazioni, come lo era, in senso inverso, quello dall’impegno del samaritano alla fede in Dio.
Un’alternativa gravida di universalità
La forza profetica di Lettera a una professoressa fu afferrata da Balducci non subito, ma dopo la «frattura culturale» del 68. Nel 71-73 si rese conto di come quel libro avesse colto le cause del disagio del mondo contemporaneo e quanto fosse gravida di universalità l’alternativa pedagogica sperimentata a Barbiana13. Preziose le indicazioni per analizzare la profonda crisi dell’istituzione scolastica a livello mondiale – una vera mutazione antropologica secondo il Rapporto Faure – che in Italia si tentava di rigenerare con la dibattuta gestione sociale della scuola, mentre tra i cattolici e nella classe dominante si stava insinuando la pericolosa tesi della descolarizzazione. Anzitutto la Lettera ha smascherato la mancanza di serietà della scuola sul piano dei contenuti, e dei criteri e meccanismi di selezione. È proprio su questo terreno che la scuola va profondamente rinnovata, e non abbandonata come vorrebbero i descolarizzatori, fra cui non si può certo annoverare Milani. Per trasformare programmi e contenuti occorre aprirla alle istanze creative che sostanziano dialetticamente la società, affidandone la gestione alla comunità civile, «al suo soggetto primo, che è il popolo», idea che «(…) obbedisce, almeno nelle intenzioni, alla tesi milaniana sui rapporti che dovrebbero correre tra scuola e società concreta»14. Ne conseguirebbe un rinnovamento radicale che renderebbe l’istituzione scolastica «funzionale al cambiamento della società» e favorirebbe la ricomposizione tra cultura e lavoro15.
Di qui la necessità di un’educazione politica nella scuola che persegua l’obiettivo di «educare l’uomo a servire la società», nel senso di mettere i giovani in condizione di cambiare la società e di inserirsi nel consorzio civile con obiettivi concreti. Chi sostiene che a scuola non si deve far politica, fa in realtà politica, perché «l’agnosticismo morale» evita le passioni ideologiche e crea quella «(…) noia che è la condizione psicologica ideale per il mantenimento dell’ordine costituito»16.
Particolarmente apprezzate le «idee regolative» dell’esperienza di Barbiana: lo studio è una cosa seria, «(…) l’alunno e il maestro sono vincolati ad un impegno che non consente indulgenze permissive»; la severità autoritaria del docente, da non confondere con l’autoritarismo del burocrate, garantisce la tensione morale del gruppo verso il fine comune, è del tutto funzionale alla libertà; il processo educativo è un processo comunitario, circolare, in cui ciascuno è nello stesso tempo discepolo e maestro; il gruppo è al servizio del compagno meno capace «(…) per condurlo al livello dello scambio corale e gioioso del sapere»17.
Come nella Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire e nella Teologia della liberazione18, il presupposto di fondo è «(…) una fede sincera sulla potenza creativa che ha in sé ogni coscienza», credere cioè che la vera cultura sia «(…) una progressiva e mai compiuta liberazione della coscienza dalle acquisizioni acritiche» per costruirsi con tutti gli strumenti necessari, la propria autonomia di giudizio e di intervento per cambiare il mondo in cui vive19. Una liberazione frutto di «un proposito che potremmo chiamare sicuramente evangelico»20. Non c’è alternativa per Milani: «(…) o la scuola insegna ad essere liberi, anche liberi di ribellarsi, o essa è lo strumento del potere e nemica dei poveri», per riscattare i quali basta dar loro lo strumento della «parola»21. L’obiezione che per il loro riscatto occorre invece eliminare «la scuola classista» cambiando la società a livello della struttura economica, conferma che «(…) lo spazio in cui si muoveva don Milani non era né quello della teologia né quello della politica», ma lo spazio pre-politico, di natura etica, in cui «(…) la coscienza è in grado di liberarsi dall’ordine presente»22. Il che rappresenta un limite e nel contempo la forza del messaggio di don Lorenzo, la grandezza della sua scelta unilaterale: «Egli ha compreso con tutto se stesso che dare la parola a un muto è già un evento del Regno di Dio» e per questo fine «ha venduto tutto» e ha messo in second’ordine tutte le altre questioni, che ha lasciato «(…) a noi, gente che viviamo più nella polvere del provvisorio e senza nessuna capacità creativa e inventiva, gente mediocre. Lui ha compiuto una scelta che lo pone molto più in alto di noi»23.
Se i giovani non sono più chiusi «nella tribù»
Tradurre storicamente la lezione di Milani vuol dire rifiutare «(…) la cultura di classe e scegliere una cultura che sia, almeno virtualmente, universale» e, in qualunque scuola ci si trovi, anche in quella dei «figli del dottore», guidare criticamente la coscienza dei giovani a scoprire «(…) il carattere abusivo della cultura di cui sono eredi, fatta di parole e non di cose, e a rintracciare in se stessi, nella propria umanità profonda, la polla viva dell’universalità»24. È, tuttavia, soprattutto la coscienza degli oppressi e degli emarginati, «(…) costretti ad aderire ai ritmi e ai modi elementari della vita», che racchiude «(…) una cultura propria molto più umana di quella del dominio, trasmessa dalle scuole»25. Proprio in virtù della loro esperienza di vita da emarginati, il loro sapere è molto più ricco di chi vive in condizioni di privilegio. Una specificazione importante, quest’ultima, che Balducci ricava da Lettera a una professoressa e che ora sottolinea perché essenziale alla definizione dell’uomo planetario, nella cui orbita è già entrato. Abbandonata l’attività di docente per dedicarsi a quella sempre più impegnativa di conferenziere e alla stesura di manuali scolastici e di opere divulgative, anche lui ha fatto la sua scelta unilaterale e trova sempre più affini e attuali la lezione di Barbiana e la folgorante polemica sull’obiezione di coscienza. Già nella Lettera ai cappellani e nella Lettera ai giudici, quando difende il valore dell’obiezione di coscienza e della lotta non violenta contro le strutture oppressive, Milani compie un’autentica rivoluzione, l’unica vera rivoluzione, perché sancisce il primato del soggetto sull’oggetto, della coscienza sulla struttura.
Senza la «rivoluzione culturale», ogni altra rivoluzione genera forme oppressive ed è destinata al fallimento, come dimostrano i paesi del socialismo reale, dove non si è creduto al ruolo della cultura critica e ci si è affidati alla cultura fatta, manipolata dal potere.
Il divario che, si è visto, la Lettera coglie con lucido vigore, tra ciò che la scuola–apparato del sistema propone e le attese vere delle nuove generazioni, diventa ora, nel 1984, la discrepanza tra il ragazzo che ha dimensioni planetarie, che «(…) non è più chiuso nella tribù o nell’orizzonte particolare dei suoi padri», e una scuola che gli offre la cultura di ieri, che non risponde ai problemi che si agitano dentro di lui. La soluzione è da cercare nel principio–guida della pedagogia di Barbiana, esteso «nelle dimensioni opportune, cioè planetarie»: «(…) una scuola o è uno strumento di uguaglianza democratica o è un nefasto strumento del potere».
La gran parte del mondo è analfabeta, ma lì si è rifugiata la sapienza: «(…) ci sono tante Barbiane. Migliaia di Barbiane nel mondo! E forse la verità, oggi, si è rifugiata lì, perché la nostra è una verità manipolata e ideologica: è catturata da una logica di potere».
Il presupposto dell’atto educativo come liberazione, ovvero l’«atto di fede nella coscienza di ogni uomo», comporta adesso l’esortazione a diffidare dell’uomo così com’è, e a credere in ciò che l’uomo potrebbe essere, nelle possibilità latenti dell’uomo, nell’uomo inedito. Non si può essere educatori senza questa fede26. Già a Calenzano Milani aveva capito «qualcosa che solo oggi noi comprendiamo bene»27. Analogamente, ora che la vittoria del modello della civiltà industriale ha determinato «l’omologazione delle classi oppresse», le contraddizioni «toccano la radice antropologica» e la coscienza di classe è soppiantata dalla «coscienza della specie» perché siamo minacciati «nella nostra radice biologica», solo oggi comprendiamo a pieno la portata della «rivoluzione culturale» di Milani, una rivoluzione che «non sopporta omologazioni di nessun tipo».
A maggior ragione bisogna trasformare la scuola in un luogo di formazione della coscienza che sappia far cogliere in modo critico «la menzogna della società» in cui viviamo, nel «luogo della rivoluzione», di una rivoluzione «(…) che non oppone violenza a violenza, ma che toglie alle radici ogni possibilità di germinazione della violenza».
L’alternativa richiesta dal nostro tempo è quella «(…) della cultura della pace e Milani è, a tutti i titoli, un modello di maestro della pace» perché nella sua scuola, che non si basa sulla «cultura del libro» ma sul raccordo costante fra riflessione e fatti della società, «gli uomini si educano insieme» (P. Freire).
«Fra laicità del discorso e intenzione evangelica»
Dal priore di Barbiana anche gli uomini di Chiesa hanno qualcosa da imparare. L’insegnamento fondamentale deriva dalla potente sintesi, realizzata sul piano esistenziale e non elaborata teologicamente, «fra laicità del discorso e intenzione evangelica».
Agli «uomini del Vangelo» insegna «(…) di accettare la soglia della laicità come soglia evangelica, di rifiutare ogni confessionalismo, di accettare i problemi posti dalla società di oggi come i veri problemi di misura della fede cristiana e di risolvere quei problemi con un linguaggio che sia il linguaggio dell’uomo».
A livello ecclesiale smentisce il comportamento di «noi chierici» che abbiamo ingenerato «(…) nei fedeli la convinzione che essi non sono in grado di parlare di Dio, né del Vangelo», compiendo una «espropriazione radicale» che «è la ragione di fondo della morte del cristianesimo, del suo stato di paralisi»28. Ancora più attuale è, nel 1992, la lezione della Lettera. La rivoluzione tecnologica e l’invasione dei mass–media stanno accelerando l’omologazione del «(…) mondo occidentale (…) senza più Est e Ovest» e la stessa scuola, a fronte di una «manipolazione onnipresente», sta perdendo sempre più la sua incidenza nel processo formativo. Mentre questo mondo manipolato continua a presumere di possedere «la cultura autenticamente umana», provvidenzialmente arrivano i ragazzi delle «Barbiane del mondo» a dirci che ci comportiamo «come se il mondo fossimo noi»29 e a ricordarci che abbiamo il compito «(…) di partire dal presupposto che esse hanno dei doni da offrirci, che la nostra è la cultura del dominio (…). La storia comincia ora. Io penso che la grande metafora della Lettera a una professoressa ci può far luce per capire questo futuro»30.