di Severino Saccardi

La «parabola» (di perenne attualità) di Pierino e Gianni; la Lettera a Pipetta (che combina, ma anche distingue, vicinanza al povero e libertà di coscienza); l’esempio di una piccola-grande scuola in cui si parla di Socrate e si coltivano idee aperte alla comunanza delle culture. Sono mille le suggestioni che ci arrivano, ancora, dalla singolare, e straordinaria esperienza del prete-maestro Lorenzo Milani. Una lezione di cui è doveroso fare memoria e che è giusto ripensare non per ricavarne un prontuario di precise indicazioni politiche o sociali, ma per rammentarsi (seguendo il suo insegnamento di fondo) di dare spazio al primato della coscienza e di fare un buon uso della ragione critica nel nostro «mondo della complessità».

Un’idea «planetaria», che fermentava già
Si è da poco concluso il Centenario della nascita di Ernesto Balducci. Un anno denso di iniziative1, che hanno registrato una grande partecipazione. Adesso siamo nel Centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Erano, sostanzialmente, coetanei, i due preti «di frontiera»2. Se ne andò presto (26 giugno 1967) il priore di Barbiana, stroncato da una grave malattia. Eppure, ancora oggi, ormai a distanza di molti anni, risalta il carisma di don Milani (per riprendere il titolo dell’articolo, molto bello, che Balducci gli dedicò nello «storico» n. 100 di «Testimonianze»)3. Adesso, in questo nostro volume (realizzato insieme al Comitato per il Centenario, che ringraziamo per la preziosa collaborazione), i contributi che ricordano la lezione di don Lorenzo e che ne sottolineano l’attualità, sono raccolti nella rubrica «Uomo planetario». Che riprende, nella denominazione, un’espressione e un’immagine-simbolo tipicamente «balducciane». Ci è sembrata una destinazione naturale. Anche se, negli anni in cui viveva ed operava il priore di Barbiana, l’uomo planetario non era ancora stato concepito e scritto, la cultura della mondialità e l’idea dell’interdipendenza fra i popoli e le culture, entrambi, Balducci e Milani, le avevano già ben chiare. Una idea che era, del resto, al centro dell’impostazione e dell’azione politico-culturale di Giorgio La Pira. Don Milani, sul poggio sperduto di Barbiana, faceva scuola, e invitava le menti ad allargare l’orizzonte, con il planisfero e il mappamondo. E dal suo isolamento (come tante volte è stato fatto rilevare) è al mondo che il prete-maestro ha saputo parlare. Gianni Criveller (come ci racconta nel suo contributo) ha tradotto Milani (e Mazzolari) in cinese. Messaggi che hanno la forza, e il tocco, o il dono, dell’universalità. È una constatazione fondamentale da cui partire. Non si tratta, sia ben chiaro, di indulgere a considerazioni di tipo meramente celebrativo (né, d’altra parte, niente di puramente celebrativo c’è stato, nelle iniziative dedicate, nel corso del 2022, ad Ernesto Balducci). Importante è invece tornare a riflettere sulla memoria e attualità di una lezione. A farne adeguatamente, e correttamente, memoria è certamente servita la paziente, qualificante e utilissima operazione «artigianale» che ha portato a confrontarsi con l’insieme dei testi «milaniani», di cui il grande lavoro dell’«Archivio Milani» (come racconta benissimo F. Ruozzi) e la raccolta di tutte le opere nei Meridiani Mondadori4 hanno contribuito a dare compiutamente conto. Abbiamo, da questo punto di vista, più elementi per rispondere alla domanda di fondo che Giorgio Pecorini (amico «storico» e frequentatore di Barbiana) poneva nel titolo di un suo libro degli anni Novanta: Don Milani! Chi era costui?5. Anche in questo nostro volume, gli amici che lo hanno arricchito con i loro contributi, hanno provato a fornire alcune risposte. Chi scrive, in apertura, si limiterà a toccare qualche aspetto della figura e dell’opera del priore e a proporre un abbozzo di ragionamento sul tema (importante e delicato) dell’attualizzazione del suo messaggio.

Due figure così vicine e, insieme, così diverse
Partirei con qualche breve considerazione sul rapporto Milani-Balducci. Come è capitato già di rilevare, si tratta di due figure, di due personalità, di due esperienze che, certo, avevano importantissimi tratti in comune. A partire dalla condivisione di temi e principi. La scelta degli ultimi. Il primato della coscienza (un principio quasi protestante, verrebbe da dire). L’impegno per una Chiesa sganciata da collateralismi politici e scoperte dinamiche di potere. Il tema della pace. Il dialogo tra i popoli e le culture in un mondo caratterizzato da una crescente interdipendenza fra i diversi comparti dell’umanità. Gli elementi di comunanza c’erano, dunque, ed erano di quelli decisivi. Ma, detto questo, è impossibile non mettere in luce anche le diversità (di linguaggio, di impostazione, di modi di sentire) che fra di loro esistevano. Due destini paralleli, segnati da percorsi diversi, anche se alla fine destinati ad incontrarsi e ad incrociarsi sul terreno delle idealità e delle comuni battaglie civili (come quella per l’obiezione di coscienza). Vivevano, come si sa, di opposti «sensi di colpa», se così vogliamo dire. Balducci si sentiva un «traditore» della sua «tribù» di povera gente amiatina per essersi incamminato nel mondo privilegiato dei chierici e degli intellettuali. Il suo imperativo era quello di rimanere idealmente ed eticamente legato a quel mondo, che provvidenzialmente gli impediva di «civilizzarsi» fino in fondo, cioè di integrarsi nei meccanismi delle compromissioni con il potere. Don Milani sentiva gli anni della sua giovinezza in un ambiente familiare e sociale colto e privilegiato come gli anni dell’oscurità, del buio e dell’errore (c’è un qualcosa che sembra riecheggiare S. Agostino, in questo), da riscattare con la vicinanza, la prossimità, anche fisica ai più poveri dei poveri, ai più ultimi degli ultimi. Come i suoi giovani alunni contadini e montanari del Mugello. Il ripudio del mondo borghese è totale e senza appello. Balducci, su questo, ha un approccio assai diverso. L’essenziale non è da dove si viene, ma dove si va. E, dunque, il figlio del minatore fattosi prete e intellettuale può tranquillamente predicare ai «borghesi» della Badia Fiesolana per scuoterne le coscienze. E può fondare e animare una rivista di riflessione culturale come «Testimonianze». Roba da privilegiati e da intellettuali di sinistra, pensava don Milani (che, pure, di Balducci, ricambiato, aveva considerazione). Mi piace, in merito, richiamare il significativo e autoironico ricordo che Ferdinando Cancedda, «storico» redattore di «Testimonianze», ripropose qualche anno fa sulle pagine della nostra rivista6. Quella volta che don Milani venne a «Testimonianze». Anzi, che a «Testimonianze», potremmo dire suo malgrado, fu invitato. È una vicenda che rivela un reciproco imbarazzo. Cancedda riporta le parole con cui Milani stesso rivive quel singolare incontro «(…) “Sono state due ore di inferno per me e per loro. Si parlava due lingue: per me era lo stesso che essere all’estero, ma all’estero senza lingua! E sono cattolici ferventi anzi eroici (la loro rivista si chiama Testimonianze) e sono per di più fervidi ammiratori del mio libro”»7. Parlare, per certi aspetti almeno, lingue diverse. Eppure, volere ed avere a cuore le stesse cose. Ed essere oggi, giustamente, ricordati insieme. Questa la sintesi estrema del rapporto tra Milani e Balducci, cui quest’ultimo (come ricorda Aldo Bondi) ha poi dedicato più di una riflessione nel corso della sua vita e nell’ambito della sua opera. La vera convergenza fra i due, non sembri strano, è data proprio da Barbiana. Non Barbiana in senso geografico o fisico. Non la Barbiana del Mugello, che pure è divenuta luogo di meditazione, raccoglimento e suggestione. Diciamo quel che Barbiana rappresenta. Le «Barbiane del mondo», come le definì da par suo Balducci, che sono ovunque ci sia marginalità e sfruttamento (come sottolinea, da sempre, Eraldo Affinati) e dove pure è possibile individuare percorsi di riscatto, di acquisizione di consapevolezza civile, di cammino verso la democrazia.

Parlare di don Milani è come parlare di un multiversum
Non è semplice, peraltro, ricostruire a distanza i diversi aspetti della personalità e dell’esperienza di don Milani.
È come parlare di un multiversum. Come anche gli interventi di questo volume tornano a ricordare. Del priore di Barbiana risalta immediatamente il forte impegno civile. L’I care. Il richiamo alla Costituzione. Il tema del riscatto sociale. Erano i suoi temi di grande e vero maestro di «educazione civica». Ma (come puntualizza Rosy Bindi) sarebbe fuorviante parlare di don Milani senza ricordare che egli era, prima di tutto, un credente e un prete. Un credente che aveva la fede forte e salda che hanno i convertiti. Una fede che, si dice, avrebbe sentito germogliare scavando dentro sé stesso alla ricerca di quell’armonia e di quell’autenticità che gli veniva stimolata dall’insegnamento del pittore Staude (come ricorda Sandra Gesualdi), da cui egli prendeva lezioni soprattutto per cercare una sua strada. La pittura non è solo attenzione alle forme. Implica lo scavo dentro l’essenza delle cose. Da lì iniziò il percorso del giovane Lorenzo. Che lo avrebbe ancorato alla sua fedeltà allo spirito del Vangelo. Una volta, Lodovico Grassi (che, giovanissimo, era stato fondatore di «Testimonianze» con Balducci e che ne sarebbe stato, poi, anche direttore) definì la fede di don Milani in modo apparentemente singolare. Disse che la sua era una fede quasi di tipo «positivistico». Un aggettivo paradossale che voleva, efficacemente, significare che, per lui, la fede e l’esistenza di Dio erano date per sicure, indiscutibili. Ma proprio perché Dio sicuramente c’è, l’essenziale non è stare a fare proselitismo verso gli altri. Con gli altri si lavora e ci si impegna nel fare ciò che è giusto. Dio emergerà nel lavoro che si farà con e per il prossimo. La fede non è un emblema da esibire. È seme e lievito. C’è anche, nel modo di credere di Milani, una forte «fedeltà alla terra». Un mettere l’accento sulle opere, sulle azioni da compiere (come avrebbe detto Balducci) nella «polvere della storia». Un atteggiamento che si motiva con il riferimento allo spirito del Vangelo, ma in cui c’è verosimilmente una traccia anche delle proprie radici ebraiche (la cui incidenza, se questo è vero, sarebbe rimasta operante al di là del sostanziale agnosticismo dell’ambiente familiare di provenienza). Nella vita, e nella storia, bisogna, allora, prendere posizione, schierarsi, quando questo è necessario. E dal prendere posizione (anche con forza e con ineguagliabile radicalità polemica) Lorenzo Milani non si sottraeva certamente. Era, anzi, questo, un tratto riconoscibilissimo (e, per alcuni, perfino «urtante») della sua personalità e del suo modo di rendere testimonianza. Si pensi al carattere esplicito, netto, «militante», verrebbe da dire, della sua «scelta di classe». A favore degli ultimi, dei diseredati, di coloro che vivono di lavoro e di fatica quotidiana. Un modo, come egli stesso ebbe più volte a ripetere, per rispondere al «classismo» vero, quello dei ricchi e dei signori che essi dissimulano sotto la veste dell’«interclassismo» mirante a mantenere la «pace sociale». Una «pace» tendente a perpetuare la sottomissione di chi nella scala sociale è già in posizione svantaggiata. C’è da dire che il «classismo» di don Milani (che, peraltro, avrebbe contestato, come abbiamo detto, questo termine se riferito alla scelta preferenziale in difesa dei poveri) ha più a che vedere con la radicalità del suo riferimento al Vangelo (e al Discorso della Montagna) che non, come talora si tende a pensare, con la vicinanza al marxismo. Posso sbagliare, ma ho anzi l’impressione che sulle implicazioni del marxismo e sulle caratteristiche politiche delle realtà storiche e politiche che ad esso ideologicamente si richiamavano il priore di Barbiana fosse assai più critico di altri esponenti del mondo cattolico «progressista» (come gli stessi Balducci e La Pira)8.

Dopo aver abbattuto la cancellata del «ricco»
Del resto (dice Valdo Spini), don Milani non era comunista. Non accettava, però, che, nello scontro ideologico generato dalla Guerra Fredda, la Chiesa si trovasse schiacciata in una posizione di acritico collateralismo politico con il «partito cattolico» e di sostegno sostanziale alle posizioni conservatrici e al privilegio sociale. I suoi «ragazzi» si sarebbero poi misurati con l’impegno sindacale e qualcuno di loro avrebbe transitato provvisoriamente anche per la sinistra socialista (perché il passo per arrivare al PCI era evidentemente troppo lungo). Bellissima, come tante volte è stato rilevato, la sua Lettera a Pipetta. Don Milani non ha dubbi. È a fianco nel militante comunista nella lotta per i diritti di chi è sfruttato. Senza alcun tentennamento. Eppure, il discorso cambia nel momento in cui insieme avranno sfondato la «cancellata del ricco». In quel giorno, avverte il priore rivolgendosi al compagno di viaggio, «io ti tradirò». È un passaggio altamente significativo, questo. Un avvertimento che mette in chiaro una questione di fondo. Cioè, che la libertà di coscienza deve essere mantenuta di fronte ad ogni tipo di potere, anche di quello che si dice «dalla parte del popolo». La libertà di coscienza, che ha una duplice connotazione: è quella del cristiano e quella del cittadino. Un messaggio, credo di poter dire senza forzare il pensiero di Milani, con una forte valenza antiautoritaria ed antitotalitaria. D’altronde, il tema della libertà è al centro dell’impostazione di Lorenzo Milani, come prete e come maestro-educatore. Come tanti autori qui ricordano, al centro dell’azione educativa di Milani c’è l’obiettivo (usando la parola come strumento principe) di rendere consapevoli i suoi alunni di poter diventare «cittadini sovrani». Un cammino, appunto, verso l’inserimento, adulto e consapevole, in una dimensione di libertà. Questo non significa, però, che il priore di Barbiana fosse un «libertario». Al contrario. Su questo ci sono stati, fin dall’inizio, molti fraintendimenti. Mi affiora un lontano ricordo di una trasmissione TV (nel rigoroso bianco e nero dell’epoca) del 1966 o 1967 (con don Milani, probabilmente ancora vivente) in cui, in un dibattito, veniva fatto riferimento alla Scuola di Barbiana. Io ero molto giovane e ne capivo, come si dice, il giusto. Ma mi colpì singolarmente un sussiegoso professore universitario che ripeteva ossessivamente che si trattava di «esperimenti anarchici». Niente di più lontano dal vero. È un tema complesso quello del rapporto autorità-libertà, a Barbiana. Un tema (a proposito di attualizzazione di un messaggio) su cui sarebbe interessante tornare a riflettere anche oggi (in un tempo che viene dopo la «morte dei padri», che già il Sessantotto pensò di poter proclamare). In quella sperduta scuola-parrocchia di montagna, in realtà, il maestro assumeva su di sé la responsabilità di indicare con mano ferma il percorso di crescita che avrebbe condotto alla libertà. Si negano vacanze, svago e ricreazione perché si sa che è per il bene degli allievi. Si sta a scuola tutti i giorni dell’anno (festività incluse) perché la stalla e il lavoro abbrutente nei campi sarebbero peggio e non farebbe crescere consapevolmente e civilmente. I movimenti della contestazione hanno poi pienamente fatta propria la critica del Priore alla selezione e alla scuola di classe e hanno fatto di don Milani uno dei riferimenti del Sessantotto. Ma sul tema complesso del rapporto autorità-libertà non potevano né capirlo né seguirlo. Come comprendere, del resto, fino in fondo, il messaggio ribelle di un uomo che resta peraltro «obbediente» (perdipiù all’interno di una istituzione come la Chiesa cattolica)?
Forse non è un caso che egli leggesse l’Apologia di Socrate9. In cui si parla di un grande maestro di libertà che viene condannato a morte per avere «corrotto la gioventù» e che alla condanna non si sottrae per non dare cattivo esempio e per non infrangere le leggi della città.

La parabola «eterna» di Pierino e Gianni
E oggi della (complessa) lezione di Milani cosa resta? Intanto, possiamo ripensarne il senso dopo un passaggio (a ragione, definito come «storico») che ha restituito, grazie alla visita di papa Francesco a Barbiana, alla memoria di Milani la piena considerazione e valorizzazione da parte di quella istituzione-chiesa10, a cui pure egli era sempre appartenuto, e alla cui approvazione, in vita, molto avrebbe tenuto. È stata così resa giustizia ad una storia costellata di incomprensioni, di lacerazioni, di contrapposizioni e sofferenze. Basti pensare alle immagini e alla ricostruzione dell’arrivo di quel giovane e incompreso prete alla chiesa e sul poggio di Barbiana, in una notte di maltempo e senza che vi fosse nemmeno la strada tracciata per potervi giungere. Il presidente Mattarella andrà adesso, a sua volta, a Barbiana a rendere omaggio, è da supporre, soprattutto alla testimonianza civile del priore. Barbiana, è d’altra parte, meta di visite di scolaresche, di gruppi di giovani e meno giovani. È molto importante. Bisognerà, però, fare attenzione, se posso dirlo con schiettezza, a non trasformare il ricordo di quell’esperienza (che fu comunque un’esperienza di rottura) in una sorta di riferimento edificante, evocato per scaldare e mettere in pace i cuori e le coscienze. Sia reso onore alla memoria di Milani e se ne conservi, appieno, il senso storico rapportandolo, se possibile, a quello che di utile e fecondo possiamo ricavarne nel contesto della nostra contemporaneità. Che davvero non è poco. Si pensi al valore della «parabola» di Pierino e Gianni. Il figlio del ricco e il figlio del povero. Che sembrano avere due destini già predefiniti e segnati di fronte a loro. I tempi sono profondamente mutati da quando don Milani evocava queste due emblematiche figure-simbolo. Ma il valore della parabola rimane. Ancora oggi ci sono i Pierini e i Gianni. E la loro esistenza e il loro riprodursi, sia pure in forme e in vesti mutate e, a volte, non riconoscibili, continua a porci problemi di ordine morale, politico e sociale. Oggi come allora, è sempre possibile, d’altronde, l’irrompere dell’imprevisto. La vicenda esistenziale dello stesso priore di Barbiana (che, di per sé, avrebbe dovuto essere un super-Pierino da manuale) ne è la testimonianza. Un «Pierino nato» che si impegna a far scoprire ai poveri (come sottolinea B. Becchi) il valore della parola (con la p minuscola e con la maiuscola). A dare tutto sé stesso alla scuola. La Parola. La Scuola. Che si confermano ancor oggi e ancor più come strumenti fondamentali di emancipazione culturale, umana e civile. Eccola, l’attualità della lezione e dell’eredità di don Lorenzo Milani. Un’eredità che, certo, molto ha fatto anche discutere. Si pensi al dibattito relativo alle distinzioni fra l’insegnamento di Milani e le diverse forme di «milanismo». A volte criticabili. Come quelle che hanno cercato o di riprodurre un modello, in realtà, inesistente perché l’esperienza di Barbiana non è riproducibile. O come altre che hanno frainteso il senso profondo di Lettera a una professoressa confondendo l’avanzamento culturale e sociale degli alunni più svantaggiati con l’esigenza di imbastire una «scuola facile» (e con la promozione sostanzialmente garantita). Che non è affatto ciò che (puntando ad un’azione educativa densa di riferimenti e contenuti) ha perseguito don Lorenzo. Il quale voleva non una scuola «leggera» o priva di ostacoli da superare, ma una scuola diversa. In cui lavorare perché, per quanto possibile, nessuno andasse perduto. Un’istanza che rimane di grande attualità (come ricordano, fra gli altri, P. Pedani, L. Seriacopi e G. Mannucci). C’è stata, come è noto, anche una accesa discussione sul (presunto) carattere «antimoderno» o «ideologico» delle posizioni di don Milani, che si sarebbe rivelato incapace di cogliere la profondità dei cambiamenti che nel frattempo si stavano realizzando (come l’istituzione della Media Unica). Si pensi a quel che, ad un certo punto, diceva un grande scrittore come Sebastiano Vassalli, il quale, se non sbaglio, definiva la figura di Milani come l’«ultimo muro» (rimasto in piedi) e l’«ultimo mito» della sinistra. Ma l’impressione, qui, è che Vassalli (e altri come lui) vedessero gli alberi (in certe rigidità o asprezze del messaggio milaniano) e non la foresta. Di modernità e anti-modernità abbiamo discusso molto anche l’anno scorso. Quando c’è stato il centenario non solo di Balducci, ma anche di Pasolini e di Bianciardi.
Ma, per quel che riguarda don Milani, mi pare si possa dire che egli non fosse affatto ostile in sé alla modernità (anzi!), ma ad un certo modo di procedere di uno sviluppo che promuovendo integrazione genera contemporaneamente nuovi meccanismi di esclusione. È per questo, non per altro, che Pierino e Gianni si ritrovano anche nel nostro «globale» mondo della complessità.

Nel mondo della complessità
Un mondo, si capisce, in continua trasformazione e non semplice da leggere. In questo senso, è evidentemente ben chiaro, che lezioni come quelle di Milani e di Balducci vanno intese non come una «vulgata» da ripetere semplicisticamente o come un insieme di ricette già pronte per l’uso. Ne va colto il significato di fondo, in un contesto che è carico di inedite contraddizioni. Come nella situazione odierna, sul versante internazionale. Dove c’è la «terza guerra mondiale a pezzi» (come si ricorda anche nel nostro «Tema») e dove c’è una devastante guerra in Europa. Di fronte a tutto questo, cosa pensare? Come operare? Che fare? Va cercata una bussola per orientarsi sulla base, appunto, di imprescindibili valori di fondo. Vanno perseguiti, con ostinazione e pertinacia, il dialogo e la pace, prima possibile e cercando ogni appiglio in questa direzione. Ma bisogna anche mantenere ferma la scelta di stare, sempre, dalla parte delle vittime. E bisogna ricordare che non c’è pace (o che essa non ha fondamento) senza il rispetto dei diritti umani e della sovranità dei popoli. Come, più volte, ci siamo trovati a riaffermare anche nei nostri Convegni di «Testimonianze». Questa è la via stretta che oggi ci è dato percorrere. Una via in cui muoversi seguendo l’insegnamento, che ci è stato dato, e di cui fin qui abbiamo parlato, del riferimento al primato della coscienza e alla capacità di discernimento della ragione critica. Ragionando, cioè da «cittadini sovrani» e da «cittadini del mondo». È il modo, probabilmente, più adeguato per conservare e far fruttificare il senso profondo di una lezione così limpida eppure, in un certo senso, «inafferrabile» (e non semplicisticamente imitabile o riproducibile, per la sua originalità) come quella di don Lorenzo Milani. Il quale, in ogni caso (come scriveva Balducci, concludendo il suo articolo dedicato al priore nel n. 100 di «Testimonianze»11, con parole che fanno ancor oggi riflettere), era riuscito «(…) a far nascere nella coscienza di tutti noi, prelati, preti, professori, comunisti, radicali e giornalisti, il piccolo amaro germoglio della vergogna, che è appena la remota premessa di qualcosa di più, della nostra conversione».