Terza Sessione: 19/05/2022
Intervento di Marta Dassù (in videoconferenza)
Mi piacerebbe molto parlare del dopo guerra, purtroppo siamo alle prese con il ritorno della guerra in Europa, scenario rispetto a cui non eravamo mentalmente, psicologicamente, economicamente preparati. Il ritorno della guerra in Europa, con le sue conseguenze.
C’è chi obietterà che di guerre europee ce ne erano già state dal 1945 in poi, nei Balcani anzitutto.
Ma la guerra in Ucraina ha per noi europei una valenza diversa: perché coinvolge direttamente la Russia, la potenza vicina a cui avevamo delegato la nostra sicurezza energetica e che ha un ruolo determinante negli equilibri europei; perché esiste, per la prima volta dalla Crisi di Cuba del 1962, un rischio nucleare e perché non si vedono i contorni di una soluzione diplomatica.
E la realtà è che i cittadini europei pensavano ormai di vivere in un’isola di pace, in particolare dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991. Questa idea – l’idea dell’Europa come blocco kantiano – si è dissolta sotto le conseguenze dirette e indirette dell’aggressione russa all’Ucraina, cominciata il 24 febbraio 2022. Un’operazione militare speciale – questa la definizione di Putin – che è in realtà una guerra di stampo imperiale, che non distingue fra obiettivi civili e militari. Cercherò di inserire la crisi che stiamo vivendo negli scenari geopolitici globali, dopo il doppio shock della crisi covid e di un conflitto in Ucraina che non sembra destinato a concludersi rapidamente – lo scenario è quello di una guerra di attrito, con gravissime conseguenze umanitarie ed economiche, che durerà ancora nel tempo. Un conflitto esistenziale, ma in modo molto diverso, per entrambe le parti: la difesa del proprio diritto ad esistere come Paese sovrano e indipendente, nel caso dell’Ucraina; la sopravvivenza del proprio regime per Vladimir Putin.
1. È difficile racchiudere l’attuale situazione strategica in una definizione unica, ma certamente una prima caratteristica è il ritorno alla competizione geopolitica aperta fra grandi potenze. E questo incentiva, naturalmente, i processi di rafforzamento militare di ognuno dei poli principali.
Dal punto di vista degli Stati Uniti, con Trump prima ma anche con Biden oggi, la vera competizione strategica a lungo termine è con la Cina. In una intervista al «Financial Times» di pochi giorni fa, Bill Burns, l’attuale direttore della CIA, ha detto chiaramente che la Russia è una potenza in declino: viene considerata così dagli Stati Uniti (ricordiamo che la Russia, oggi colpita dalle sanzioni, ha un PIL inferiore a quello della Spagna). Il punto è che le potenze in declino, ha continuato Burns, hanno storicamente dimostrato di avere una notevole capacità di mettere in pericolo l’ordine internazionale pre-esistente. Sono un fattore di rischio per la loro debolezza, insomma, più che per la loro forza. Tanto più quando dispongono di migliaia di testate nucleari. Da questo punto di vista, l’invasione dell’Ucraina non nasce solo dalla convinzione esplicita e radicata di Vladimir Putin che Bielorussia (la Russia Bianca) e Ucraina (la piccola Russia) facciano parte del «Ruskiy mir», del mondo russo con una tradizione imperiale. Mosca cerca anche di forzare la revisione di un ordine di sicurezza europeo che, dal 1991 in poi, considera fortemente sfavorevole ai propri interessi. In realtà, la Russia non sta riuscendo né a vincere la guerra in Ucraina, come pensava di poter fare con una presa rapida di Kiev. Né a produrre un assetto europeo più favorevole, come dimostra invece la richiesta di Finlandia e Svezia di aderire alla NATO. In ogni caso, il ritorno a una sorta di guerra fredda fra Occidente e Russia – nelle condizioni internazionali molto diverse di oggi – modifica l’assetto geopolitico europeo e accelera il processo di costruzione di una difesa europea complementare alla NATO. L’aumento delle spese militari ne è una componente, come dimostra la decisione tedesca, nel marzo scorso, di destinare 100 miliardi di euro aggiuntivi alla difesa. La Russia sta dando una pessima prova sul piano militare. Ha una spesa militare consistente, è il terzo bilancio della difesa sul piano globale, ma non è riuscita a dotarsi di un esercito che funzioni – per errori di gestione e per gli effetti della corruzione. E deve ricorrere alle milizie, come la Wagner o i ceceni. Ma resta tutto il peso di fattori rilevanti, come la quantità di forze teoricamente disponibili, come l’information war e soprattutto il possesso di armi nucleari (7.000 testate nucleari). La dottrina russa prevede la guerra ibrida, un forte ruolo della dimensione cyber e un ruolo warfighting delle armi atomiche tattiche. E tutto questo avviene in un contesto in cui solo lo START II è stato prorogato ma l’intero impianto di controllo degli armamenti è crollato, dal CFE e al Trattato INF. Siamo, in effetti, guardando alla guerra fredda 2.0 con la Russia, in una situazione ad alto rischio, la più rischiosa che si sia mai verificata dalla crisi di Cuba in poi negli anni 60 del secolo scorso. Con un baricentro spostato verso il Baltico e l’Artico, che lascia scoperto il Mediterraneo, da cui gli Stati Uniti tendono parzialmente a ritirarsi. Questa nuova configurazione degli equilibri europei lascia l’Italia esposta sul fianco Sud, il Mediterraneo – con tutti i fattori di instabilità che ne derivano per ragioni climatiche, demografiche e così via.
Dal punto di vista degli Stati Uniti, come notavo, la competizione vera è con la Cina, che ha in effetti intrapreso negli ultimi anni un importante processo di riarmo: il baricentro dell’impegno americano tenderà a spostarsi verso l’area indo-pacifica, dove si profila lo scenario di una crisi su Taiwan. Ciò significa che la componente europea della NATO dovrà comunque rafforzarsi, l’Europa dovrà in ogni caso assumere maggiori responsabilità per la propria difesa.
2. La seconda caratteristica dello scenario di oggi è che siamo entrati in una fase di de-globalizzazione parziale: vivremo, dal punto di vista economico, in un mondo più frammentato, con un isolamento crescente della Russia, che perderà la propria posizione di grande potenza energetica sul mercato europeo e con un certo grado di de-coupling tecnologico fra Cina e Usa.
Insomma, siamo ormai fuori dal mondo piatto dominato dai mercati, cui si pensava negli anni 90 del secolo scorso. E scopriamo invece che la interdipendenza economica crea, di per sé, anche una forte vulnerabilità. Lo abbiamo visto nel campo della salute prima e con l’energia poi. Questa realtà – l’uso del gas come una possibile arma, così come avviene per il grano – spinge ad accorciare le catene del valore, ad un aumento del protezionismo e alla ristrutturazione dell’economia globale attorno a poli più integrati all’interno e meno dipendenti dall’esterno. Ma questo produce un aumento dei costi, di cui è spia l’importanza dell’inflazione.
3. Tutto questo avviene – e questa mi sembra la terza caratteristica importante – in un sistema in cui l’Occidente non ha più una egemonia assoluta ma è di fronte a una grande potenza autoritaria sfidante, la Cina, ai rapporti fra Cina e Russia, e a medie potenze che esercitano un peso regionale notevole. Il nuovo attivismo delle potenze regionali avrà un impatto notevole sul futuro degli equilibri internazionali: la Turchia per fare solo un esempio, ma anche l’Arabia Saudita o l’Iran.
L’Occidente è in parziale ritiro da alcune aree del mondo: il caso catastrofico dell’Afghanistan è il segno di questa tendenza, che molto probabilmente Vladimir Putin ha letto come una forma di debolezza che gli avrebbe permesso di intervenire in Ucraina senza conseguenze eccessive.
Tutto questo lascia aperti una serie di conflitti locali, più o meno letali, con una distinzione sempre meno chiara fra pace e guerra.
Infine, ma non in ultimo, esiste una crescente importanza dei fattori tecnologici: il peso delle tecnologie «disruptive» che permettono l’ideazione di nuove armi, cambiano la natura delle guerre e aprono nuovi campi di battaglia, a cominciare dalla competizione nello spazio.
In sostanza, viviamo in un mondo al tempo stesso più competitivo, più vulnerabile, più frammentato sul piano economico, in cui il confine fra pace e guerra tende ad elidersi, con conflitti locali che continuano e restano numericamente rilevanti, con meno regole comuni, con una forte tendenza alla proliferazione degli armamenti. E dove le istituzioni internazionali sono in crisi profonda, anche perché riflettono equilibri internazionali che non esistono più.
Difficile, dicevo all’inizio, riassumere tutto ciò in una definizione unica. Gli Stati Uniti di Biden tendono ad usare la lente della competizione fra democrazie e potenze autoritarie. Anzi, per essere più specifici: tecno-democrazie contro tecno-autoritarismi. E secondo il segretario al tesoro degli Usa, Janet Yellen, la globalizzazione del futuro dovrà svolgersi among friends, fra paesi con sistemi politici affini.
In realtà, si tratta di una grande semplificazione. L’arco dei paesi autoritari è unito dalla volontà di contenere gli Stati Uniti ma ha anche divisioni di interessi, come emerge in effetti dalla partnership fra Cina e Russia, che ha forti limiti. Tensioni protezionistiche esistono fra Ue e Stati Uniti. E una vasta area grigia di paesi, fra cui giganti come India e Brasile, sfugge a questa rigida separazione in blocchi coerenti.
La crisi del vecchio ordine internazionale, con le sue istituzioni, apre una fase di forte instabilità. Si sommano minacce militari tradizionali e minacce globali, come il rischio ambientale e la insicurezza alimentare per centinaia di milioni di persone. Un vero interrogativo è se le minacce tradizionali, legate al conflitto geopolitico fra grandi potenze, tenderanno a mettere in secondo piano la possibilità di cooperare sulle sfide globali, anzitutto la sfida ambientale, con il suo impatto sui fenomeni migratori. O la gestione delle nuove tecnologie. È un rischio che esiste ed è molto concreto.
In questo scenario, l’Europa deve scegliere come collocarsi. Dal punto di vista della sicurezza, il rafforzamento delle capacità di difesa europea è visto ormai dalla maggioranza dei paesi UE, Francia inclusa, come complementare alla NATO. Sul piano tecnologico ed economico, i paesi europei sono alla ricerca di una maggiore autonomia, che permetta di ridurre le vulnerabilità cui facevo riferimento e di competere sul piano globale. Uno shock vero e proprio ha investito il modello industriale tedesco (cui siamo in parte agganciati come filiere italiane): modello che si fondava sull’import a basso costo di gas dalla Russia, sull’export in Cina e sulle delega della sicurezza agli Stati Uniti. Come ho cercato di dire, la guerra in Ucraina mette in crisi, in modo diverso, questi presupposti. Per il Paese centrale dell’Europa, la risposta alla guerra non è solo una questione di sicurezza militare ma di politica industriale.
Come dimostrano le conseguenze della crisi in Ucraina, l’Europa è vulnerabile sul piano energetico, visto l’eccesso di dipendenza da un unico fornitore, la Russia, che tende ad usare il gas come un’arma. L’Unione per l’energia sarebbe indispensabile ma esistono situazioni asimmetriche che rendono difficile scelte congiunte. Per l’Italia, la sicurezza energetica passa attraverso la diversificazione a Sud (Algeria), l’aumento della quota di GNL e l’aumento delle fonti rinnovabili.
Altra scelta decisiva è la difesa comune europea, che in parte rafforzerà le capacità dell’Europa nella NATO, da cui dipende la capacità di dissuasione nucleare verso la Russia. Ma l’Europa deve anche mettersi in grado di condurre operazioni autonome laddove sia necessario, in particolare nel Mediterraneo, dove sono attivissimi paesi come Russia, Turchia, Arabia Saudita o Israele.
Nel contesto geopolitico ed economico che ho descritto brevemente, l’Europa, senza dotarsi di una difesa comune, rischia di rimanere una sorta di vaso di coccio: un’Europa che non sarà in grado di esprimere la propria visione del mondo o di difendere né i propri valori né i propri interessi. Gli europei devono anzitutto capire che la difesa è una priorità. Poi è evidente che i dettagli conteranno molto, come ha già detto Beretta. Ad esempio, quando si parla di spesa militare europea è verissimo che la spesa militare aggregata dei 27 paesi è già oggi molto superiore a quella della Russia. Abbiamo quindi un problema di efficienza della spesa; abbiamo il problema di eliminare le moltissime duplicazioni che esistono fra sistemi d’arma e di dotarci di un vero e proprio sistema di acquisizioni (procurement) congiunto. Se non lo faremo, se non andremo verso una difesa comune europea, il nostro Continente resterà un oggetto, non un soggetto, dell’attuale competizione geopolitica. Abbiamo bisogno di un sistema di difesa che riesca a garantire non solo la nostra sicurezza in senso militare, ma la tutela dei nostri valori democratici, anche per le ragioni che citava Criveller.
4. Due considerazione finali sull’Ucraina e sulle lezioni per l’Europa.
L’Ucraina ha diritto di difendersi ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. E aiutare l’Ucraina a difendersi è una scelta legittima dei paesi europei. Inclusa l’Italia, sulla base dell’articolo 11 della propria Costituzione, citato prima anche da Beretta. Questo articolo è la base delle alleanze internazionali dell’Italia dal secondo dopoguerra, è l’articolo che permette all’Italia di partecipare pienamente all’Unione europea e alla NATO. Dobbiamo essere consapevoli, dopo decenni in cui abbiamo pensato che una guerra non fosse possibile nel nostro Continente, che la pace va salvaguardata; ma che per farlo, va anche difesa. E vanno difesi i valori su cui si basano le democrazie europee. Quello che accade in Ucraina, con i suoi drammatici costi per la popolazione civile, non può per questo lasciarci indifferenti.
L’Ucraina difende con le armi il proprio diritto alla sovranità, all’integrità del proprio territorio. Le forniture militari all’Ucraina, e qui evidentemente non sono d’accordo con Beretta, devono metterla in condizione di farlo, di sopravvivere come Stato indipendente. E poi di sedersi in condizioni di forza relativa a un tavolo di pace e non a un tavolo di resa. Le armi sono un mezzo, non sono un fine. E l’obiettivo resta evidentemente quello di raggiungere una soluzione negoziale.
Come ho cercato di dire, per Europa la prima lezione dell’Ucraina è che la sicurezza non è garantita e ha un costo (sanzioni, inflazione, investimenti nella difesa). Pensavamo, sbagliando, di vivere nell’epoca della pace perpetua, con il suo dividendo. In realtà, abbiamo bisogno di una difesa comune, per quanto complementare alla NATO.
La seconda lezione è che dobbiamo ridurre le vulnerabilità legate alle dipendenze. L’Energia è un esempio tipico: dobbiamo evitare di passare da una dipendenza (dalla Russia per il gas) all’altra (dalla Cina per le terre rare). La diversificazione è indispensabile. Dobbiamo costruire, per quanto difficile sia, un’Unione dell’energia e del clima. Purtroppo siamo ancora lontani sia dal primo obiettivo che dal secondo: l’Europa è invece in una fase di rinazionalizzazione, come dimostrano anche le scelte della Germania. La Germania è d’altra parte particolarmente esposta: sono le basi del suo modello industriale a dovere essere rivoluzionate.
La crisi ucraina non è rilevante solo per l’Europa, è rilevante per il mondo nel suo insieme. Pensate solo alle ripercussioni sulla crisi alimentare dei paesi del Mediterraneo e dell’Africa. E questo vi dimostra quanto le crisi di sicurezza siamo ormai intrecciate, fra Europa e mondo mediterraneo. Quando pensiamo alla sicurezza oggi, dobbiamo avere in mente che «sicurezza» significa anche cose molto diverse dagli aspetti militari in senso stretto. Le priorità, per le nuove generazioni in particolare, sono il controllo del cambiamento del clima, sono la sicurezza alimentare, sono la riduzione delle disuguaglianze, sono, per esempio, il tasso di velocità del cambiamento della tecnologia a cui non riusciamo a dare risposte politiche vere.
Non sono d’accordo, per le ragioni che ho cercato di esporre, con le posizioni pacifiste sull’Ucraina. È vero, d’altro canto, che queste posizioni aiutano a ricordarci i limiti di quello che riusciremo a fare, i suoi costi, e il fatto che esistano minacce trasversali molto rilevanti che dovremo affrontare. E quindi è giusto che esista un’integrazione fra sensibilità diverse, ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di uno stimolo a rispondere alle sfide globali in modo cooperativo e abbiamo però anche il vitale bisogno di capire che la capacità di difendere le democrazie è tornata ad essere indispensabile. Pensare la guerra, prima del dopoguerra, è diventato purtroppo necessario.
Pensare la guerra significa capire che gli strumenti nazionali non bastano, come non bastavano di fronte alla pandemia che non era una guerra ma una emergenza sanitaria. La guerra, purtroppo, è un’altra cosa.
Abbiamo bisogno di strumenti comuni per essere in grado di prendere decisioni cruciali sull’assetto geopolitico europeo: in sostanza, la sovranità europea, al posto dei sovranismi nazionali, è un passaggio da compiere per costruire, prima o poi, il dopo guerra. Grazie.