di Severino Saccardi
È avviata verso un’inarrestabile decadenza, la Terra del tramonto (cioè l’Occidente)? Non mancano, in questo senso, segnali preoccupanti: dalla tentazione del nichilismo, alla crisi delle relazioni sociali, al calo demografico; con, in più, l’emergere di una tendenza all’autoflagellazione per le colpe (spesso, certamente, reali) del passato e del presente. Ma l’Occidente è «Giano bifronte».
Ha anche la possibilità di optare per la valorizzazione della parte migliore della sua cultura (i diritti umani) e per la coerenza con i principi di libertà, che fanno da riferimento a coloro che vivono sotto regimi illiberali, offrendo così un importante contributo all’edificazione dell’unica «casa comune» che è ormai il mondo.
Aveva ragione Spengler?
Una sezione tematica (con riflessioni degli autori, tutti da ringraziare, che vi hanno contribuito con notevole varietà di accenti, come è giusto che sia) tutta dedicata alla questione (di grande rilievo, in questo nostro tempo) della natura, della connotazione e del destino dell’Occidente. Che è Terra del tramonto. Come si intitola l’ultimo grande libro di Ernesto Balducci, al quale questo lavoro è dedicato, nel centenario della nascita. La domanda che, nel dibattito, immediatamente si pone (sull’onda di quello che già sosteneva Spengler più di un secolo fa, come viene ricordato in molti contributi) è se questa terra, o meglio la civiltà cui essa ha dato vita e che ha influenzato il mondo intero, non sia anche, davvero, al tramonto. In fase di aperta decadenza. Segni, in questa direzione, non ne mancano. Crisi dei valori, diffusione di tendenze nichiliste, stanchezza della democrazia, consistente calo demografico.
Chi ce l’ha con la statua di Gandhi?
A questo va aggiunto un sentimento antioccidentale diffuso non solo in tante parti del mondo, ma perfino in certi settori della società europea e di quella americana. Un sentimento che nasce dal rigetto di aspetti rilevanti della propria storia, memoria e cultura, macchiata (come si dice e come spesso è accaduto e accade, beninteso) dal disconoscimento dell’altro, dal razzismo, dall’eredità del colonialismo. È la cancel culture. Che se la prende non solo con le statue dei generali sudisti in America, ma anche con quelle di Churchill (un ultraconservatore che ha, però, guidato il Regno Unito nella resistenza al nazismo, quando il destino dell’Europa era in pericolo) e con quelle (perfino) di Gandhi (cui viene rimproverato il senso di superiorità verso gli africani in gioventù). L’Occidente sembra, dunque, vacillare sotto il peso delle proprie contraddizioni, mostrandosi incline all’autocolpevolizzazione e alla autoflagellazione per i propri peccati storici e presenti. Eppure, è soprattutto sotto il segno e con il timbro dell’Occidente che sembra essersi definita l’attuale «civiltà planetaria» nell’età dell’interdipendenza1. È la tesi di Aldo Schiavone, che, affrontando questa grande questione, parla di «Occidente-Mondo», che è andato unificando il pianeta nella dimensione dell’economia (dominata dal nuovo capitalismo finanziario) e in quella della tecnologia. Un ambito, quello di carattere tecnologico e scientifico, che (a seconda delle contrapposte interpretazioni) ha offerto inedite opportunità di sviluppo e di emancipazione all’umanità o che avrebbe interconnesso sotto un’inedita forma di cultura del dominio i diversificati comparti del pianeta intero. È, dopotutto, una discussione antica. Che è stata animata da protagonisti illustri. Basta riandare alle posizioni di un grande pensatore come Heidegger (più volte citato in questo nostro volume). D’altra parte, pensiero antiscientifico (e/o antitecnologico) e pensiero antioccidentale, molto spesso, si sovrappongono, fanno blocco e coincidono. C’è però da dire (ed è lo stesso Schiavone a rilevarlo) che l’«occidentalizzazione» del mondo è del tutto incompleta. Incontestata, e pervasiva, sul piano dell’affermazione di un unico modello sul piano strutturale dell’economia e su quello della tecnologia, essa è ancora di là da venire dal punto di vista dell’affermazione, e dell’accettazione, dei principi, e della pratica, della democrazia e dei diritti umani. Alla Dichiarazione universale dei diritti umani2 si rende generalmente e formalmente omaggio, ma ciò che in quel fondamentale documento storico è scritto è ben lungi dall’essere attuato in larga parte del pianeta. È aumentato, certo, il numero dei regimi democratici (o almeno di quelli che tali si dichiarano) e si sono accresciute, nel mondo, la sensibilità e l’attenzione ai temi della convivenza, della pace, dei diritti umani fondamentali, del rispetto della dignità dell’uomo. Ma come non vedere, d’altra parte, come, negli anni anche a noi più vicini, in giro per il mondo, si è operata, una vera e propria «strage dei diritti»3? Vengono subito alla mente i riferimenti a luoghi, situazioni, avvenimenti che sono il segno e danno il senso del male che, su un terreno così decisivo e delicato, continua tristemente a connotare la realtà contemporanea. Yemen, Siria, Arabia Saudita (si pensi alla condizione delle donne e al delitto Kashoggi), Myanmar (con l’assoggettamento al dominio di una brutale casta militare), Hong Kong (con la fine del principio «Una Cina, due sistemi», e la soppressione sostanziale delle libertà civili) Tibet, Sud Sudan, Palestina. E così via. L’elenco potrebbe a lungo continuare.
A partire dal «tema Ucraina»
C’è ancora molto da fare per quella graduale «civilizzazione» delle relazioni umane di cui Freud aveva discusso con Einstein nella loro Riflessione a due sulle sorti del mondo4 (all’inizio degli anni Trenta, nell’intermezzo fra le due grandi guerre globali del «secolo breve» e alla vigilia dell’avvento del nazismo in Germania). Non a caso, ci troviamo di fronte una situazione come quella della guerra in Ucraina. Una questione che non può non essere posta al centro della riflessione. Per questo, abbiamo ritenuto opportuno aprire il fascicolo, nella rubrica del «Tema» (il nostro editoriale, in pratica) con due testi, dedicati, il primo alla storia dell’Ucraina (Cataluccio) e, l’altro, al rapporto fra le Chiese in quel difficile contesto (Segatti). Sappiamo naturalmente che non c’è un’unica chiave per affrontare e cercare di leggere una realtà, complessa oltre che drammatica, come quella legata al «caso Ucraina»; ma certo è che quello del rapporto (e dello scontro) fra democrazie (pur imperfette e in crisi, finché si vuole) e autocrazie è uno dei temi di fondo del momento storico che stiamo attraversando. Rispetto a questo confronto conflittuale, a che punto siamo? La democrazia, oltre a non avere affatto risolto la sfida dei fondamentalismi (lanciata al massimo livello con i catastrofici attentati dell’11 Settembre), si trova ad affrontare il contrasto con modelli e regimi autoritari che, rispetto ad essa, si pongono sostanzialmente come riferimenti alternativi.
Naturalmente, ci sono varie tipologie (e gradazioni) di autoritarismi, oggi, sulla scena: dalle «democrature» dell’Europa centro-orientale, al modello oligarchico-autocratico russo (che riflette gli interessi di una casta, a sua volta condizionata da un regime connotato da un forte potere personale), al «caso» cinese (con un Paese che è ormai una superpotenza globale, guidata dal potere del partito unico, che governa un’economia turbo-capitalistica ed una società animata da forti sentimenti patriottico-nazionalistici).
Schiavone, nel libro sopra richiamato, sostiene, con sicurezza e ottimismo, che né i fondamentalismi né le autocrazie hanno le caratteristiche, per la loro rigidità di fondo, per aspirare alla guida della società globale, che tende sostanzialmente, e strutturalmente, ad essere una «società aperta». Ma su questo ci sarebbe naturalmente da discutere.
Quella votazione del due marzo
Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, segnato, però, da fratture e divisioni profonde. Che, con la guerra in corso in Ucraina, si fanno più marcate e profonde. Come rivela la «carta tematica»5 del planisfero che rende visibili le posizioni dei diversi paesi in occasione delle votazioni, del 2 marzo 2022 (pochissimi giorni dopo l’inizio del conflitto), all’Onu sulla risoluzione di condanna dell’aggressione russa.
Come è noto, solo 5 paesi (a partire naturalmente da Russia e Bielorussia) hanno votato contro, mentre a favore (della condanna dell’aggressione) si sono espressi ben 141 stati. Ma, come subito è stato fatto notare, 35 altri si sono, invece, astenuti. E sono state astensioni di peso che rivelano la «(…) volontà di non prendere posizioni scomode con il Cremlino di governi che rappresentano circa metà della popolazione mondiale»6. Come quelli di numerosi Paesi africani, della Cina e dell’India. Che è, quest’ultima, una grande democrazia (pur segnata da molte contraddizioni e attualmente retta da un governo spiccatamente nazionalista). Sono elementi che fanno riflettere.
Perché la Russia putiniana (ora, come sei-sette mesi fa) è isolata rispetto all’Europa e all’Occidente (inteso in senso lato, e non «geografico», con l’inclusione della quasi totalità dell’America Latina, di alcuni Paesi democratici dell’Asia e dell’Australia affiancati da una parte dell’Africa), ma ha conservato una sua possibilità di interlocuzione con parti davvero non piccole del mondo. Naturalmente, questo niente cambia riguardo al severo giudizio etico-politico che è stato dato (e che va fermamente mantenuto) sull’invasione e sullo scatenamento di una guerra devastante, di cui, purtroppo, non si intravede (almeno al momento) la fine. Ma deve indurre a qualche ragionamento. Non solo di carattere geopolitico. Anche se la democrazia è un «valore storicamente universale»7, e anche se, come già rilevato, il numero degli stati (almeno formalmente democratici) è globalmente aumentato nel mondo, è vero che proprio in questa fase dello sviluppo e della finanziarizzazione dell’economia (e siamo qui, in pieno, all’interno del dibattito sollecitato da Schiavone), le scorciatoie del decisionismo autoritario, dell’efficienza delle oligarchie tecnocratiche e, finanche, delle autocrazie sono dotate di non poco appeal. Bisogna prenderne coscienza al fine di mettere a punto gli opportuni contravveleni.
Cosa intendiamo, quando parliamo di «Occidente»?
Siamo, d’altra parte (sia detto davvero per inciso e con pacatezza), in un passaggio, e all’interno di un «laboratorio» particolare, anche nel nostro Paese. Dove, certo, non c’è alcun rischio per la democrazia in quanto tale e dove la maggioranza che ha vinto le recenti elezioni politiche è, naturalmente, pienamente legittimata a governare. Ma dove è anche vero che il governo (che dovrebbe formarsi e che probabilmente sarà già insediato quando questo volume verrà pubblicato) avrà una delle connotazioni più nettamente di «destra» del panorama europeo. Gli vanno fatti responsabilmente, in ogni caso, auguri di buon lavoro. È dai suoi atti che andrà giudicato. Come va considerato che, stando alle rassicurazioni più volte pronunciate, il nuovo esecutivo dovrebbe essere fedele, sul piano internazionale, ad un profilo e ad una linea, sicuramente, «occidentali». Vedremo. Ma, verrebbe di nuovo da chiedersi, cosa intendiamo quando diciamo «Occidente»? E se avesse ragione chi dice che «L’Occidente migliore è fuori dell’Occidente»8? La Terra del tramonto è estenuata e pare, talvolta, incapace di credere in sé stessa e di realizzare l’importanza dei suoi stessi principi fondativi. Principi che, dove essi sono negati, vengono invece richiamati e rivendicati da chi anela ad un domani diverso. Forse è vero, dunque, che l’Occidente migliore è nelle «giovani iraniane che liberano i capelli e vengono assassinate per questo» nei «giovani ucraini che sventolano la bandiera» dell’Europa, o «in una giovane pakistana che viene assassinata dai suoi» perché voleva essere come noi. Ne consegue che per «capire chi siamo» o «chi non siamo più, bisogna guardare a chi non è ancora come noi, e immagina che noi siamo»9 come essi ci immaginano. Ma come siamo «noi»? La questione dell’identità (o delle molteplici identità) dell’Occidente è sempre stata controversa. E le discussioni, al riguardo, hanno sempre acceso molte passioni. Balducci (come si evince da La terra del tramonto) ritiene che l’Occidente sia un «Giano bifronte». Ha due facce. Quella della cultura del dominio. E quella della cultura dei diritti. È un ragionamento che Balducci propone anche, e specificamente, per l’Europa. Un ragionamento (che egli svolse, negli ultimi tempi della sua vita, in occasione di un affollatissimo ritrovo all’Arena di Verona) di cui abbiamo già avuto modo di sottolineare il carattere emblematico10.
C’è un’Europa che noi non amiamo, sostiene Balducci. È l’Europa del disconoscimento dell’altro, della sopraffazione, legata alla storia del colonialismo e al mantenimento delle sperequazioni attuali fra Nord e Sud del mondo11.
Ma c’è anche un’Europa che noi amiamo, egli afferma, poi con convinzione. È l’Europa della cultura dei diritti. Quella cultura dei diritti che, posta in relazione con la relatività delle culture, è un patrimonio a disposizione dell’intera umanità. È questa Europa (non sempre coerente, purtroppo, con i suoi principi ispiratori) che oggi è chiamata ad una assunzione di responsabilità nei confronti di chi ne prende, idealmente, a riferimento i valori. Le donne e i democratici iraniani (come sopra accennato) che sfidano apertamente la dittatura, assumendosi rischi fortissimi e sfidando la repressone, certo. Ma anche esperienze come quella dell’Associazione Memorial (fondata da Sacharov per ricordare le vittime dello stalinismo e per denunciare le violazioni dei diritti umani in Russia), dell’impegno del «dissidente» (forse è opportuno recuperare questo termine dell’era sovietica) Ales Bialiatski (incarcerato in Bielorussia), del Center for Civil Liberties (in Ucraina). Che hanno avuto, proprio in questi giorni, l’importante riconoscimento del Nobel per la pace, che darà loro forza (anche se le autorità russe e bielorusse si sono affrettate a irridere le scelte di una giuria «politicizzata»). Sono esperienze che vanno appoggiate e sostenute. Come deve essere incoraggiata e sostenuta, ovunque abbia luogo, la lotta per la libertà e la giustizia (anche la giustizia sociale, come ricorda Simone Siliani).
Certo, la democrazia non si esporta (e laddove ci si è mossi dicendo di volerla esportare si sono prodotti disastri, e sono anche stati anche commessi gravi crimini). Ma il processo per l’allargamento e la difesa della democrazia nel pianeta può essere (come dice Claudia Mancina) preso a cuore, sostenuto, incoraggiato. In questo senso, un’Europa «presbite» (come la definisce Pasquino) che si apra al futuro sulla base dei suoi valori di fondo e mettendo da parte i particolarismi, può avere le carte in regola per fornire un importante contributo in questa direzione. E l’Occidente, inteso nell’accezione più ampia, è chiamato, per così dire, a riscoprire, e a privilegiare la parte più degna della propria anima, della propria storia, della propria identità.
Il leggendario Marek Edelman
Per spiegarlo con un’immagine vorrei rimandare ad un ricordo personale. Quello di un incontro (per cui fece gentilmente da tramite Wlodek Goldkorn) e di un’intensa conversazione con Marek Edelman. Il compianto e leggendario vicecomandante della rivolta (contro gli occupanti tedeschi) del Ghetto di Varsavia. Un bell’incontro, in cui parlammo di molte cose, della sua storica esperienza e del passato, ma anche dei problemi del presente. Ad un certo punto, Edelman se ne uscì con una raccomandazione: «Bisogna sempre camminare sul lato illuminato della strada». Il lato in cui si è in piena luce. Non quello che è offuscato dall’ombra. Una metafora che molto ci dice, in termini chiari e forti, su quello che bisognerebbe fare nel nostro, pur complicatissimo, tempo. Che è il tempo delle grandi emergenze (economica, sanitaria, climatica), del ritorno in Europa della guerra e del contrato fra democrazie ed autocrazie (anche se, giova ripeterlo, i conflitti odierni non si spiegano certo con quest’unico criterio interpretativo). Siamo veramente, come avrebbero detto La Pira e Balducci, su un delicato crinale della storia.
L’Occidente (e, in seno all’Occidente, specificamente e soprattutto l’Europa), in un rapporto (alieno da ogni pretesa di superiorità) con gli altri «comparti» della comunità planetaria, nel costante riferimento alla cultura dei diritti, potrebbe recare un importante contributo alla costruzione di quell’unica «casa comune» che è ormai il mondo.
Certo, è un percorso che richiede capacità di autocritica, di autotrasformazione e di investimento nel futuro. Ma sarebbe sbagliato ipotecare aprioristicamente i risultati del cammino e disperare dell’arrivo di un’alba nuova. Senza contare che il tramonto, a volte, è capace di sorprendere con luminosi bagliori di fuoco.
1 Si veda in proposito l’ultimo, importante libro di Aldo Schiavone (citato anche da altri autori in questa nostra sezione monotematica) L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria, Il Mulino, Bologna 2022. Sono temi che, in forma e con impostazione diverse, e in forma comunque preveggente aveva trattato, come è noto, Ernesto Balducci ne L’Uomo planetario.
2 Vedi in proposito 1948-2018: diritti umani in cammino, volume monografico di «Testimonianze», nn. 521-522, a cura di F. Comina, S. Saccardi, S. Siliani e S. Zani e Libertà, Fraternità, Uguaglianza. Valori alla prova del mondo globale, volume monografico di «Testimonianze», n. 539, a cura di M. Meli e S. Saccardi. Su tali, fondamentali temi, di grande interesse è la rilettura de La lunga marcia dei diritti umani di E. Balducci, «Testimonianze» n. 326, 1990.
3 È quel che sostiene, ad es., Riccardo Noury (portavoce nazionale di Amnesty Italia) nel suo intervento dedicato a La Fragilità dei nostri diritti, in «Testimonianze» n. 539, cit.
4 A. Einstein, S. Freud, Riflessioni a due sulle sorti del mondo (con Prefazione di E. Balducci), Bollati Boringhieri, Torino 1989.
5 Vedi in proposito Dentro la Guerra, supplemento del «Corriere della sera» del 9-3-2022, p. 19.
6 Perché molti Paesi non si sono opposti all’invasione?, di P. Magri, ivi.
7 Riprendo qui la definizione che ne dette Enrico Berlinguer che, in questo senso, condusse l’allora PCI (cioè un partito di origine leninista, anche se connotato dall’eredità gramsciana) ad un approdo di evidente importanza.
8 Se lo chiede A. Sofri, in un post della sua pagina Facebook del 25 Settembre.
9 Ivi.
10 Vedi L’Europa che noi amiamo, Atti del Convegno di «Testimonianze» ed Europe Direct, Firenze 8 e 9 maggio 2017, in «Testimonianze», n. 514.
11 Vedi, in proposito, B. De Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, il Mulino, Bologna 2022.