di Anna Scattigno

Una analisi della riflessione sul significato dell’essere prete, che percorre le «meditazioni» di padre Ernesto Balducci rivolte ai sacerdoti, in un corso di esercizi spirituali promosso dalla Pro Civitate Christiana, probabilmente nel 1970, l’anno in cui esse furono date alle stampe con il titolo I servi inutili. Balducci vi sottolineava la necessità di un passaggio fondamentale: dal prete come «uomo del culto» al prete dedito all’annuncio della parola, con una vita legata non al tempio ma in modo «esistenziale» alla parola e alla centralità della «comunità intorno all’eucaristia».

«La vita diventa nomade»
Ripropongo brevemente in queste pagine alcune «meditazioni» di padre Ernesto Balducci rivolte ai sacerdoti, in un corso di esercizi spirituali promosso dalla Pro Civitate Christiana probabilmente nel 1970, l’anno in cui esse furono date alle stampe con il titolo I servi inutili1. Accompagnava la riflessione di Balducci la lucida consapevolezza della drammaticità della condizione del sacerdozio nella Chiesa cattolica. Molti preti erano «incerti», «dubbiosi», «smarriti», hanno perso la propria immagine scriveva, il «luogo» della propria identità. Fin dall’incipit, e sarà poi il tema che come un filo rosso accompagnerà in quegli anni la sua riflessione sul ministero sacerdotale, Balducci indicava nella parola di Dio «il luogo della nostra identità assoluta»2. Da qui uno «stile di vita» del prete tutto da ricostruire e la stessa «vita interiore» che non poteva prescindere, nella sua convinzione, dal significato della vocazione cristiana e specificamente sacerdotale, in ultima istanza dallo «statuto rivelato della nostra esistenza sacerdotale»3.
La visione tradizionale del sacerdozio ministeriale mal si componeva con la nuova visione di Chiesa emersa dal Concilio Vaticano II e mancava d’altra parte già prima del Concilio, osservava Balducci, una «dottrina sicura» sul sacerdozio. Questa mancanza si era fatta «drammatica» dopo il Concilio. «I vescovi e i laici hanno fatto la parte del leone e i preti hanno trovato un posto in mezzo, ma molto insicuro (…) come se l’area propria del sacerdozio ministeriale non avesse un sostegno teologico adeguato»4. Anche il nome, sacerdotes, si era fatto malcerto: era teologicamente inappropriato, «(…) perché il sacerdozio è quello di Cristo e al sacerdozio di Cristo partecipa unitariamente l’intero popolo di Dio». D’altra parte, la riesumazione del vecchio termine presbiteri lungi dal celare la crisi la rendeva semmai più evidente. Accanto al nome, «(…) lo stesso contenuto sacerdotale nel senso più cristologico del termine della nostra vita di ministri del Signore sembra in dissolvenza, inafferrabile»5.
Era percezione diffusa che la figura del prete come «funzionario religioso» stesse scomparendo per sempre, osservava Balducci, perché stava finendo il mondo dove questo tipo di prete tradizionale viveva e si sentiva appagato. «Come uomo non era un reietto, un isolato, anzi viveva di una larga umanità»6, del «clima di famiglia» che riusciva a instaurare con i suoi parrocchiani. Jacques Servien nel pubblicare in Francia nel 1969 L’expérience chrétienne de l’Isolotto riteneva che le «ambiguità» del cattolicesimo italiano e le molte contraddizioni della sua storia recente mal si prestassero ad essere racchiuse in categorie come la decristianizzazione e cercava invece di leggerne le linee di cambiamento7. Balducci si soffermava piuttosto sul concetto di secolarizzazione e sui suoi nessi con lo sviluppo della civiltà tecnologica. «È proprio un mondo religioso che si sta dissolvendo»8 scriveva, insieme alla civiltà rurale e al vecchio popolo cristiano a cui era ancorata la vita dei sacerdoti. Ma proprio pensando alla loro vita, nella secolarizzazione scorgeva un riflesso positivo. Certo non amava il prete secolarizzato – «servizio sacro a tempo limitato» – che già appariva nei giovani seminaristi, irreligiosi perché educati in epoca areligiosa9, non per questo priva di fede ma dove il prete «sembra non avere più significato».
«La vita diventa nomade»10. È un’immagine molto efficace, diceva la perdita ma era tuttavia positiva nell’accezione di Balducci. Accostata al processo di dissoluzione della comunità cristiana e alla solitudine del prete, gravissima, indicava però una condizione in movimento, un «ricominciare» forse anche possibili «processi di ricomposizione» della Chiesa. La nuova fisionomia di prete che Balducci cercava di delineare – dobbiamo annaspare nella nebbia scriveva – partecipava in qualche modo di questo rompersi dei recinti, di questa vita in movimento.
«Come i primi cristiani che nella società erano sconosciuti e perseguitati si ritrovavano intorno all’eucaristia, ivi avevano l’identità di se stessi e si mescolavano con il mondo (…) così i cristiani del prossimo futuro dovranno abituarsi a essere comunità intorno all’eucaristia, ma dovranno rinunciare all’idea di essere un popolo cristiano, il vecchio popolo cristiano in cui la figura del prete aveva un significato molto preciso»11.

Là, «dove l’uomo va»
Il passaggio teologico, che apparteneva a tempi recenti e che Balducci sottolineava per la sua rilevanza, era dal prete come «uomo del culto» al prete come uomo destinato all’annuncio della parola: una vita legata non al tempio ma in modo «esistenziale» – lo sottolineava – alla parola. E liberata da antiche soggezioni religiose. C’era in lui la coscienza dei tempi nuovi. Anche la scrittura, il lessico traboccavano della positività della trasformazione in atto nella Chiesa, «la nostra vita di sacerdoti» scriveva, vi è «profondamente compromessa». La trasformazione non lasciava campo alla disperazione della perdita, piuttosto apriva alla gioia. Il prete come testimone e annunciatore della parola: ma la parola non è una biblioteca, né è sapienza proibita ai non addetti ai lavori, scriveva, «(…) è una parola che corre. Noi dobbiamo correre con la parola e portarla all’uomo là dove l’uomo va»12.
Nella Chiesa come istituzione di salvezza, società perfetta affidata alla guida di una gerarchia di cui anche i preti fanno parte, il potere supremo appartiene al pontefice ricordava Balducci, e in modo subalterno ai vescovi e da questi ai preti delegati dei vescovi. La virtù del popolo di Dio al di sotto della gerarchia è la docilità. Nel capovolgimento operato dal Concilio Vaticano II l’asse si era spostata dall’istituzione al sacramento, uno «spostamento sismico» avvertiva Balducci, con tutti i «crolli» che in spostamenti di tale entità sono «inevitabili». Tra i crolli possibili la questione che per prima si imponeva e sulla quale Balducci torna in più modi nel corso delle sue riflessioni senza tuttavia farne esplicita trattazione era quella del potere. Nella Chiesa come sacramento del Cristo il potere sul mondo che compete alla Chiesa – perché «(…) le è stata affidata tutta la creazione» e essa «deve santificare tutta la creazione fino a ricondurla alla sottomissione al Padre»13 – non è di ordine giuridico. La Chiesa ha una sua «regalità sul mondo» ma è di ordine carismatico, sottolineava Balducci. La nozione di Chiesa come «popolo di Dio» dotato della potestas che Cristo le ha conferito, sacerdotale, profetica, regale e che per realizzare questo triplice potere ha avuto da Cristo il carisma dei ministeri, questa Chiesa coinvolge i preti, «obbliga», diceva Balducci, a rivederne le prerogative: «I ministeri sono al servizio di questo esercizio del triplice potere del popolo di Dio, non stanno al di sopra come fonte. La cosa è di enorme importanza»14. Il sacerdozio dei preti è «(…) una diaconia, un servizio al sacerdozio del popolo di Dio preso nel suo insieme e del quale anche noi facciamo parte (…). Noi siamo innanzitutto dei cristiani e poi siamo, per i cristiani, dei ministri»15. Ma aggiungeva: «Certo questo carisma del ministero non deriva da deleghe popolari, è legato alla struttura sacramentale e quindi, possiamo dire, scende dall’alto»16.
Qui Balducci incontrava la difficoltà del linguaggio. L’espressione «dall’alto» era assai problematica, Balducci era consapevole dei molti significati a cui riconduceva. «Del resto ogni linguaggio che tocca il mistero, essendo desunto dal contesto linguistico naturale, è sempre equivoco». Il significato per cui il sacerdozio scende dall’alto non rimanda nelle sue parole alla piramide clericale, ma «allo Spirito Santo che per imposizione delle mani trasmette i ministeri». Il tema dell’imposizione delle mani più volte ripreso nel corso degli esercizi resterà però, mi pare, di incerta definizione. Chi è chiamato invece a «discernere i carismi», a scegliere i ministri, non è necessariamente, avvertiva Balducci, «un ufficio romano», ma la Chiesa che è comunità, «una comunità di fratelli».

Un lungo viaggio
Ricordo ancora che questi esercizi spirituali alla Pro Civitate Christiana risalgono al 1970. Balducci invitava i suoi ascoltatori a un lungo viaggio, lo chiamò il «nostro viaggio di Colombo», necessario da compiere anche se irto di difficoltà e di incerto approdo. Il passaggio da compiere era abbandonare la «(…) gloriosa piramide», verso «(…) una Chiesa la cui visibilità si modelli sull’eucaristia»17.
La «comunità intorno all’eucaristia» è il fondamento a partire dal quale Balducci sviluppò al corso della Pro Civitate Christiana le sue meditazioni sul ministero sacerdotale e sulla nuova figura di prete che andava delineando. Ricordo senza potermi addentrare nei nessi tra i due testi, che è del 1971 La Chiesa come eucaristia18.
«Rispecchiandoci nel mistero della Chiesa eucaristica ci capiamo come sacerdoti, altrimenti non ci capiamo più»19. La comunità eucaristica ha un legame profondo con i ministri; è sacerdotale, regale e profetica e ha competenza diretta nello scegliere i ministri ma anche nel garantire, sottolineava Balducci, il «vincolo carismatico» che nasce tra un ministro e la sua comunità. Inserito nella comunità eucaristica il prete non è solo il delegato del vescovo. Sul rapporto tra il prete e il vescovo Balducci tornò più volte nel corso degli esercizi, era un nodo duro a sciogliere e ricostruire in una prospettiva non giuridica, evocava la potestas e l’auctoritas. Il potere del prete, sosteneva Balducci, «(…) deriva proprio dalla sua potestà di celebrare e di annunciare la parola (…). La destinazione del prete alla parola è inerente al sacramento»20.
Nell’eucaristia Balducci sottolineava il legame con la parola di Dio: «(…) il sacerdote trova nelle parole della consacrazione, dotata di così mirabile efficacia, come il momento forte, il culmine della propria missione che è quella di annunciare la parola di Dio»21.
Per i suoi ascoltatori commentava il paragrafo 23 della Lumen Gentium dove la Chiesa eucaristica gli appariva a tutti gli effetti Chiesa locale – «(…) ovunque è convocata l’assemblea eucaristica ivi è la Chiesa locale» – dotata di una universalità, avvertiva, di tipo misterico. Il popolo di Dio che si manifesta nell’eucarestia, diceva, non viene stabilito dai pastori, ma dal Signore, è popolo di Dio in atto «(…) convocato da questa misteriosa forza che unisce tutti e che è la forza di Cristo»22. Il prete è al servizio di questa forza. Questa acquisizione pareva a Balducci capace di modificare in profondità l’«intimo» del prete. Era in qualche modo liberante.
«Chi sono io sacerdote? Sono il ministro di questa convocazione, colui che annuncia, colui che ordina, colui che fa convergere la fede dei tre o quattro o cinque nel Cristo, colui che dice la parola del Cristo ai tre o quattro o cinque. Io mi trovo nella comunità, membro della comunità, ma con questa auctoritas cristica, con questa autorità del Cristo. Lui è il capo, io sono soltanto un segno della sua autorità e basta»23.

La parola di Dio è già un sacramento
Anche l’eucaristia come la Chiesa aveva subito nel tempo un processo di clericalizzazione. Nel procedere delle sue meditazioni, Balducci ripercorreva i tracciati fra loro strettamente connessi di questo processo, dalla celebrazione del convivio eucaristico nelle case come era nella sua natura, alla profonda unità nel modello originario tra la catechesi, l’annuncio della parola, l’istruzione e la fractio panis. Iereus era il solo Cristo, unico sacerdote. Poi i ministri acquisirono la funzione sacrale ed ebbero bisogno di un tempio. Dei tre momenti della sacralità dell’eucaristia – liturgia della parola, consacrazione e banchetto – la consacrazione acquistò eminenza e fu interpretata come sacrificio. Il prete divenne così iereus, sacerdos. Nei confronti di questo processo di sacralizzazione dell’eucarestia Balducci era particolarmente severo, pensava che avesse finito col relegare il messaggio cristiano nel «ghetto» del santuario24. Secondo il nuovo cammino aperto dal Concilio Vaticano II, andava recuperata nella sua unitarietà la sacramentalità dell’eucaristia, che si estende a tutta l’azione eucaristica. La parola di Dio è già un sacramento, questa gli appariva da un punto di vista teologico la tesi fondamentale. «La parola annunciata è sacramento perché è il Cristo che parla quando nella assemblea eucaristica si annuncia la sua parola. Cristo è realmente presente anche lì»25.
Un sacramento è «un segno che produce ciò che significa», commentava Balducci, un atto che è significato della parola e la parola è insieme fatto, «atto ed espressione». Nella Dei Verbum, ricordava, la rivelazione è verba et facta inter se connexa. La Chiesa ancilla verbi «(…) non deve mescolar troppo le sue parole con quelle del maestro»26. Piuttosto dovrà adattarsi, e qui Balducci citava Von Balthasar, «(…) alla straordinaria povertà della sua parola che è la parola pasquale che diventa atto, segno ed anche espressione comunitaria nell’eucaristia»27. Il prete non ha la parola di Dio tutta per sé, ma Balducci individuava come «funzione essenziale» del prete «(…) ordinarne lo svolgimento, volgerne la manifestazione spontanea verso il segno della fedeltà apostolica, piegarla al servizio della comune utilità»28.

«Un’umanità conviviale»
«Il ministro dell’eucaristia e della comunità eucaristica ha a cuore anche la crescita dell’unità tra gli uomini al di là del confine della comunità dei credenti, in quanto la comunità eucaristica non è che il segno e lo strumento proprio di questa comunità tra gli uomini (…) l’eucaristia significa e profetizza questa unità»29.
«Il sacramento non è il confine del Cristo, è segno della sua azione». Balducci non pensava l’eucaristia come un atto cultuale di tipo sacrale, atto che impone confini, diceva, che obbliga a distinguere sacro e profano. Ma era proprio il concetto di sacro che avvertiva come inadeguato. Il cristianesimo non ha bisogno, scriveva, di aggettivi che connotano «sottrazioni alle leggi della natura», perché non «viola» la natura. Anche l’espressione «celebrare l’eucaristia» la avvertiva come sacrale. Piuttosto invitava a riflettere sul concetto di santità: «La categoria che abolisce la distinzione fra sacro e profano è quella della santità»30. Vivere con comprensione il mistero eucaristico è sapere che «tutto è santo». Nella vita del sacerdote, la purezza su cui era fondato il celibato gli appariva appartenere anch’essa all’ambito del sacro. Piuttosto proponeva di sostituire alla categoria sacrale quella profetica: santo dunque il celibato, ma per il regno, propter regnum.
Nel «lungo viaggio» i preti avrebbero dunque dovuto spogliarsi, ed era la parte più difficile, della mentalità sacrale. Nella formazione del prete l’eucaristia secondo la proposta di Balducci avrebbe dovuto avere un posto fondamentale. Un aspetto di questa nuova impostazione era di ritrovare nell’eucaristia la semplicità e la gioia: spezzare il pane, dare il pane, il convivio come «(…) sacramento naturale dell’unità del genere umano perché il destino dell’umanità è di essere un’umanità conviviale»31. Ecco allora l’immagine del sacerdote come «ministro di gioia», come «(…) colui che convoca il mondo a banchetto»32. Nell’eucaristia la presenza di Cristo è presenza «personale». Su questo punto Balducci chiamava a riflettere. «Quando diciamo che la sostanza del pane e del vino si cambia nella sostanza del corpo e del sangue noi smarriamo la prospettiva della persona del Cristo, che è presente sempre come persona, la nostra fede non va tanto al corpo presente sotto le specie del pane e al sangue presente sotto le specie del vino; ma va alla persona del Cristo che attraverso i segni del pane e del vino, che realmente contengono il suo corpo e il suo sangue, ci si comunica»33.
I segni sono così «strumenti di una mediazione da persona a persona». La mediazione presuppone il dialogo della fede: non una certezza su una cosa, non un discorso intorno a Dio, ma «un parlare a Dio». La parola «realmente» era anch’essa da sciogliere per liberarne il senso, troppo legato alla categoria aristotelica di «sostanza»: realmente come «sostanzialmente». «Realmente» rimanda invece, diceva Balducci, ai modi in cui Cristo è presente quando due o tre si riuniscono in suo nome: una presenza che raggiunge la sua più forte intensità e diviene epifania nell’assemblea eucaristica, «quando riceviamo il pane e il vino». È una presenza misterica. Più volte Balducci nel corso della sua riflessione insisteva sul mistero, ma per sottolineare l’inadeguatezza del linguaggio a dire, la relatività dei modi della rappresentazione, l’ostacolo anche che alcune parole possono costituire «al retto accesso del credente al mistero»34. La parola «transustanziazione» oggi, diceva, «può aver compiuto il suo compito» e sarebbe forse infedeltà conservarla. «C’è una relatività assoluta in queste cose». La presenza si realizza attraverso la memoria, la commemorazione, il ricordo e la parola del racconto «è efficace, cioè realizza ciò che racconta».
Non seguirò Balducci nell’addentrarsi che egli fa in modo «semplificato all’estremo» nel tema del sacrificio, che coinvolge l’evento pasquale e il tempo. Accenno solo ad alcuni punti che mi sono sembrati di particolare rilievo. I riti sacramentali, affermava, non ripetono l’evento, perennemente contemporaneo. Piuttosto la ripetizione è nell’ordine dei segni, non della realtà, e i segni introducono al tempo «salvato», tempo di Cristo, tempo ultimo. «Il modo psicologico del ricordo non è altro che un modo umano per entrare nel presente, anzi nel futuro, perché l’evento pasquale consuma i tempi, è il loro senso ultimo»35. Gli pareva che questo aiutasse a capire come nella Chiesa la memoria sia profetica, ma aggiungeva: «È ancora molto difficile spiegare queste cose. D’altra parte, certe cose vanno comprese attraverso la complessità dei concetti per poi arrivare, secondo i doni di Spirito e anche maturazione di tempo, a diventare linguaggio comune». E della necessità di trovare un linguaggio Balducci era fortemente convinto: «Noi veniamo da un’epoca in cui il linguaggio si era calcificato, abbiamo parlato del Cristo con gli stessi termini con cui ne parlavano nel medio evo e la gente non ci ha capito più». Occorreva una pedagogia eucaristica, un «guidare pian piano» e recuperare una teologia dello Spirito Santo perché «(…) è lo Spirito che interiorizza i gesti, i segni, che li rende reali in noi»36 ne rende efficace la comprensione.

Il prete non è il maestro d’orchestra
L’eucaristia, osservava Balducci non si adempie nel pane e nel vino, «(…) l’eucaristia si adempie sul serio nella comunità dei credenti». Il prete non è il maestro d’orchestra, è uno che «venera lo Spirito Santo» e lo venera nei credenti in cui si adempie l’eucaristia, perché l’adempimento non è sull’altare. «È dalla fede del credente che il significato del segno si dischiude come un fiore che sboccia»37. La realtà della presenza è legata al suo carattere di segno diceva, e dunque l’adempimento della presenza si realizza là dove è percepita con fede. Il compimento è opera dello Spirito Santo e il sacerdote deve lasciarlo parlare senza «calpestarlo».
Annunciatore della parola, ministro di gioia, il sacerdote nel modo in cui Balducci ne veniva delineando la figura era pur sempre maestro della fede: non propone né impone la propria dottrina ma «(…) annuncia la parola di Dio e ascolta l’eco che essa ha nella comunità che risponde professando la fede. Che cosa deve garantire? La rispondenza alla traditio apostolica»38. Io credo, affermava Balducci, che «(…) più si passa da una Chiesa verticale a una Chiesa assembleare, più la missione del ministro è essenziale ed è delicatissima».
Nelle comunità il ministro è colui che ha il carisma per l’imposizione delle mani di garantire la professione di fede, «termine della stessa eucaristia». Dunque la missione del sacerdozio ministeriale ha un contenuto indefettibile che va scoperto e liberato da sovrastrutture desuete, ma qual è il suo compito specifico? Le parole della consacrazione osservava Balducci non sembrano essere di competenza esclusiva del sacerdote perché non è escluso che tutto il popolo con lui le pronunci. C’è, si chiedeva, un fondamento oggettivo, rivelato, del ministero sacerdotale? La successione apostolica riguarda la comunità intera ed è alla fedeltà apostolica della comunità che va riferita la successione per imposizione delle mani: diversamente, essa si presterebbe a una deformazione di tipo giuridico.
Il problema, a fronte della crescente percezione nei laici della inutilità dei preti, pareva a Balducci che fosse di motivare in modo innovato, basato sulla Scrittura e sulla traditio apostolica, l’istituzione divina dei ministeri. Proponeva la definizione del sacerdozio ministeriale che ne aveva dato Rahner: colui che per incarico della Chiesa annuncia a una comunità «esistente almeno potenzialmente» la parola di Dio, «(…) per cui sono affidati a lui anche i sommi gradi d’intensità sacramentale di questa parola»39, che si realizzano nella celebrazione eucaristica. Nella definizione di Rahner l’atto cultuale, commentava Balducci, è ricondotto sotto la specie di annuncio della parola. Il sacerdote è destinato all’annuncio, a lui compete come carisma specifico nel popolo di Dio di cui è parte, fino al massimo dell’efficacia sacramentale della parola, dove la parola realizza ciò che annuncia. La comunità reale, osservava Balducci, si ha quando la convocazione, compiuta dal sacerdote con l’annuncio, si realizza attorno all’eucarestia. Allora la comunità è in atto. Ciò che gli premeva sottolineare nella definizione di Rahner che forniva a suo modo di vedere uno schema teologico quanto mai semplificante, era che il sacerdote è colui che annuncia per incarico della Chiesa. È la grazia che dà la competenza profetica sulla parola ma la comunità eucaristica in quanto realtà visibile può conferire questa «investitura» «nei modi dovuti», cioè attraverso l’imposizione delle mani. Il soggetto cultuale non è però il prete ma il popolo di Dio. «Non siamo noi che scegliamo il sacerdozio, ma è la comunità che ci sceglie, è la ecclesia»40. Questa era allora per Balducci la questione dirimente.
Approfondire la differenza specifica del prete, trovare per questa «un punto d’appoggio», gli pareva di estrema importanza e urgenza per evitare il pericolo di una radicale secolarizzazione, «(…) come se toccasse alla comunità svolgere la responsabilità globale della missione di salvezza»41. Invitava invece a ripensare al sacerdozio ministeriale come a un servizio reso al sacerdozio comune, all’apostolato globale della Chiesa. Era convinto che questo «germe» che era nel Concilio indicasse il nuovo verso cui tendere: «(…) il sacerdozio ministeriale va definito in rapporto al sacerdozio comune che è più importante di quello ministeriale».
Dunque, tornando alle pagine iniziali delle meditazioni, Balducci poteva ormai concludere che la parola molto «sciatta» e del tutto «desacralizzata» con cui il Concilio aveva chiamato i preti, presbiteri, che ai più non piaceva, era tutto sommato appropriata perché applicato ai preti il termine sacerdozio perdeva di legittimità. «Noi siamo coloro che nella Chiesa hanno ricevuto il compito di annunciare la parola alla comunità perché essa viva il suo sacerdozio»42. Un ministero apostolico che come tale, osservava, rende difficilmente giustificabile la frantumazione dell’unità ministeriale fra preti e vescovi. Era un embrione di riflessione, più volte Balducci avvertiva del carattere necessariamente provvisorio di ciò che veniva elaborando. I modi possibili di svolgimento del ministero riportavano al tema del potere e dell’autorità, ma come «modo di esistere», come «comportamento», convinto com’era del valore significante di tutto questo perché nella Chiesa sacramento tutto, diceva, è sottoposto alla logica del segno. Nella comunità «(…) in quanto ministri siamo dei segni visibili dell’autorità del Cristo capo della Chiesa (…) abbiamo la competenza di essere segni della sua autorità sul suo corpo perché esso cresca»43, dove Balducci riconduceva auctoritas ad augere, alimentare, far crescere. E nell’ambito del modo di esistere come segno, tornava sul tema del celibato: «Invece di vivere da prete, di parlare da prete, di avere la faccia da prete (…) noi dobbiamo essere uomini con in più questo carisma che può anche sostenere una rinuncia come quella del celibato»44, rinuncia profetica «(…) conveniente alla vita dedicata alla parola di Dio e all’edificazione della comunità». Esitava sempre nell’affrontare questo tema, perché forse, pensava, il processo «(…) secondo il quale la vita del prete diventa tutta secolare» è irreversibile. «Noi preghiamo», scriveva, perché la Chiesa sciolga i molti vincoli che rendono coatto l’esercizio del ministero sacerdotale e ritrovi la forza della parola profetica. «Quando dunque la accettazione di una vita tutta dedicata al Regno non sarà tutelata da leggi (…) quando il discorso del prete sarà discorso di fede e nient’altro allora noi vedremo rifiorire carismi mirabili nel mondo di coloro che sono ministri»45. Il vincolo con la parola di Dio non è dovuto a coazioni, sottolineava, ma a una libera elezione: una libertà «(…) che si gioca tutta fra l’uomo e Dio e sulla quale la Chiesa non ha poteri dirimenti».
«Noi dobbiamo anche essere lieti che ormai coloro che rimangono fedeli alla loro promessa totale al Signore rimangono fedeli in quanto sono uomini liberi non in quanto la legge li costringe. Io credo che il superamento della condizione giuridica del clero vada fatto con rapidità. (…) sono anche certo che se la distribuzione del ministero diventerà multiforme, ci saranno preti in più condizioni di vita. (…) Però dovrà essere sempre posto nel debito onore il carisma di chi per vivere della parola di Dio, di questo annuncio, dona tutto, secondo quanto disse il Cristo agli apostoli: Lascia tutto e vieni con me. Questa parola non si può cancellare»46. Il discredito diffuso del «carisma del dono di sé» (il celibato) lo addolorava perché lo riteneva una ricchezza per tutta la comunità: «È il segno del sangue, con cui risponde alla parola colui che è stato definito uomo per la parola di Dio, cioè il ministro». La convenienza interiore la lasciava tuttavia alla percezione delle coscienze.
Infine, riprendendo la figura del prete come annunciatore della parola, Balducci tornava a sottolineare il legame tra il sacerdote e l’evento pasquale che si deve annunciare. L’evento pasquale come simbolon contiene tutte le cose, c’è «un’ampiezza» della parola di Dio – diceva – che investe l’universo, non caccia la storia. Il sacerdote nella comunità è l’interlocutore, «è il segno del tu di Dio»47, essenziale per garantire sacramentalmente la struttura dialogica della comunità. «Più si va in là e più penso che saranno necessari i ministri della comunità che siano anche dei testimoni, proprio perché la dirompente forza di secolarizzazione, l’impegno opprimente dei fini storici che ormai circondano le coscienze anche dei cristiani fervidi, forse esigono che alcuni decidano di essere per tutti il segno profetico della parola di Dio»48.
Vivere la propria vita come strumento, come segno. Una spoliazione necessaria, diceva Balducci al termine degli esercizi spirituali, «(…) per consegnarsi con assoluta fiducia alla forza della parola che corre dove vuole, che ci trascina dove vuole, che ci mortifica quando vuole, è questo che ci rende spiritualmente liberi».

1 E. Balducci, I servi inutili, Cittadella Editrice, Assisi 1970.
2 Ibidem, p. 5.
3 Ibidem, p. 6.
4 Ibidem, p. 8.
5 Ibidem, p. 9.
6 Ibidem, p. 15.
7 A. Scattigno, Una rilettura de l’Expérience chrétienne de l’Isolotto di Jacques Servien, in C. Daurù e P. Ricciardi (a cura di), 1968-2018. Eppure il vento soffia ancora… Fare comunità: pratiche e ricerche a confronto. Incontri, testimonianze, riflessioni per i 50 anni della comunità dell’Isolotto, Libri liberi, Comunità dell’Isolotto, Firenze 2019.
8 E. Balducci, I servi inutili, cit., p. 9.
9 Ibidem, p. 13.
10 Ibidem, p. 15.
11 Ibidem, p. 17.
12 Ibidem, p. 22.
13 Ibidem, p. 29.
14 Ibidem, p. 30.
15 Ibidem, p. 31.
16 Ibidem, p, 32.
17 Ibidem, p. 33.
18 E. Balducci, La Chiesa come eucaristia, Queriniana, Bologna 1971.
19 Ibidem, p. 34.
20 Ibidem, I servi inutili, cit., p. 38.
21 Ibidem, p. 21.
22 Ibidem, pp. 40-41.
23 Ibidem, p. 42.
24 Ibidem, p. 50.
25 Ibidem, p. 138.
26 Ibidem, p. 53.
27 Ibidem, p. 60.
28 Ibidem, p. 56.
29 Ibidem, p. 71.
30 Ivi.
31 Ibidem, p. 76.
32 Ibidem, p. 85.
33 Ibidem, p. 137.
34 Ibidem, p. 139.
35 Ibidem, p. 145.
36 Ibidem, p. 148.
37 Ibidem, p. 259.
38 Ibidem, p. 153.
39 Ibidem, p. 161.
40 Ibidem, p. 162.
41 Ibidem, p. 163.
42 Ibidem, p. 164.
43 Ibidem, p. 166.
44 Ibidem, p. 169.
45 Ibidem, p. 173.
46 Ibidem, p. 174.
47 Ibidem, p. 208.
48 Ibidem, p. 212.