di Nadia Urbinati
La disuguaglianza è un dato di fatto, l’uguaglianza un dover essere, un’utopia. Si sono create «favole belle» per giustificare la disuguaglianza, e la si misura per evitare che l’eccessivo squilibrio fra chi ha e chi non ha possa portare a sconvolgimenti rovinosi. Lo scopo del «patto democratico», attualmente reso problematico dall’imperante mito della meritocrazia, sarebbe invece, pragmaticamente, quello di dar vita a un accomodamento delle disuguaglianze al fine di stabilizzare la società e costituire un benessere diffuso e generale.
Se l’uguaglianza è utopia
Di reale c’è la disuguaglianza. L’uguaglianza è un dover essere, quando di essa è imbevuta la cultura etica; è un’utopia, quando di essa si parla come di un bene perduto in questo mondo e ora. Questa distinzione cruda serve a comprendere perchè è alla disuguaglianza che occurre prestare attenzione, e soprattutto al grado della sua accettazione in una determinata società. Nonostante la nostra cultura morale ed etica sia imbevuta dell’ideale di uguaglianza (che si è affermato con lo stoicismo e, in forma di fede, col cristianesimo), l’uguaglianza universale tra gli esseri umani ha marciato sempre insieme alla condizione di una effettiva disuguaglianza. L’equilibrio tra idealità ed effettività ha segnato in qualche modo la stabilità degli ordini sociali. Questo equilibrio ha funzionato fino a quando le ragioni della disuguaglianza sono apparse persuasive alla grande maggioranza delle persone, ed il bilancio concreto tra il dover essere e l’essere non è stato fortemente a discapito del primo. Misurare la disuguaglianza è stato non per caso uno degli obiettivi delle scienze economiche e sociali: per comprendere quanti ne soffrono, in che modo e in quali ambiti, come le sofferenze generate dalla disuguaglianza possono essere alleviate e curate. L’ideologia della disuguaglianza gioca quasi un ruolo demiurgico, nel senso che essa ha il potere di rinsaldare o invece di scardinare una società. Illuminante è a questo riguardo l’incipit dell’ultima fatica di Thomas Piketty: «Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze (…) Ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie, finalizzate a legittimare la disuguaglianza»1.
Le «favole belle» del Socrate della Repubblica
Pensiamo, per esempio, alle «favole belle» che il Socrate della Repubblica di Platone mette alla base di kallipolis, la città bella; al mito dei metalli che serve non solo a giustificare la differenza tra le persone, ma soprattutto a far accettare il posto che a ciascuno viene riservato in società a causa di quella distinzione naturale. La traduzione della differenza naturale in disuguaglianza di potere e funzione sociale è difficile da attuare e, ancor più, da fare accettare. Tanto difficile da richiedere un mito (la favola dei metalli di Platone) per essere creduta facendo perno non sull’intelletto astratto ma sulla forza immaginativa del giudizio. La forza persuasiva di questo mito e la sua credenza indiscussa decreta la stabilità sociale. Al contrario, quando esso non riuscirà più a far presa sulle credenze, quel che appariva una giusta distribuzione di oneri in relazione alle capacità si rivelerà agli occhi di molti un trucco. A questo punto, la credenza nella giusta disuguaglianza cade e le cose appariranno nella loro crudezza fattuale: la società come un regime che celebra il dominio dei pochi, i quali sono giunti al monopolio del potere truccando le qualità possedute, ovvero facendo apparire aureo il bronzo. La relazione di corrispondenza tra la disuguaglianza per merito e la disuguaglianza per sopruso costituisce la trama della storia delle società. Il passaggio dalla differenza che qualifica naturalmente gli esseri umani (nessuno dei quali è uguale all’altro) alla disuguaglianza di potere nella distribuzione degli onori e delle cariche pubbliche, e prima ancora del riconoscimento, era secondo Jean-Jacques Rousseau come la prefazione della rivoluzione. Le favole belle non sono più i miti ideati dal buon fondatore dell’ordine sociale; ora, sono narrative inventate dai potenti per giustificare la loro condizione di privilegio sociale e politico e farla accettare addirittura come essenziale al bene dell’intera società. Il fatto è che se non durano le favole belle, non durano neppure le loro parodie. L’inganno dell’ideologia della disuguaglianza dura per un tempo indefinito. Il momento di rottura è dunque segnato dal tipo di ideologia che è finalizzata a legittimare la disuguaglianza. Cogliere il momento della transizione tra una giustificazione creduta e una giustificazione non creduta, tra una narrativa che tiene in equilibrio l’essere e il dover essere e una che li distanzia sempre di più fino a divorziarli è il compito della politica. La politica cerca soluzioni al rischio di rivoluzione, e quando riesce in questo intento essa è in grado di tradure i rischi di una rivoluzione violenta in una progressiva trasformazione della società allo scopo di ristabilire quell’equilibrio, e con esso la stabilità.
L’utopia pragmatica della società democratica
Questa è l’utopia pragmatica della società democratica, la quale non promette una uguaglianza assoluta, accetta la differenza tra le persone (non cerca di includere solo gli identici ed escludere i diversi) e opera costantemente per impedire che le disuguaglianze sociali diventino non scalfibili. Le costituzioni democratiche promettono l’uguaglianza di considerazione di fronte alla legge, l’uguaglianza di opportunità di partecipare attivamente alla politica, l’uguaglianza di considerazione per la propria persona e le proprie scelte se non danneggiano gli altri, l’uguaglianza di capacità educativa e di possibilità economiche affinché ciascuno possa formare il proprio carattere e prendersi cura della salute e della vita – queste promesse designano un governo della disuguaglianza; un governo che sappia vedere e che monitori costantemente la disuguaglianza ovunque si annidi, che la giudichi le relazioni sociali e politiche secondo il principio ideale – il dover essere democratico – e che usi l’arma della politica (dialogo, critica e voto) per fare tutto questo. La democrazia non dichiara la fine della proprietà privata, ma vuole che la proprietà sia giusta; ovvero che quando è proprietà dei mezzi di produzione sia responsabile verso la collettività. Nessun interesse, tantomeno quello economico, gode una condizione privilegiata. Quando il patto tra interesse privato e interesse collettivo si spezza, la democrazia che ha consapevolezza dei propri fondamenti e della propria identità non si astiene dall’intervenire, non lascia fare al libero gioco del mercato, non rinuncia a pattugliare il proprio ordine. Quel che vediamo oggi accadere nei paesi occidentali, in Italia in modo eclatante, è la non curanza dei governi per la distanza del fatto della disuguaglianza dalla promessa costituzionale e dal dover essere. È in questa forbice che si allarga ogni giorno di più che assistiamo alla costruzione di giustificazioni della disuguaglianza dei proprietari.
Alla base di queste costruzioni ideologiche vi è l’idea che la ricchezza e la disuguaglianza proprietaria devono essere difese contro l’accomodamento e il bilanciamento promesso dalla democrazia. Alla base vi è la favola del successo e dell’insuccesso meritati.
L’ideologia meritocratica
L’ideologia meritocratica che oggi ha le vele in poppa per il largo consenso che registra nell’opinione politica, è la narrativa che una società profondamente disuguale fa propria per preservarsi. La possibilità di questa preservazione è direttamente proporzionale all’efficacia della narrativa meritocratica, distribuita a piene mani nelle scuole e nell’opinione, dai media e dai politici che operano nelle istituzioni. Lo scopo è quello di bloccare ogni intervento della politica nel processo di accumulazione della disuguaglianza per accettare, infine, il «fatto» che siano disuguali in società perché siamo disuguali nei nostri talenti e nelle nostre potenzialità, ovvero per natura. La disuguaglianza di potere e di ricchezza dovrebbe per questo essere accettata da tutti. Nulla può fare la politica contro un successo meritato con l’impegno individuale, magari «spaccandosi la schiena». Anzi, se la politica intervenisse a correggere questo andamento delle relazioni socio-economiche lo farebbe a scapito della libertà individuale, che è libertà di intraprendere e fare con competenza riservandosi di aiutare con la carità e la filantropia coloro che non perdono anche perché non si impegnano abbastanza. Educare al sacrificio e al duro lavoro è la raccomandazione pratica dell’ideologia della disuguaglianza per merito, che ha a questo punto divorziato dal dover essere dopo aver criticato di ugualitarismo punitivo le politiche sociali che si richiamano al patto democratico di tendere ad equilibrare il fatto della disuguaglianza con il principio dell’uguaglianza.
Il «patto democratico»
Lo scopo del patto democratico è dunque quello di dar vita a ciò che Piketty chiama una «proprietà giusta», un accomodamento delle disuguaglianze al fine di stabilizzare la società e costituire un benessere diffuso e generale. Per questa ragione, sarebbe necessario sostituire il regime della disuguaglianza proprietaria con un sistema temporaneo di circolazione della proprietà attraverso l’arma della tassazione. Secondo Piketty, la proprietà resta il fulcro della società democratica, che non coltiva l’aspirazione ad una uguaglianza assoluta ma persegue una disuguaglianza tollerabile, che non metta in discussione il sistema di libertà politica. La soluzione proposta da Piketty è non un regime di proprietà permanente, ma un regime di proprietà temporanea: insomma far comprendere che la proprietà non è attaccata al nostro essere o a quello della nostra famiglia, ma circola tra le persone dello stesso paese e, in prospettiva, tra i paesi del mondo (l’assemblea mondiale dei popoli diventa l’orizzonte di un futuro da costruire).
In sostanza, la democrazia è la chiave per portare l’uguaglianza laddove viene prodotta la ricchezza: un territorio che è oggi appannaggio delle multinazionali, i nuovi monopoli. Portare una testa/un voto nelle corporations, portare la deliberazione nei luoghi di produzione della ricchezza – insomma adattare alla società post-industriale il principio della democrazia dei consigli di fabbrica pensati da Antonio Gramsci e, più recentemente, da Bruno Trentin. Questa rete federativa di produzione della ricchezza e di gestione democratica avrebbe lo scopo di consentire alla proprietà di fare un servizio che oggi non fa: dare vantaggi a tutti o al più gran numero, invece di concentrarsi nella difesa degli interessi di una porzione piccolissima di persone. De-oligarchizzare e democratizzare sono le narrative che l’ideale dell’uguaglianza oppone a quello della meritocrazia. Così conclude Piketty: «(…) che cos’è una società giusta? Propongo, nel contesto di questo libro, l’imperfetta definizione che segue. Una società giusta è quella che consente a tutti i suoi membri di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base: l’istruzione, la salute, il diritto di voto e, più in generale, la più completa partecipazione alle varie forme di vita sociale, culturale, economica, civile e politica»2. Era questo l’obiettivo del Labour Party nei primissimi anni del secondo dopoguerra, e del saggio di T. H. Marshal sulla democrazia e la classe sociale in particolare3. L’obiettivo resta ancora oggi quello di una democrazia che si espande oltre la sfera politica, in quella sociale ed economica4. Il progetto messo in piedi nel dopoguerra si è incistato nella classe media colta, quella parte di popolazione che si era liberata dal bisogno e dall’ignoranza con la lotta al fascismo e al nazismo, e che si è gradualmente rinchiusa in un recinto per meglio proteggersi, bloccando la circolazione di possibilità e con essa il rischio che nuovi poveri venissero a intaccare quel benessere a fatica conquistato. Chiudere le paratie – anche questo spiega oggi la difesa della disuguaglianza sostenuto dall’ideologia meritocratica. La contro-narrativa da opporre dovrebbe essere la proposta di una circolazione aperta, di una democrazia che si impegni a fare quanto promette: scardinare la calcificazione delle classi. Potremmo dire che la «democrazia radicale» (ritornare alle radici, alle equali libertà) è la risposta al regime proprietario moderno di esclusione (generativo di classi chiuse e monopoli). Equivale ad ammettere la necessità di una ristrutturazione per il bene dell’ordine democratico certamente, e anche della vita del pianeta.
1 T. Piketty, Capitale e ideologia, traduzione dal francese di L. Matteoli e A. Terranova, La nave di Teseo, Milano 2020, p. 13.
2 Ibidem, p. 1093.
3 T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, (prima edizione inglese 1950) nuova edizione a Cura di S. Mezzadra, Laterza, Roma-Bari 2002.
4 Scrive Mezzadra nell’introduzione al testo di Marshall che il rapporto della Commissione interministeriale presieduta da Beveridge nel 1942, è insieme al New Deal rooseveltiano «(…) il vero e proprio atto di nascita di uno Stato sociale democratico improntato a una logica universalistica e compatibile con un’economia di mercato, era esplicitamente formulato l’obiettivo di approfittare delle condizioni di relativo livellamento sociale prodotte dalla guerra (il cosiddetto spirito di Dunquerque) per varare un complesso di strategie di “attacco al bisogno” e di protezione sociale, in particolare attraverso la generalizzazione del meccanismo dell’assicurazione obbligatoria», Id., p. 6.