Il lavoro e la questione sociale nel tempo della crisi
di Maurizio Landini
Piero Meucci. Ora darei la parola a Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, collegato con noi. Cito le sue recenti parole: «L’Europa non ha mai messo a disposizione degli stati così tante risorse, quindi è il momento di compiere scelte radicali, innovative e contagiose. Si deve uscire dalla logica neoliberistica che ci ha condotto a tagliare la spesa sociale, la sanità, l’istruzione e che ha precarizzato il lavoro». Dunque, secondo lei l’Europa sta ripartendo con il piede giusto per cercare un nuovo modello di sviluppo?
Maurizio Landini. Innanzitutto, vi ringrazio di questa opportunità perché credo che sia davvero il momento della discussione e del confronto. Credo che in un momento come questo, ognuno di noi abbia la responsabilità di mettere tutta la sua intelligenza per rendere possibile un cambiamento profondo. E questo cambiamento non è scontato che si realizzi. In Europa, infatti, è in corso una discussione, c’è un conflitto aperto sia sul piano economico che su quello sociale e politico. L’esito di questo confronto e di questo conflitto non è ancora certo. Ogni cambiamento, infatti, produce resistenze. Di certo siamo di fronte a un paradosso: c’è voluta una pandemia per fare emergere tutte le fragilità e le diseguaglianze che l’attuale modello di crescita ha prodotto. Inoltre, nel corso di questi anni, si è affermata l’dea che era sufficiente lasciar fare al mercato per avere una crescita economica costante quanto sostenuta e che tutto ciò avrebbe risolto qualsiasi problema. È un modo di pensare che ha attraversato tutte le organizzazioni politiche. Oggi queste certezze sono state messe in discussione, si apre un’opportunità impensabile solo fino a poco tempo fa. Faccio alcuni esempi per soffermarmi poi sulla grande questione del lavoro. Tante persone riconoscono il sindacato come un soggetto che è stato in grado di dare risposte concrete a fronte di una situazione per tanti versi drammatica, ciò sta ad indicare che parole e comportamenti che erano considerati superati e dissolti hanno invece un valore. Se guardiamo al mondo del lavoro, possiamo vedere come la collaborazione tra le persone, e non la competizione, sia tornata ad essere un valore. La solidarietà assume nuovamente un significato importante e si presenta come un valore radicalmente alternativo a quella forma di individualismo che si era affermato nel corso di questi anni. Così come si è toccato con mano quanto sia importante la partecipazione dei cittadini per un migliore funzionamento delle stesse istituzioni. È sotto gli occhi di tutti quanto sia tornata ad essere incisiva la sanità pubblica, diversamente dal ruolo del tutto marginale che ha avuto la sanità privata nel corso della pandemia. È emerso con chiarezza, infatti, quanto sia importante costruire una sanità fondata sul territorio, sulla prossimità, sulla vicinanza e sulla capacità di prendersi cura delle persone. Ci si è resi conto che la libertà non può essere disgiunta dal rispetto degli altri, dalla solidarietà, dalla tenuta dei legami sociali che, prima della pandemia, erano diventati marginali nella cultura dominante. Oggi sono temi che, invece, assumono un valore di fondo. Da questo punto di vista, porto la mia testimonianza, che non ha la pretesa di essere valida in assoluto ma è dettata da un’esperienza e una pratica concreta. Oggi, nel pieno della pandemia, parole come solidarietà, legame sociale, hanno ritrovato un significato profondo. Inoltre, in questi mesi così difficili, è emerso che per affrontare una situazione per certi versi inedita c’è bisogno anche di una dimensione più generale. Le stesse politiche dell’Europa sono sottoposte ad una verifica e ad un cambiamento necessario. Quando si discute del ruolo dell’Europa, di come utilizzare ed investire le risorse che verranno dalla stessa Comunità europea – sanità, ambiente, innovazione tecnologica, infrastrutture, nuove politiche industriali – credo ci sia bisogno di assumere in tutta la sua dimensione il tema del lavoro e della sia qualità. Onestamente, avverto ancora poca attenzione su grandi questioni quali la stabilità del lavoro in alternativa alla condizione di precarietà e di sfruttamento. I governi dei diversi Paesi saranno giudicati dai loro cittadini su come utilizzeranno le risorse europee e su come risolveranno i problemi concreti delle persone. Proprio per questo credo sia necessario mettere al centro la qualità del lavoro e farne un vincolo per tutte le scelte politiche. Faccio un esempio, lo smart working. Non nascondo, da uomo del Novecento, che fino a poco prima della pandemia avevo qualche resistenza alle video conferenze e alle tecnologie più diffuse. Questi processi, però, non si fermeranno e ognuno di noi dovrà imparare a lavorare sia in presenza che a distanza. È necessario, quindi, che il grande tema del lavoro, della sua qualità e dei suoi diritti, venga posto al centro dei cambiamenti che si vanno diffondendo. È un principio che abbiamo affermato nel pieno della diffusione della pandemia, quando si è arrivati a stabilire che salute e sicurezza vengono prima del profitto e degli interessi economici. E sulla base di questo principio che si è stabilito quali attività erano essenziali e quali si potevano fermare. Sempre tenendo fermo come criterio la centralità della sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici. Non è stata una discussione semplice. Oggi possiamo dire, però, che il nostro è l’unico Paese in Europa che ha fatto questa impegnativa scelta. Laddove questo non si è fatto le difficoltà, nell’affrontare la diffusione del virus, sono state maggiori. Secondo me, questo è un approccio che non deve valere solo nella fase di emergenza, ma deve valere come principio di fondo. Lo dico in modo molto schematico: il nostro problema oggi non è tornare alla situazione che c’era prima del Covid. Già prima della diffusione del virus, infatti, il modello economico e sociale che si era affermato mostrava crepe profonde. Per questo bisogna cambiare e mettere al centro il tema della stabilità e dei diritti del lavoro. Oggi la nostra funzione non è semplicemente quella di rivendicare un po’ più di salario e un po’ meno orario per coloro che lavorano. Ci sono entrambi questi due temi e vanno affrontati. Sono convinto però che mai come adesso, le questioni centrali riguardano il tipo di lavoro che si fa, cosa si produce, per chi si produce, con quale sostenibilità sociale e ambientale. Questioni che, se affrontate nel modo giusto, forniscono una grande occasione di cambiamento. Per quanto ho sentito fino ad ora, sono d’accordo che il tema delle città riveste una particolare importanza e che c’è la necessità di modificare profondamente il modo tradizionale di vedere le cose. Se si assume davvero la questione dell’economia verde cambia anche il modo tradizionale di concepire il prodotto. Ad esempio, nel campo del trasporto, il prodotto non è più l’auto, il camion, la nave, il treno ma è la mobilità delle persone e delle merci oltre che come si costruiscono le città. Questi nuovi prodotti devono essere pensati e progettati e il parametro per la loro progettazione non è solo o prevalentemente la quantità ma la loro qualità. Da questo punto di vista oggi si pone un problema nuovo e che riguarda la partecipazione delle persone che lavorano alle decisioni, alle scelte e al tipo di lavoro che viene fatto. E questo pone un problema di cambiamento non solo del lavoro ma anche dell’impresa e del suo funzionamento. Non si può più pensare che c’è chi decide e il lavoratore esegue. Così si mortifica il ruolo e l’intelligenza del lavoratore stesso. Il mondo del lavoro deve sempre di più partecipare alle decisioni dell’impresa, deve affermare il proprio punto di vista sugli indirizzi e sulla qualità sociale e ambientale degli investimenti, sulla stessa organizzazione del lavoro. Dietro tutto ciò c’è l’dea di quale nuovo modello di sviluppo e di quale mondo noi vogliamo prospettare. Questo significa costruire una coerenza tra l’iniziativa quotidiana e il modello sociale che si vuole realizzare. Oggi affermare la centralità del lavoro e della persona credo significhi proprio questo. Si tratta quindi di porre vincoli al mercato e di orientarlo verso questa prospettiva. E questo pone il grande tema del ruolo e del significato dell’intervento pubblico. Processi di questa natura, infatti, non possono essere lasciati al mercato perché da solo non è in grado di affrontarli e risolverli. La complessità delle questioni che abbiamo di fronte determina l’esigenza di un diverso rapporto con lo Stato. È una questione che riguarda l’Europa stessa. Quando parliamo di investire sulla scuola, sulla sanità, sulla tutela dell’ambiente e del territorio, sulla cultura, stiamo in realtà prospettando un modello sociale profondamente diverso da quello attuale. È necessario, ad esempio, investire nella sanità pubblica per garantire a tutti i livelli essenziali di assistenza. E questo va fatto anche per ciò che riguarda la cultura: bisognerebbe definire davvero i livelli essenziali per la fruizione culturale garantiti a tutti e in ogni parte del Paese. E questo perché sono investimenti che rafforzano il tessuto civile del Paese, contribuiscono a estendere i diritti sociali e creano lavoro di qualità.
Ecco, credo che siamo di fronte a questo passaggio. E in un passaggio di questa portata deve cambiare anche il sindacato. C’è bisogno, infatti, di ampliare la nostra rappresentanza a tutto il mondo del lavoro. E le nostre Camere del Lavoro devono tornare a svolgere quella funzione che hanno avuto alla loro nascita: cioè luoghi di incontro di tutte le persone che lavorano per potersi conoscere, organizzare, lottare per migliorare la propria condizione. Le Camere del Lavoro, quindi, come luoghi di formazione, di partecipazione, di impegno comune nella battaglia di emancipazione e libertà di tutto il mondo del lavoro.
Tutto quello che abbiamo richiamato non è certo un processo naturale. C’è un conflitto aperto e sugli stessi problemi ci possono essere soluzioni diverse. Noi, in questo conflitto, cercheremo di far vivere i valori e le idee che abbiamo fin qui affermato, a partire dalla centralità del lavoro e della persona.
Severino Saccardi. Ringrazio molto Maurizio Landini, per queste sue riflessioni e gli ruberei ancora un minuto, se permette, perché le cose da lui dette mi pare sollecitino una riflessione culturale (da fare qui a margine), che, oserei dire, è, però, di carattere fondamentale. Prima dicevamo, e storicamente si sottolinea giustamente, che l’Europa è fondata sulla cultura dei diritti. E normalmente quando ci si rapporta a tale dimensione, si pensa ai diritti politici e ai diritti civili. Ma l’Europa, però, che è basata anche sulla libertà di mercato, deve tenere conto anche dei diritti sociali. È una puntualizzazione che è bene sempre tenere a mente, anche in termini generali. I diritti sociali vengono richiamati relativamente poco quando si fa riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 48, eppure ci sono, in tale importantissimo testo, anche articoli che parlano espressamente dei diritti sociali. Mi rendo conto che è difficile parlare di un così grande tema in poche battute, ma questa è, dunque, la domanda: qual è lo spazio, in senso culturale, e non solo strettamente politico, per dare forza all’idea e alla realtà di un’Europa che sia fondata, certo sulla libertà di mercato ma che sia, al contempo, anche un’Europa sociale?
Maurizio Landini. Nella storia dell’Europa non c’è solo la libertà del mercato. L’Europa è stata al centro dell’esperienza dello Stato sociale; di quell’esperienza, cioè, che grazie alla lotta e alle battaglie del mondo del lavoro, ha prodotto quella mediazione tra capitale e lavoro che ha segnato lo sviluppo dei paesi e delle società europee. Da questo punto di vista non dimentichiamo, ad esempio, che la sanità pubblica, pur con tutti i tagli che ha subito, ha fatto la differenza nel contrastare la diffusione del virus. La stessa cosa non è avvenuta in paesi – penso agli USA – che non hanno conosciuto questa fondamentale conquista e hanno fatto e fanno più fatica a contrastare la pandemia.
Proprio perché veniamo da questa storia e da questa esperienza, credo che uno degli elementi più importanti sia proprio questo: ripensare un’Europa che sia in grado di trovare un nuovo compromesso sociale tra capitale e lavoro, naturalmente nelle forme e con i cambiamenti con cui oggi essi si esprimono. Se devo considerare un elemento di novità, anche per evidenziare i limiti delle culture politiche che abbiamo avuto in passato, penso che oggi debba essere posto al centro il tema della libertà e della partecipazione delle persone nel lavoro e nella vita sociale.
In questo senso, c’è bisogno di affermare una lotta per i diritti comuni in Europa e per un nuovo patto sociale di cui un aspetto decisivo è la questione fiscale. Infatti, non solo c’è un problema di riforma fiscale in Italia, ma c’è l’esigenza di definire un sistema fiscale su scala europea, che da un lato ponga fine ai paradisi fiscali e dall’altro contrasti la logica delle delocalizzazioni e delle competizioni giocate sui diritti e sulle condizioni di lavoro. Ritengo questo un tema centrale connesso a quello degli investimenti. Infatti, la costruzione di uno Stato sociale di questa natura vuol dire anche investire nello sviluppo sostenibile, creare lavoro, favorire la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Certamente c’è da fare una battaglia culturale. Infatti, lasciatemelo dire brutalmente, in questi anni anche quelle culture che si richiamano alla Sinistra europea – guardo a ciò che è avvenuto in Italia, ma anche in Francia, in Germania – hanno fatto errori e pagato prezzi assai pesanti proprio sul terreno della precarizzazione e della messa in discussione dei diritti del lavoro. Basta pensare a quello che ci si è dovuti inventare in Italia per sostenere tutte quelle forme di lavoro precario prive di diritti e tutele, come il settore della cultura, dello spettacolo e del turismo. Credo che questo sia un tema nuovo che bisogna affrontare. Per questo il problema, che è anche culturale, sta nel considerare il lavoro non solo sul terreno delle tutele ma concepirlo anche come elemento di trasformazione sociale. È ciò che consente di porre le persone – quelle che per vivere hanno bisogno di lavorare e che sono la grande maggioranza – nella condizione di essere cittadini attivi anche nei luoghi di lavoro. Questo a me sembra il tema.
Penso che ci voglia una nuova legislazione del lavoro. Infatti, così come il Parlamento sta discutendo di un nuovo sistema elettorale, credo che oggi ci sia anche la necessità di portare la democrazia e la partecipazione nei luoghi di lavoro. Ciò significa da un lato cambiare e rinnovare il sindacato, dall’altro affermare diritti legislativi al di sotto dei quali non si può andare, come ad esempio contratti nazionali che abbiano un valore generale e che sanciscano diritti comuni in Europa.
Piero Meucci. Ringraziamo Maurizio Landini per il suo intervento.