di Sergio Givone in dialogo con Severino Saccardi
Dura realtà prodotta dalla Storia e metafora della medesima condizione umana, l’esilio dalla propria terra, sempre doloroso, si configura come perdita di sé e di tutti i propri punti di riferimento, con conseguente smarrimento del senso di identità e di appartenenza, come avveniva nel mondo greco-romano. Ma ci può essere anche uno sradicamento (così è per la figura di Enea) che implica una rinascita. E possono esistere cattività o sperdimento accompagnati dalla ricerca di una terra promessa, come è evidenziato nel destino del popolo ebraico e della sua diaspora. In certi casi, il momento della disgrazia, dell’allontanamento o del confino può anche essere paradossale occasione di riscatto luminoso (il rimando è a personalità, fra loro diversissime, come Dante, Machiavelli o Lorenzo Milani). Il tema dell’esilio pone comunque sul tappeto la questione del diritto di asilo. Se la terra è di tutti, quali sono allora le difficoltà che ostacolano l’accoglienza? Esse sono date dal sussistere, ancora, dei nazionalismi e dalla mancata realizzazione di quella comunità di popoli, preconizzata da Kant, come condizione per la realizzazione della pace universale.
Enea, l’esule
Saccardi. Parto da una delle tante suggestioni possibili. La figura di Enea, rivisitata ad esempio dal poeta Giorgio Caproni, nella sua raccolta Il passaggio di Enea[1]. La statua, che si trova in piazza Bandiera a Genova, una scultura di Francesco Baratta, ritrae l’eroe troiano con Anchise sulle spalle e Ascanio per mano e, in questo luogo, uno dei più bombardati di Genova, a Caproni Enea appare, e lo scriverà più volte, non tanto come il fondatore di una stirpe, quanto piuttosto come il fuggiasco, l’uomo che cerca una salvezza per sé e per le persone amate. E, in qualche modo, un tema antico e una immagine così lontana e così remota vengono a collegarsi ai conflitti della modernità e della contemporaneità: la fuga dalla guerra e la ricerca della salvezza. Ecco, questo è uno spunto possibile, credo, per parlare di un dramma che si ripropone nella storia dell’umanità, con immagini che ci giungono così da lontano, ma che ci parlano ancora.
Givone. Sì, Enea è un esule, nel senso pieno del termine, exul,solo, colui che è sradicato dalla propria terra, dalla propria patria. Questo è l’esule. Un conto è l’esule, che in quanto sradicato dalla propria terra, dalla sua patria non è più nulla, è destinato a morire, proprio come una pianta che io strappo dalla terra e getto via, e un conto è l’esule come pianta da trapiantare. Hai detto bene, Enea come esule non è il fondatore di una stirpe, la sua stirpe, la stirpe che porta sulle spalle, il padre, e che tiene per mano, il figlio, la vuole trapiantare. Trapiantare una pianta sradicata non è una cosa facile, e tanto più difficile era allora. Per capirlo, bisogna riflettere su cosa fosse l’esilio per i greci, perché è nella Grecia classica, nella Grecia di Pericle, che nasce, che si definisce questa idea terribile dell’esilio. L’esilio, non dimentichiamolo, era la condanna più atroce che si potesse infliggere a una persona, peggio della condanna a morte, perché la condanna a morte manteneva l’identità della persona, del cittadino. Era il cittadino che veniva condannato a morte, perché era venuto meno a un suo compito, a un suo giuramento o a un suo patto, ne portava le conseguenze, ma restava tale, restava cittadino di quella città.
Saccardi. Nel caso dell’esule, è l’identità che viene uccisa, è l’appartenenza.
Givone. È l’identità che viene uccisa, tu non sei più figlio di tuo padre, tu non sei più figlio di tua madre, tu non sei più figlio della tua patria. Socrate, quando viene condannato a morte e gli viene offerta come scappatoia la fuga, sceglie la morte, perché la morte lo conferma nella sua identità di cittadino greco, cioè nella sua piena umanità. Avesse scelto l’esilio, Socrate non sarebbe più Socrate, Socrate non sarebbe più se stesso, non sarebbe più il cittadino di Atene. Allora, che cos’è questa cittadinanza, che legame c’è fra cittadinanza e esilio? Questo è il primo punto da cui partire e a cui conferisce tragicità l’idea di Enea, l’idea di Virgilio, che è poi romana, quella dell’esule che trapianta la propria identità. Il cittadino era tale, ciò che costituiva l’identità del cittadino greco e quindi la sua cittadinanza, era il fatto di non sottrarsi al giudizio degli altri cittadini.
Saccardi. Questo è il centro della lezione di Socrate.
Givone. Questo è Socrate: tu sei quello che sei perché ti esponi al giudizio, anche se questo giudizio è ingiusto, ma la legge è la legge, comunque sacra anche se si presta a giudizi ingiusti. Da questo punto di vista si capisce bene come la perdita della cittadinanza, cioè l’ostracismo (l’ostracismo è l’esilio, la condanna all’esilio, è la perdita della cittadinanza), fosse per i Greci la condanna più terribile, perché condanna non solo a morire, ma a perdere te stesso, a perdere la tua immortalità, la tua identità che è sempre identica a se stessa insieme a te.
Saccardi. Non sai più chi sei…
La dimensione dolente di Ovidio
Givone. E questa concezione rimane nel mondo romano. Il mondo romano riprende dai greci l’idea della cittadinanza come centralità e come fondamento della persona. Pensa a Ovidio.
Saccardi. Stavo per citartelo. In Ovidio c’è questa dimensione dolente, questa nostalgia, questo auspicare il ritorno, che non arriva…
Givone. Ma parla come uno dall’aldilà. Parla letteralmente come uno, non solo da un mondo altro rispetto a Roma, ma da un non mondo, qualcosa che è terra di nessuno, che è spazio di nessuno, al di là dei confini del mondo, dei fines, che sono l’Impero, che sono Roma, che sono quelli che fanno di ciascuno civesromano, cittadino romano, anche se abiti ai confini dell’Impero, ma se sei mandato aldilà dei confini, se non sei più cittadino, sei morto, morto vivente.
Saccardi. La cittadinanza è la dimensione cardine per i Romani: è uno strumento di espansione dei diritti e del senso di appartenenza, e, insieme, è anche uno strumento di dominio, perché via via c’è l’inglobamento delle popolazioni sottomesse e, insieme, conquistate politicamente e culturalmente tramite l’idea e la pratica dell’inclusione.
Givone. L’idea dell’inclusione è in sé ambigua, perché è l’idea di poter includere chiunque, cioè tutti gli altri uomini; tutti gli altri uomini erano potenzialmente cittadini romani e venivano rispettati, con le loro tradizioni, i loro usi e costumi, salvo il riconoscimento di questo carattere profondamente umano che è la romanità, l’appartenenza a un impero e quindi alla piena umanità. Ma il principio inclusivo è al tempo stesso un principio terribilmente esclusivo, perché coloro che non lo adottano, questo principio, che non si lasciano includere, e quindi vengono esclusi, non sono nulla, non hanno nessun diritto. Proprio il fatto di poter sempre e comunque essere incluso, fa sì che colui che è escluso, sia escluso per sempre da tutto, sia niente. «Hic sunt leones» ed è questa idea ambigua del confine, per cui il confine, in latino, quando è limen, ed è neutro, è includente. Quando è limesè il confine: hic sunt leones. Al di là, c’è il nulla.
Saccardi. Che anche oggi è il doppio significato del termine «frontiera».
Givone. Io penso che il problema dell’esilio non possa che essere affrontato storicamente, perché è storicamente che si è definito nel termine esatto ed è interessante come in quei secoli, i secoli di Atene e di Roma, in cui l’umanità dell’uomo si realizzava nel suo essere cittadino, nella sua cittadinanza, nell’altra parte del mondo, un piccolo popolo si costituisse come popolo di esiliati. Questo era inconcepibile per i romani.
Un popolo di esiliati
Saccardi. Parli del popolo ebraico.
Givone. Parlo del popolo ebraico.
Saccardi. Lì c’è anche, mi sembra, la congiunzione fra la dimensione dell’esilio e quella della cattività di un popolo: si pensi alla cattività babilonese, alla schiavitù d’Egitto e poi, in termini diversi, alla diaspora dopo la distruzione del Tempio. Ne deriva la figura mitica, che è anche stata usata dall’antisemitismo, dell’ebreo errante. Quindi, la dimensione dell’esilio è compenetrata con l’immagine stessa di questo popolo. Come il desiderio, nei secoli, del ritorno (quando questo sarebbe stato possibile), a Gerusalemme.
Givone. Questa è una novità: la possibilità del ritorno non è tanto legata alla possibilità di ritornare là dove tu eri, ma è legata alla possibilità di trovare la terra promessa, di trovare quella piena realizzazione di te che tu non hai mai avuto, perché quello che tu conosci, tu ebreo, tu popolo ebraico è la cattività, è la prigionia. Erano secoli, mille anni prima dell’Atene di Pericle che gli ebrei erano prigionieri in Babilonia. Avevano conosciuto lo sradicamento, l’esilio, e anche per loro questo esilio aveva significato perdita dell’identità. Mosè, figlio di un’egiziana: leggende come questa, ad esempio, che cosa stanno a significare? Stanno a significare l’idea di un popolo che, nel momento in cui perde il diritto di cittadinanza, perde quindi la propria libertà, perde quindi la propria identità, è uno strano popolo. È un popolo che vive all’interno di un impero, l’Impero babilonese, l’Impero egizio, ma senza averne i diritti.
Saccardi. E che è minacciato continuamente di sradicamento.
Givone. Minacciato continuamente di sradicamento, di espulsione, di cacciata, di diaspora, cosa che si ripeterà prima nell’Impero babilonese, poi nell’Impero egizio, poi nell’Impero romano.
Saccardi. Però c’è anche il tema dell’Esodo, il viaggio dalla terra della schiavitù alla terra della libertà, che è anche una categoria culturale di fondo del nostro Occidente.
Givone. Bisogna riflettere sul perché nasca questa idea, impensabile per i Romani, per cui la cacciata diventa esodo e l’esodo diventa viaggio verso la terra promessa. Solo qualche cosa del genere, cioè il fatto che l’esilio, lo sradicamento possa trasformarsi in ritrovamento di una nuova terra, quindi dar luogo a un vero e proprio trapianto, ecco questa idea appare in Enea, in Virgilio, è un’idea nuovissima rispetto a ciò che i Greci e i Romani avevano pensato fino al quel momento. A Ovidio non viene neanche lontanamente in mente.
Saccardi. Ovidio è confinato in una dimensione che non è riscattabile.
Givone. Da questo punto di vista, Ovidio è un uomo con lo sguardo rivolto al passato, al passato di Atene, al passato di Roma, dove l’esilio significa morte civile, quindi una morte peggiore della morte, perché è morte che uccide senza ucciderti.
Saccardi. È espiazione di una colpa, vera o presunta che sia. Mi pare che Ovidio dica «Io sono qua per un carme o per un errore». Ma il carme, se non mi sbaglio non si sa quale sia e l’errore è rimasto sempre indefinito.
Givone. Poi lui dice: cos’è la mia colpa rispetto alla pena che sto pagando? Quale che fosse la mia colpa, una poesia che ho scritto, un tradimento, qualche affaire, quale che sia la mia colpa, io sto pagando una pena infinitamente superiore a qualsiasi cosa. Ma, appunto, il fatto di essere là è la fine di ogni futuro.
Ritrovare se stessi, abbandonando il mondo
Saccardi. È irredimibile.
Givone. È irredimibile. Invece Virgilio, e non per niente la leggenda fa di lui un precursore del cristianesimo, nell’esilio vede un possibile esodo, cioè nello sradicamento vede il possibile rinnovamento della vita e tale idea viene da Gerusalemme, non viene da Atene, non viene da Roma. L’idea che chi si offre liberamente all’esilio, poi nella liturgia cristiana ritorna come l’offrirsi liberamente alla propria passione: solo chi si offre liberamente all’esilio, troverà una possibile libertà. Ecco, se ci chiediamo dove sia nata un’idea del genere è difficile dirlo, perché tutta la storia del popolo ebraico ne è costellata: Babilonia prima, l’Egitto poi, la diaspora sefardita e la diaspora ashkenazita. Quella ashkenazita non è una vera e propria diaspora, ma è una diaspora, perché questi erano radicati dove? Erano radicati nel deserto e non per niente Rosenzweig,a proposito della diaspora ashkenazita, cioè di questo strano essere radicati dove non si può mettere radici, nel deserto, ha parlato di «errante radice». Ecco, dove nasce l’idea di un esilio che si trasforma in esodo e poi in viaggio verso la terra promessa? Forse, una delle ipotesi potrebbe essere quella del rimando agli Esseni, a questo popolo di esiliati, in una strana mistura di ebraismo e cristianesimo, perché sono una setta ebraica, gli Esseni, ma piena già, siamo nel primo secolo, di fermenti cristiani, che si avvertono, si sentono; addirittura compare, a un certo punto, la figura del Messia, che pare si possa identificare nel Cristo dei cristiani, cioè proprio di colui che viene disconosciuto. Il Messia viene messo a morte, e loro che cosa fanno? Abbandonano il mondo, lasciano la città, vanno a vivere fuori. Sono i primi. Tutta la storia dei santi anacoreti, dei monaci, degli asceti è successiva, nasce dentro il popolo ebraico l’idea dell’esilio come condizione, non di morte come era per i Greci e per i Romani, ma di vita futura. Devi abbandonare il mondo se vuoi ritrovare il mondo e ritrovare te stesso nel mondo.
Una condizione esistenziale?
Saccardi. Da qui si potrebbe anche far derivare la considerazione esistenziale e filosofica che, in fondo, la condizione dell’uomo è, di per sé, una condizione d’esilio, che si esprime nella poesia e anche in una certa visione della vita come attesa di qualcos’altro. È una domanda eterna se l’uomo non viva come in esilio per questa sua condizione che gli è data, in un’esistenza come quella terrena, che è provvisoria e transeunte.
Givone. Questo spostamento del centro dell’attenzione dal fatto morale, come era per i filosofi greci – astieniti, conduci una vita misurata, l’ascesi intesa in senso letterale, l’ascesi vuol dire esercizio, come esercizio della virtù – lo spostamento quindi da questa dimensione morale ad una dimensione che direi esistenziale, che può essere applicata benissimo a quel che dicevi, avviene in quegli anni, perché è proprio in quegli anni, nel primo-secondo secolo dopo Cristo, che si sviluppa il concetto dell’esilio come condizione dell’uomo in quanto uomo. È un ribaltamento del concetto greco della cittadinanza, del radicamento nella poliscome condizione per essere veramente uomo. Qui non il polites, non il cittadino è veramente uomo, ma l’esiliato, perché è l’esiliato quello che prende coscienza di chi l’uomo veramente è.
Saccardi. Che in fondo equivale a dire: «Siamo tutti esuli».
Givone. Gli gnostici, sia gli gnostici cristiani, sia gli gnostici greci, incominciano a teorizzare questa metafisica dell’uomo perennemente in esilio, cacciato non si sa da dove. Chi è l’uomo? Non sappiamo. È un greco? Sì, ma questo è successivo, l’uomo originariamente è uno cacciato, da dove? Dal cielo, da una dimensione dove lui era e non è più…?
Saccardi. Anche i neoplatonici hanno questa visione: noi siamo precipitati in questa dimensione cruda e arida della materia.
Givone. Infatti, la gnosi è un’eresia, se vogliamo chiamarla eresia, neoplatonica. La gnosi è intrisa di platonismo, e in che cosa consiste questo elemento? Nell’introduzione del concetto di caduta. Siamo caduti da una dimensione in cui eravamo quelli che davvero dovevamo essere a una dimensione in cui la materia ci corrompe, ci fa essere quelli che siamo.
Saccardi. Questo è anche Pascal, per certi aspetti.
Givone. Pascal, certo; non a caso qualcuno sostiene che sia uno gnostico della modernità. Più che Pascal, a me viene in mente Jonas quando, nel libro bellissimo sulla gnosi antica, scrive che, in fondo, fra la gnosi antica e l’esistenzialismo, che è questo concetto dell’uomo perennemente esiliato, c’è solo una differenza: che gli gnostici antichi riconoscevano lo stato di libera parola, che il suo maestro Heidegger usava, lo stato di Geworfenheit, «gettatezza»: noi siamo gettati in questo mondo forse da un dio misterioso, forse maligno, chi lo sa, appunto gettati, quasi con disprezzo. Ma gli gnostici antichi se non altro sapevano, o credevano di sapere, chi li avesse gettati qui: il Dio. Gli gnostici moderni, gli esistenzialisti, che credono che il carattere proprio dell’uomo sia la «gettatezza», l’essere gettati nel mondo, non sanno più chi li ha gettati qui. Invece che Dio, tirano fuori il nulla, però la condizione è sempre quella.
Un’occasione (paradossale) di riscatto luminoso
Saccardi. Naturalmente, qui ci sarebbero tante osservazioni da fare, inclusa la distinzione fra esilio come condizione individuale, oppure come condizione di un popolo. Il caso degli ebrei, come prima dicevamo, un popolo in esilio o in cattività o nella dispersione. Tutto questo rimanda, comunque, all’afflizione, alla sofferenza, al dolore. Ma mi viene anche poi da pensare all’esilio come condizione – in una situazione che rimane naturalmente di disgrazia – che però in qualche modo e in taluni casi può portare ad attivare, paradossalmente, energie umane, esistenziali, culturali di riscatto luminoso. Alcuni esempi classici, anche se molto diversi fra loro: Dante è il fuggiasco che nell’esilio costruisce questa sua grandiosa visione poetica del mondo, dell’aldiquà, dell’aldilà, del destino dell’uomo…
Givone. Se Dante non avesse patito l’esilio, noi non avremmo la Divina Commedia.
Saccardi. Esatto, questo voglio dire. Pensiamo a Machiavelli che è confinato a due passi da Firenze, da dove vede la sua città avvolta nella foschia, che patisce questa sua condizione di avvilimento, che passa le giornate giocando con i villani, ma che poi, però, a sera si ritira, entra in colloquio con gli antichi, e scrive Il Principe. E che dire di una figura, diversissima e a noi vicina, come don Milani? Gli ultimi sono la sua vocazione, e gli ultimi lui li troverà davvero, come ha scritto Michele Gesualdi nel suo bel libro[2], nell’esilio di Barbiana. L’esilio è, Milani stesso mi pare lo scriva, tentazione al suicidio, la tentazione della disperazione estrema, ma (come a volte succede anche per la prigione; vengono in mente gli scritti di Gramsci), è un qualcosa che, nel dolore, può attivare le energie migliori dell’uomo. E a Barbiana nasconoL’obbedienza non è più una virtùeLettera a una professoressa.
Givone. L’esilio come condizione estrema di dolore, di perdita, di smarrimento e al tempo stesso come elemento di rinascita, come condizione per trovare non solo ciò che abbiamo perduto, ma ciò che non abbiamo ancora mai posseduto, l’esodo verso la terra promessa. Ecco, questo è il punto: questa trasformazione dell’esilio. L’esilio resta un fatto doloroso, un fatto penoso, e tuttavia diventa un qualcosa di più, diventa un’occasione di salvezza e di esodo verso la terra promessa. Questo accade nel mondo ebraico, è il portato del mondo ebraico. Come ho detto prima, qualcosa si intravede nella figura di Enea in Virgilio, ma è un Virgilio che giustamente sembra preannunciare un altro mondo, qualcosa di diverso rispetto al mondo dal quale egli stesso proviene. È il mondo ebraico. Tu hai citato anche don Milani. Non so se ti è mai capitato di leggere un libro di André Neher, un teologo ebreo, L’esilio della parola, un libro che credo sia degli anni 70. Ecco, in lui c’è questa logica, anzi, questa dialettica dell’esilio, per cui l’esilio da fatto di smarrimento e di perdita diventa condizione di salvezza; lui questa dialettica la scopre a livello della parola e dice che l’esilio della parola è il silenzio, la parola ha bisogno di negarsi, di autonegarsi per poter trovare quella verità che solo la parola è in grado di dire, cioè deve attingere all’afasia, al silenzio, all’impossibilità di dire, per potere dire qualche cosa, per poter dire la cosa che lì si manifesta, la cosa indicibile che lì si manifesta. È il silenzio di Dio ad Auschwitz. È questo che lui pensa. Ma come legge, Neher, questo silenzio di Dio, ad Auschwitz? Come l’esilio della parola, come quel movimento, per così dire necessario, della parola verso il silenzio per ritrovare una verità altrimenti indicibile. Questo non significa fare di Auschwitz un momento di una dialettica che finirebbe con lo svuotare di senso l’orrore. Non si vuole dire con questo che Auschwitz ha dovuto essere, perché aldilà di Auschwitz l’uomo possa ritrovare se stesso, assolutamente no, però il silenzio della parola, Dio tace e tacendo, rende possibile qualche cosa che altrimenti neanche avrebbe potuto essere pensata e tantomeno detta. Dire che cosa? Un futuro dopo Auschwitz, un futuro della parola dopo che la parola si è ammutolita. Ecco, mi viene da accostare a Neher, Paul Celan: la parola deve farsi cenere, deve ammutolirsi per poter continuare ad essere se stessa.
Saccardi. Elogio penitenziale del silenzio: è forse uno degli scritti più belli di Balducci. La parola piena di significato, egli dice, nasce dal silenzio.
Givone. Ti ricordi di che anno è?
Saccardi. Te lo so ricostruire[3]e te lo faccio volentieri avere.
Givone. Sarebbe interessante capire se egli avesse letto Neher, perché era un libro tradotto anche in italiano negli anni 70.
«Nostra patria è il mondo intero»
Saccardi. Inoltre, c’è anche l’esilio come parte, in qualche modo, di un’idea romantica dei percorsi di riscatto nazionale. Penso al nostro Risorgimento: Mazzini, Garibaldi, eroe dei due mondi, Garibaldi che fugge con Anita, la «trafila»garibaldina, gli aiuti che egli riceve in Romagna, mentre è inseguito. Anche qui c’è un intreccio di sofferenza, di rischio di marginalità e di incertezza diprospettive, però in vista di un traguardo, di un riscatto, che in questo caso è il riscatto della nazione. Mi pare ci siano molti casi di questo tipo nella nostra storia nazionale. Quella del Risorgimento è un pezzo della nostra storia, poi ci sono gli esuli del Fascismo, i fratelli Rosselli per non citare che un caso. Ad ogni modo, l’esilio è talora un prezzo da pagare ed è parte della costruzione della storia nazionale.
Givone. Viene da chiedersi se questo non abbia a che fare con l’atto ultimo, estremo, della dissoluzione dell’Impero romano, cioè dell’Impero romano come Sacro romano impero, cioè della logica per cui è vero, l’Impero è inclusivo, nel senso che al suo interno tutto può essere riconosciuto come appartenente all’Impero stesso, e quindi cittadino romano è chiunque possa appartenervi, ma fuori dei confini dell’Impero è il nulla, è il non uomo, «hic sunt leones» e quindi, questa logica sommamente inclusiva è al tempo stesso una logica sommamente esclusiva, nel senso che l’Impero è tutto e al di fuori dell’Impero è il niente. Per questo dico, non sarà forse l’atto estremo della dissoluzione dell’Impero?
Saccardi. Quindi in una prospettiva, per cosi dire, di«lunga durata»della storia.
Givone. Qui si va a cercare l’altro al di fuori. Non è un caso che Garibaldi vada nell’«altro mondo», nel «nuovo mondo», che è aldilà di questo mondo, aldilà di quello che avremmo potuto chiamare l’Impero. Anzi, proprio lì, al di fuori di questo mondo attinge, trova forza, trova aiuto, trova sollecitazioni ad allargare i confini del mondo, aldilà del mondo stesso così come si è costituito fino a quel momento in modo imperialistico. «Nostra patria il mondo intero, nostra legge è la libertà», cioè gli anarchici, in fondo, che erano tutti esuli…
Saccardi. Avevano una visione che va al di là dei confini…
Givone. Avevano una visione per cui la vera ricchezza è il deserto, è l’aldilà del mondo, è ciò che non si lascia confinare dentro una legge imperialistica, quale che sia. Proprio questa idea della libertà sconfinata, per cui uno dice della libertà che o è assoluta, e quindi indipendente dalle leggi, o non è. Questa è anarchia. Anche negli anarchici, che sono per definizione gli esuli moderni, si fa strada tale idea, come dire, che la terra è di tutti, che non esistono più confini, che bisogna rompere con le Nazioni. Il nostro Risorgimento resta ancora prigioniero di questo equivoco, perché da una parte accoglie la logica della grande apertura al mondo intero, c’è l’elemento anarchico, se vuoi, ma dall’altra mantiene ferma…
Saccardi. L’idea della costruzione dello Stato-nazione…
Givone. Tiene ferma l’idea della costruzione dello Stato-nazione, insomma la tragedia del Novecento. Questo problema irrisolto, cioè i nazionalismi ottocenteschi, in un mondo come quello del Novecento, che ormai va facendosi globale, non può che dare luogo a conflitti mortali.
Saccardi. Sai, il liberale classicamente risponderebbe che il patriottismo, nel senso non particolaristico dell’appartenenza, è cosa diversa dal nazionalismo…
Givone. Però bisogna poi andare fino in fondo in questo pensiero e allora quanto meno costruire un mondo di patrie, ma un mondo dove i cittadini di qualsiasi patria possano riconoscersi come appartenenti allo stesso mondo e siano cittadini tutti allo stesso titolo, non cittadini di serie A, cittadini di serie B, prima gli italiani e poi gli altri, ecc.
Saccardi. Qui sta la vera attualità del tema dell’esilio e qui è anche il vero senso della nostra riflessione. Insomma, parlare di questo tema è certamente riandare alle radici anche filosofiche ed esistenziali dell’idea stessa dell’esilio, ma vuol dire anche sollevare una questione di scottante attualità, dal punto di vista umano, etico e politico.
Libere soglie di attraversamento
Givone. Portiamo fino in fondo questo concetto e allora, che cosa possiamo dire? Se la terra è di tutti, la terra è di tutti, se tutti hanno gli stessi diritti, cioè se uno è cittadino, non in quanto cittadino di una determinata nazione ma è cittadino del mondo, allora la terra è di tutti.
Saccardi. Qui c’è anche l’ambivalenza e la contraddizione (ce ne siamo occupati anche di recente per il settantennale della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo): diritti dell’uomo e/o diritti del cittadino vanno sostenuti tutti e due, in qualche modo.
Givone. Tutti e due. O unifichi i due, cioè, o i diritti dell’uomo e i diritti del cittadino sono gli stessi, oppure resti nell’equivoco per cui ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B, e di conseguenza all’interno del mio Paese, i cittadini di quel Paese devono essere privilegiati rispetto ai cittadini che vengono da fuori e che in questo Paese non sono altro che degli esiliati, in senso negativo. Ma se l’esilio è invece esodo, se l’esilio è possibilità di trapianto, allora i confini non possono essere altro che soglie di attraversamento, libere. L’utopia è questa.
Saccardi. Questo, in qualche modo, lo si intravede anche nel messaggio di Francesco, di Papa Bergoglio.In trasparenza, in filigrana, vi si legge questa concezione, al di là dell’appello, semplicemente doveroso, all’accoglienza cristiana.
Givone. Pronunciamolo, questo appello, in un principio. Il principio è: tutti hanno il diritto di attraversare il confine e di essere accolti. Tutti – non solo quelli che -, perché la fede è di tutti, perché tutti sono cittadini allo stesso titolo ovunque. In quanto cittadini del mondo sono cittadini, in Italia, allo stesso titolo degli altri. Ma questa è una utopia impossibile…
Saccardi. Tutto questo poi, però, va governato, naturalmente…
Givone. Ma il principio è questo.
Saccardi. Sì, certo.
Givone. Perché se tu cominci a dire «sì, però», «solo se sei davvero in uno stato di bisogno estremo» o «se la guerra ti sta distruggendo»… No, la terra è di tutti, tutti sono cittadini in ogni luogo della terra, tutti, in quanto uomini, hanno il diritto di abitare qualsiasi luogo della terra.
La cultura russa e l’esilio
Saccardi. Lo riprendiamo fra un attimo questo spunto, che è utile anche per le nostre considerazioni finali e per riassumere poi il significato di fondo di questa nostra conversazione. Mi preme però accendere per un momento l’attenzione su una grande realtà, che non può essere trascurata nell’ambito di questo discorso. Quella del rapporto della Russia e della cultura russa con l’esilio. Tanti i riferimenti che vengono in mente. Osip Mandel’stam, intanto. Con il suo destino di scrittore che cade in disgrazia, la persecuzione da parte di Stalin, la morte nel gulag. E poi due grandi esuli, molto diversi fra loro, Sacharov confinato a Gorkij, Solženicyn che se ne va in silenzio. Due perseguitati che hanno lo stesso destino e combattono lo stesso avversario, ma con prospettive molto diverse: Sacharov che è per una società aperta, per uno sviluppo dell’Unione Sovietica, come si chiamava allora, della Russia, in direzione della modernità dell’Occidente e Solženicyn che aspira invece a ritrovare la purezza proprio nelle radici che sono state divelte, che sono state distrutte. Ma c’è il destino dell’esilio, dello sradicamento, che è comune e che è centrale in tutte queste figure, in tutte queste vicende.
Givone. Bisogna però guardare a queste vicende da lontano o quanto meno lasciando sullo sfondo quelli che sono i miti di provenienza, i miti fondativi di queste utopie e di questo modo di pensare l’esilio. Per esempio, il contrasto fra slavofili e occidentalisti, parlo della Russia, perché dietro Sacharov c’è non soltanto Sacharov, c’è Turgenev, dietro Solženicyn, c’è Dostoevskij. Che cosa voglio dire? Che è una questione di accenti, in fondo. Partiamo dall’esilio, esilio che queste persone hanno patito profondamente. L’esilio è in funzione del ritrovamento della propria radice sradicata, quindi la Russia, oppure l’esilio è in funzione del ritrovamento di quel più ampio orizzonte dove ogni radice trova il suo significato.
Saccardi. Credo che il contrasto di fondo stia lì.
Givone. Romanticismo e Illuminismo: così come slavofili e occidentalisti, allo stesso modo, prima ancora, i romantici e gli illuministi. I romantici lasciavano cadere l’accento sulla radice, sull’identità nazionale, sul radicamento nella terra, gli illuministi sull’appartenenza al mondo, su quella che ai romantici appariva come un’astrazione e che per loro era invece quel più ampio orizzonte, quell’apertura senza la quale nessuna nazione avrebbe potuto essere davvero se stessa, cioè avrebbe potuto riconoscere la propria identità e al tempo stesso offrirsi all’altro come nazione accogliente, non soltanto come nazione respingente. Ecco, tutto questo c’è, ed è chiaro che se l’accento cade in modo univoco sul momento nazionalistico, cioè sul fatto che la radice è la radice, l’identità è l’identità e solo rinchiudendomi in me stesso io posso raggiungere l’obiettivo, il socialismo in un Paese solo, è una forma di regressione slavofila, di ricaduta nel nazionalismo ottocentesco.
Saccardi. Questo si potrebbe perfino collegare, da un punto di vista storico, all’appello che fa Stalin, in seguito all’invasione nazista, all’occupazione tedesca. Stalin che chiama i russi…
Givone. …fratelli…
Saccardi. Esatto. Chiama alla guerra patriottica in nome della grande tradizione russa, non in nome del comunismo o del marxismo-leninismo.
Givone. Certo, è come se lì si dimenticasse che in gioco, prima ancora che la Russia è l’Europa, prima ancora dell’Europa è il mondo, è il mondo libero, è la libertà di tutti.
Saccardi. Di cui non poteva certo parlare Stalin…
Givone. Purtroppo. D’altra parte non dimentichiamo che gli americani entrano direttamente in guerra in Europa dopo molte esitazioni perché Stalin (lo stesso Stalin che ha respinto l’attacco dei nazisti) fa paura ed a loro, fino ad un certo punto, andava bene che il suo potere fosse, se non abbattuto, almeno contenuto.
Saccardi. Sì,è una lettura complessa. Qui si vanno a toccare aspetti che non hanno necessariamente attinenza con il nostro tema. Quello che ad un certo punto, lì, tutte le forze in campo, il nazifascismo, il comunismo russo e le democrazie occidentali hanno dovuto fare è stato un ragionamento di fondo sulle sorti medesime dell’umanità e su quello che era l’avversario principale, scelta su cui le democrazie occidentali sono state a lungo incerte.
Givone. Era Stalin o era Hitler. A lungo hanno pensato che fosse Stalin.
Saccardi. Sì, certo, poi la saldatura c’è stata, tant’è vero che durante la guerra, Orwell, se ricordo bene, non poté pubblicare i suoi testi critici nei confronti del potere sovietico, perché di Stalin, che era un alleato necessario, non si poteva parlare male.
L’ethos cosmopolitico di Kant
Saccardi. Ora, riprendendo quello che dicevi, cioè la considerazione universale che la terra è di tutti, mi verrebbe da pensare, da una parte alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomodel 1948, che abbiamo ricordato di recente anche in un volume speciale di «Testimonianze», e dall’altra a Kant, per il quale le due categorie, esilio e asilo, sono messe strettamente in correlazione. Se c’è l’esilio, se c’è la cacciata di qualcuno, se c’è la spinta ad attraversare forzatamente i confini, c’è il diritto di chi parte, di chi viaggia, di chi è in cerca di rifugio ad essere accolto, il diritto d’asilo. Oggi la relazione fra queste due categorie mi sembra sia posta molto in discussione e in essa si riassume forse il vero tema di fondo del nostro tempo e anche un punto di caduta della crisi del nostro mondo.
Givone. Vedi, mettere in rapporto la violenza dell’esilio, perché l’esilio è fatto di violenza, non è una libera scelta…
Saccardi. …perché nel tuo Paese non ci puoi vivere più…
Givone. …non ci puoi vivere più perché le condizioni di vita sono diventate impossibili o semplicemente perché tu ritieni coscientemente di non poter più vivere nel tuo Paese, che non è più in grado di garantirti il pieno sviluppo della tua umanità. Tu non puoi mettere in rapporto la violenza dell’esilio con il diritto all’asilo, questo rapporto deve essere assoluto, il diritto all’asilo non deve essere condizionato per l’esiliato. Condizionato da che cosa? Dalla tua identità? Dalla tua cittadinanza? Dal tuo poter essere un buon italiano in futuro? E questa è già una condizione che farebbe ricadere il diritto d’asilo in quella cecità nazionalistica di cui si diceva prima. Il diritto d’asilo deve essere riconosciuto, ed è vero diritto d’asilo solo se tu hai diritto di essere accolto nel Paese per quello che sei, con la tua storia, con le tue tradizioni. Da questo punto di vista, l’insegnamento del Diritto romano è ancora attuale, perché i Romani avevano ragione quando l’inclusione la pensavano come rispettosa della storia dell’individuo incluso, dell’individuo accolto che continuava ad essere se stesso, ma non avevano ragione quando questa inclusione veniva ribaltata in esclusione di tutti coloro che non si lasciavano includere, cioè quando i confini erano i confini dell’Impero e non i confini del mondo. Se l’orizzonte è, come deve essere, il mondo, la terra, se la terra è il fondamento del diritto, tutti, in quanto abitatori della terra, hanno il diritto di essere accolti in ogni luogo della terra e allora il nazionalismo viene messo fuori gioco, deve essere messo fuori gioco. Cioè, lo Stato nazionale come quella cosa al di sopra della quale non c’è niente, che non ammette alcun potere al di sopra di sé. Questa è la decisione che dobbiamo prendere, il potere, quel potere al di sopra del quale non c’è nulla è il potere dello Stato nazionale, è il potere dell’Impero, che altro non è che una super-nazione. Se al potere dello Stato nazionale, al potere dell’Impero si viene a sostituire non il potere, ma il diritto di tutti gli uomini ad essere accolti, il diritto di tutti gli esuli a trovare accoglienza, allora, ecco Kant.
Saccardi. L’ethoscosmopolitico.
Givone. In Per la pace perpetua, quello scritto di Kant mai abbastanza elogiato, la pace perpetua è resa possibile da una cessione di sovranità da parte sia degli stati nazionali sia di quel superstato nazionale che sarebbe l’Impero. Solo se questa cessione avviene in nome di un diritto all’asilo, che è poi il diritto di abitare veramente la terra, solo a quel punto troveremo il nesso tra violenza dell’esilio e diritto all’asilo. Il diritto all’asilo è l’unico «assoluto» che noi conosciamo ed è da qui che bisogna partire e Kant lo aveva capito.
Saccardi. Non c’è dubbio, Kant lo aveva capito benissimo e condivido la sottolineatura sull’importanza di questo piccolo e prezioso suo scritto.
Se l’ultima parola è dello Stato-nazionale
Saccardi. Naturalmente, ponendo la questione solo per un attimo, perché non è questo il piano che abbiamo scelto, sul terreno del ragionamento storico-politico, bisogna dire che ci sarebbe da lavorare almeno su due livelli, in linea appunto con quanto indicato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, implicitamente o esplicitamente: da una parte bisognerebbe lavorare perché le condizioni che producono l’esilio – cioè regimi totalitari, guerre, persecuzioni politiche e religiose -ci fossero sempre meno. Bisogna incidere su questa radice, su questo mondo in cui invece ci sono tante pulsioni neo-autoritarie, rinascite della violenza e dei particolarismi, condizioni di oppressione sociale e poi, stringendo un po’ l’ottica, bisognerebbe che su questo ci fosse almeno la concertazione di una politica europea, che oggi non c’è. È quel che sarebbe necessario per rendere effettivo il diritto d’asilo (che poi ogni Paese deve certo adoperarsi a rispettare) e perché lo si possa davvero praticare. Penso che, su questo, l’Europa stia perdendo uno degli appuntamenti con la Storia, come ha perso quello con le rivoluzioni mediterranee, perché il problema sul tappeto è quello del confronto con l’Africa, verso cui ci vorrebbe una sorta diPiano Marshall. Ecco, da tutto ciò siamo molto lontani, mentre per rendere politicamente effettivo tale principio, bellissimo nonché giusto, bisogna lavorare storicamente e concretamente e andare in questa direzione, non credi?
Givone. Vedi, io credo che bisogna intanto riconoscere che cosa si fa fatica a riconoscere, perché ci piace essere quello che siamo, ci piace riconoscerci noi italiani, gli altri francesi, ecc., ma il nazionalismo, lo Stato nazionale, lo Stato, così come si è configurato dalla fine, dalla dissoluzione dell’Impero romano fino all’Ottocento, lo Stato nazionale ha una vocazione inevitabilmente totalitaria, non c’è niente da fare. Nel momento in cui stabilisco, perché questo è il fondamento dello Stato nazionale, che non c’è nessun potere al di sopra dello Stato, che lo Stato è il potere e che non ne riconosce altri al di sopra di sé ma soltanto altri…
Saccardi. Ma l’Unione europea ci sarebbe, anche se non ha ancora una compiuta espressione politica…
Givone. Appunto, che però bisogna affermare contro gli stati nazionali e non semplicemente nella forma di imperialismo soft, per cui tutti gli stati nazionali vengono raccolti in un contenitore…
Saccardi. Basterebbe che ci fosse una concertazione politica reale e almeno una politica estera comune.
Givone. Ma siamo sempre lì, o si fa leva sull’idea che lo Stato è il potere e non c’è potere al di sopra dello Stato o c’è la cessione di sovranità. Questa è l’alternativa alla quale siamo di fronte, ma ogni volta che si è tentato o proponendo una costituzione europea – la costituzione europea è fallita proprio su questo punto, sul fatto che nessuno ha voluto cedere alcunché della propria sovranità, né sul piano unitario né su nessun piano – e allora, amici miei – torniamo agli stati nazionali. Ma gli stati nazionali conoscono un solo possibile oltrepassamento degli stati nazionali stessi nel senso dell’Impero, che non è altro che un superstato nazionale e, ad esempio, laddove l’America, laddove gli stati Uniti, anziché aprirsi a una reale gestione, come avrebbe detto Kant, di una «società dei popoli» (quando Kant parlava di società delle Nazioni, fu il primo ad usare questo termine; egli non parla di stati nazionali, parla di popoli e della società dei popoli) si tratta di gestire le contraddizioni, che cedono spesso ad aperte pulsioni imperialistiche. Ma un conto è la società dei popoli e un conto è l’Impero. Questo i Romani ce l’hanno, ahimè, insegnato, nel bene e nel male, perché i Romani, con la politica che era volta a includere i popoli, però li hanno inclusi nell’Impero, ed hanno perciò negato ciò che volevano affermare. Qualche cosa di simile sta accadendo oggi, ed è il problema degli Stati Uniti d’America. Fortuna che altri stati come la Cina e come l’India impediscono la tentazione imperialistica, alla quale però gli americani hanno ceduto anche troppo, negli anni passati. Allora, Impero degli stati o società dei popoli, società delle nazioni? La società delle nazioni è basata sul diritto di tutti gli uomini di abitare la terra; l’Impero o la società degli stati nazionali è fondata sul presupposto che non c’è altro potere al di sopra di essa, sia questo l’Impero o lo Stato nazionale. Questa è la partita ancora tutta da giocare e nessuno sa chi la vincerà.
Saccardi. E a quali approdi istituzionali porterebbe un processo ispirato ad una «società dei popoli»? È una bella domanda. Mi sembra ci sia ancora molto cammino da fare. Sto pensando anche alla particolarità dei soggetti che abbiamo in campo oggi e con cui è obbligatorio misurarsi: non solo l’America di Trump, ma anche Putin, e la Cina…
Givone. Dov’è il punto di massima resistenza alla gestione di una società di popoli? È l’emigrazione. Che sia Salvini che fa gli orrori, gli spropositi che fa, che sia Macron, e io Macron lo metto accanto a Salvini, se si comporta come si comporta a Ventimiglia, siamo sempre lì, lo Stato, la logica dello Stato…
Saccardi. Certo, ci sono difficoltà concrete nella gestione di una politica di accoglienza. Angela Merkel, come sai, nel momento in cui ha aperto le frontiere, facendo un atto da statista lungimirante, ha segnato però anche l’inizio della sua crisi.
Givone. Sì, l’inizio della sua crisi, è quello che sto dicendo, il punto di massima resistenza è da parte dei popoli prima ancora che da parte dei governanti e del potere, il punto di massima resistenza è l’immigrazione. È come se i popoli non volessero essere popoli e nient’altro.
Saccardi. Va tenuto conto anche del ruolo che gioca l’«immaginario reciproco»: c’è la paura di chi arriva in una terra straniera, c’è la paura di chi deve ricevere, che si sente invaso; c’è sempre, e comunque. il tema dell’«altro»…
Givone. Noi siamo tutto sommato persone colte che stanno relativamente bene. Io vorrei mettermi nei panni degli ultimi, di quelli che fino a ieri pativano l’emigrazione, nel senso che erano loro gli immigrati e che adesso non sopportano di vedersi come nello specchio e quindi riconoscersi.
Saccardi. Il Veneto, tanto per dire, era terra d’emigrazione, notoriamente.
Givone. Se vai in un qualsiasi bar di Vicenza o Rovigo trovi queste reazioni.
Saccardi. Non c’è dubbio. E questo, senza giudicare nessuno in maniera saccente e con il dito alzato, fa pensare. C’è molto lavoro, culturalmente e socialmente, da fare. Grazie mille, Sergio. Givone. Grazie a te.
[1]G. Caproni, Il passaggio di Enea. Prime e nuove poesie raccolte, Vallecchi, Firenze 1956.
[2]M. Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Milano 2016.
[3]E. Balducci, Elogio (penitenziale) del silenzio, in l’Altro. Un orizzonte profetico, ECP, San Domenico di Fiesole, 1996). Pubblicato anche in «Testimonianze» nn. 421-422, nel volume dedicato a Ernesto Balducci: attualità di una lezione.