L’UOMO DEL FUTURO

di Eraldo Affinati

«Barbiana non è più in Mugello», come disse padre Balducci, ma in Africa, in Asia, in America Latina fra i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Oggi, lo spirito e il senso del messaggio di don Milani, si ritrovano nel lavoro e fra le figure di educatori e maestri nei luoghi più diversi, conosciuti ed incontrati durante viaggi in varie parti del mondo. Don Milani appare così, al di là della ricostruzione della sua vicenda storica e biografica, come L’uomo del futuro (v. in proposito l’omonimo libro dello stesso Eraldo Affinati), che, con il suo operato ha indicato una strada e ci ha consegnato un testimone che va saputo raccogliere.

 

Le «Barbiane del mondo»

Tra le tante fotografie di don Lorenzo Milani, molte delle quali sono entrate nel nostro immaginario fino al punto di non corrispondere più soltanto al giovane uomo che ritraevano, ce n’è una che mi ha sempre impressionato per il suo valore profetico: quella in cui il priore, già malato, tiene in braccio un bambino africano che apparteneva a una famiglia congolese andata a trovarlo nella sua scuola appenninica. Chi sono infatti i ragazzi di Barbiana di oggi se non gli immigrati, i quali hanno lo stesso problema linguistico dei piccoli mugellani? «Il meglio dell’umanità», così del resto li definiva il priore in Lettera a una professoressa. E padre Ernesto Balducci, nella sua ultima lettura dell’opera, lo precisò ancora meglio con una dichiarazione che è poi entrata nella vulgata: «Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, è nel Medio Oriente, Barbiana è una comunità musulmana, Barbiana è nell’America latina. Le Barbiane del mondo dicono che noi ci comportiamo come se il mondo fossimo noi».

La ferita spirituale profonda che il parroco aveva scoperto, prima a San Donato di Calenzano, poi sui contrafforti intorno a Vicchio, ora, cinquant’anni dopo la sua morte, ha davvero assunto una dimensione planetaria. È questa la ragione per cui nel libro che ho dedicato a don Lorenzo Milani, L’uomo del futuro, non ci sono soltanto i resoconti delle perlustrazioni nei luoghi italiani che caratterizzarono la sua opera. Il tentativo è stato quello di recuperare dai miei diari di viaggio intorno al mondo, le figure di educatori, preti, maestri e suore che, in un modo o nell’altro, senza aver mai conosciuto Lorenzo, ne incarnano lo spirito. Scorrendo quelle pagine torno a rivivere, oltre alle stagioni della mia vita, la speranza, forse pazza ma io credo non incongrua, che lo spirito di Barbiana possa rinascere in forma nuova nelle regioni più remote del pianeta, ogni qual volta un insegnante, nel senso profondo auspicato da Malala Yousafzai, si ponga di fronte al suo allievo in modo autentico, fuori dalla convenzione pedagogica, per cercare insieme a lui anche qualcosa di se stesso. È questo che vidi coi miei occhi a Sare Gubu, in Gambia, poche capanne nella pianura scalcinata ai confini del Senegal, dove mi aveva condotto un mio studente della «Città dei Ragazzi» per farmi conoscere sua madre, rocambolescamente ritrovata dopo anni di assenza. Era un maestro che dalla vecchia capitale, Banjiul, uno sperone di roccia sull’Oceano Atlantico, aveva deciso di trasferirsi con la sua famiglia accanto alla scuola del villaggio per restare tutto l’anno vicino ai suoi piccoli scolari. Quando mi mostrò suo figlio, da poco venuto alla luce, sentii i brividi sulla pelle. Quella sera scrissi sul quaderno: «È un batuffolo d’umanità spumeggiante, un groviglio di cartilagini in formazione, il nucleo germinale del tempo, non soltanto suo, anche mio, di tutti noi. Attraverso di lui ripartiamo, ci rimettiamo in moto. Avanti ragazzi! Accarezzando il cranio lucido come una palla da biliardo di questo individuo della mia specie, ho l’impressione di toccare la matrice dell’insegnamento, il suo senso più compiuto e profondo: consegnare il testimone. Rinnovare la tradizione. Accendere il fuoco. Baciare il futuro. Accettare la morte».

 

Vivere a fondo perduto

Dobbiamo vivere a fondo perduto, senza pensare al risultato che potremmo ottenere, ma avendo fede nell’azione in cui ci impegniamo. È la scelta che don Lorenzo ha vissuto sino in fondo, con una determinazione che chiede rispetto, prima ancora del consenso. Palleggiando insieme a Manfred, naziskin berlinese, nel centro di accoglienza dell’Arca, dalle parti di Marzhan, ne ho avuto l’ennesima conferma, come se quel ragazzo, pur essendo irrecuperabile, chiedesse al suo educatore l’esercizio di una responsabilità pre-giuridica, capace di andare oltre il mansionario. Se il maestro non è disposto a mettere in conto la solitudine cui è destinato, rischia di fallire il suo vero obiettivo: quello di prendersi una legnata, come dichiarò il 15 dicembre 1963 con spavalda impudicizia il priore di Barbiana rivolto a Michele Gesualdi, che aveva criticato il suo operato: «È meraviglioso da vecchi prendere una legnata da un figliolo, perché è segno che quel figliolo è già un uomo e non ha più bisogno di balia, e qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso. (…) La scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi più di nulla!” e la scuola risponde colla rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle». Sono parole quasi consunte dalle citazioni che hanno subito, ma preferisco di gran lunga correre questo rischio rispetto a quello per me peggiore che siano fraintese. Il priore non fu il padre spirituale dell’egualitarismo indifferenziato di marca sessantottina, bensì, come non mi stancherò mai di ripetere, il fustigatore incompreso di ogni possibile negligenza e pressapochismo educativi, fino al punto di aver redarguito un insegnante troppo permissivo, che non aveva saputo tenere a freno i suoi studenti, scrivendogli: «La scuola deve essere monarchica assolutista e è democratica solo nel fine». Io la solitudine dell’educatore l’ho ritrovata in Marocco dove accompagnai due miei studenti a rivedere il loro maestro arabo, un iman cieco ormai anziano, senza più alunni, visto che erano tutti emigrati in Italia. «Cosa farà quest’uomo dei dolori», mi sono chiesto, «profeta senza tempo, nocchiero confinato sul molo, quando fra dieci minuti ce ne andremo?». E così mi sono risposto: «Me lo immagino dirigersi con lentezza alla lavagna a scrivere una lettera, un numero, a fare un disegno, a illustrare uno schema, sostenuto dal Dio svelto dell’infanzia e dell’adolescenza che non ha mai dimenticato, unico pegno di una scommessa spesso perduta in partenza».

 

Dove si aggira oggi don Milani

Tante volte, nei miei viaggi intorno al mondo, ho avuto la sensazione di rivedere il fantasma di don Lorenzo Milani: ad Ellis Island, nella baia di New York, al Museo dell’Immigrazione, quando gli esuli eravamo noi; a Pechino, nella canonica di una piccola chiesa cattolica, costruita alla metà del 1600 sul sito della casa del gesuita Matteo Ricci, dove suor Mary, insieme ad alcune sorelle, mi presentò alcune allieve a cui stava facendo il doposcuola; a Benares, sulle rive del Gange, in un bugigattolo che ospitava i mostri umani, quelli che noi nasconderemmo al Cottolengo, ai quali una giovanissima suora dell’Ordine di Madre Teresa di Calcutta stava dando da mangiare; a Città del Messico, scherzando con Pedrito, un dolcissimo tossicomane rapinatore che, insieme a un padre giuseppino, consegnammo nella casa famiglia dov’era destinato; a Volgograd, sulla scalinata del Mamajev Kurgan, il monumento della donna alata che celebra la vittoria russa contro i nazisti, dove conobbi un disertore che non voleva andare a combattere in Cecenia e per questa ragione rischiava di finire in carcere, proprio come gli obiettori di coscienza italiani difesi, tanti anni prima, dal priore di Barbiana; in una sala giochi di Hiroshima, nei pressi dell’Arcata Hondori, dove un ragazzino stava rifacendo davanti a uno schermo il bombardamento che distrusse la sua città, senza conoscere le lettere che Claude Eatherly, il pilota americano pentito, spediva a Günthers Anders, filosofo tedesco: le stesse che quello strano prete del Mugello leggeva ai suoi piccoli scolari con l’intenzione di spiegare loro cosa significasse essere pacifisti.

In tutti questi luoghi ho sentito il riverbero di don Lorenzo Milani: quasi fosse una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci ha lasciato un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. Adesso, come Papa Francesco ha lasciato presagire, sta a noi metterla a frutto.