CAMPOBELLO: ERA UN PARADISO E NON LO SAPEVO
di Giovanni Commare
Campobello, in Sicilia, con il suo mare, la sua terra e i suoi abitanti, in una ricostruzione storica che va al di là delle vicende specifiche del paese per investire la Sicilia e l’Italia intera, la politica, le alterne vicende delle classi dirigenti, le lotte per la terra, il ruolo dei partiti, l’emigrazione prima e l’immigrazione poi, il ruolo della mafia. Sono i problemi di sempre, che hanno frenato lo sviluppo di una terra definita, per le sue potenzialità, la «polpa» del Meridione. Il mare di Campobello non è più quello di un tempo, ma i giovani che l’hanno sempre visto così lo considerano il più bello del mondo.
Tra il tempio greco e la torre saracena
Su questa spiaggia sono nato. Davanti questo mare ho trascorso l’infanzia intera e gran parte della mia adolescenza. Era un paradiso, e non lo sapevo. Come spesso capita, l’ho scoperto troppo tardi, quando era già cambiato in modo irrimediabile. Era una spiaggia infinita che a levante, lontano, rivelava la meraviglia del tempio greco, e a ponente era segnata dalla torre saracena (così detta perché doveva avvertire dell’arrivo dei terribili turchi, ma risalente all’epoca spagnola), dopo la quale proseguiva per chilometri sino a Capo Granitola, il punto più vicino all’Africa. Era grande più di un campo di calcio e delimitata da alte dune oltre le quali cominciavano rigogliose le vigne, sì perché quella sabbia che sembrava deserto era in realtà fertilissima e sotto celava una ricca falda d’acqua: bastava scavare un paio di metri o poco più e avevi un pozzo di acqua freschissima. L’estate abitavamo in logge di canne e la notte il profumo dei gigli marini ci raggiungeva dalle dune e inebriava i nostri sogni di ragazzi.
Poi cominciammo a costruire case. 100, 1000, 10000. Una strada tagliò le dune e unì questa casba a quell’altra, ancora più grande e altrettanto abusiva, ch’era sorta sino alle pendici del promontorio dove resistevano i ruderi della città greca. Tranne pochi casi, non si trattò di speculazione fondiaria. I contadini, che non avevano mai avuto confidenza col mare, compravano 150-200 mq di terreno e si costruivano la casa di villeggiatura. Qui finivano in gran parte le rimesse degli emigrati. I paesoni dell’interno si duplicarono nelle loro frazioni marine: si costruirono più case dal 1960 al 1970 che nei quarant’anni precedenti, gli addetti all’edilizia aumentarono di tre volte. Non era questo lo sviluppo? Nessun amministratore, di centro, di destra, di sinistra, ebbe il coraggio di fare un piano regolatore che mettesse limiti all’iniziativa privata. Il liberismo non avrebbe avuto nulla da insegnare ai siciliani. Ci fu persino un amministratore di larghe vedute che decise di fare la spiaggia tutta bella piatta, come a Rimini, e mandò le ruspe a spianare le dune. Per fortuna d’inverno lo scirocco fece arrivare il mare sino alle case, allora anche gli imitatori di Rimini capirono che era meglio lasciar fare al mare e al vento. E le dune nel giro di un paio d’anni tornarono.
Quando ci fu la lotta per la terra
Scontiamo forse le nostre origini di borgo nato all’inizio del Seicento, quando i baroni tornarono nei feudi per avviare nuove attività agricole, di servi diventati braccianti la cui aspirazione massima era avere un pezzo di terra. Per accorgersi, quando l’avevano ottenuto con sacrifici inimmaginabili oggi, che non bastava mai alle necessità della numerosa famiglia, così ancora i contadini della generazione vissuta nella prima metà del secolo scorso erano costretti a lavorare a giornata. I campi erano lontani dal paese e le giornate cominciavano, in qualunque stagione, ore prima dell’alba, perché quando sorgeva il sole bisognava essere già al lavoro. Al tempo della semina e della mietitura salivano alle montagne, nel cuore nero e oro di Sicilia, dove i principi avevano ancora i loro feudi. Vi si fermavano due o tre settimane, finché c’era lavoro. Gabelloti e campieri, se erano buoni, passavano un piatto di pasta, per il resto ci si arrangiava e si dormiva dove capitava, l’estate all’aperto nei campi, l’inverno sulla paglia nei magazzini. Un mio nonno ci prese la polmonite e ne morì che non aveva cinquant’anni, lasciando senza risorse moglie e sette figli. Eppure venne il momento in cui le cose cambiarono. Fu con la Repubblica, che i siciliani non scelsero avendo preferito la monarchia, quando il vento del Nord mise in discussione la proprietà latifondistica. Ma in Sicilia i contadini si erano organizzati per l’occupazione delle terre già prima, appena lo sbarco alleato ebbe dissolto il regime fascista. Sembrò possibile mettere fine a secoli di oppressione e ottenere ciò che era necessario per vivere in
dignità. Sembrò che l’atavico individualismo dei siciliani si aprisse alla dimensione collettiva della lotta per un fine comune. La riforma agraria fu però nella sostanza un fallimento, perché le risorse furono scarse e perché questi contadini mai si sarebbero trasferiti a vivere nelle campagne. Tuttavia i rapporti di proprietà erano ormai incrinati. Abolito il latifondo, la grande proprietà passò di mano, si affermò una nuova classe dominante rapace e violenta. Anche la proprietà contadina si ampliò, sino a quei 4-6 ettari che lasciavano sperare nella possibilità della sopravvivenza. Ci volle poco però a capire che quel sistema agrario era arretrato e offriva, ampliandosi l’impiego delle macchine, sempre meno occupazione. Riprese il flusso dell’emigrazione, prima con caratteri di provvisorietà poi definitiva, che andò a fornire forza lavoro al decollo industriale italiano e allo sviluppo di tutta l’Europa centro-settentrionale1. All’inizio degli anni 70, in certe cittadine del cantone di Zurigo, più numerosi dei lavoratori svizzeri erano gli emigrati di Campobello, che nei precedenti 15 anni aveva perso 3500 abitanti su una popolazione media di 12000 e aveva visto modificarsi il paesaggio agrario con le colture, quasi esclusive, della vite e dell’ulivo, mentre gli occupati nell’agricoltura si erano dimezzati.
Quel terremoto che squassò il Belice
Le lotte per la riforma agraria, che percossero gli anni 50 ed ebbero l’ultima fiammata all’inizio dei 60 per i contratti di mezzadria, modificarono il quadro politico e costituirono la base di massa del Partito Comunista Italiano, che qui fu davvero antagonista della Democrazia Cristiana, espressione della conservazione e del
clientelismo. I due partiti si alternarono al governo del Comune, finché le vicende internazionali e nazionali non li portarono all’estinzione, lasciando un’eredità sempre più stinta in liste civiche tanto simili tra loro da essere intercambiabili. Col venir meno del movimento di classe, infatti, la politica locale si riduceva alla rappresentanza di vaghe identità ideologiche, dietro cui si celavano facilmente interessi di gruppi di potere, anche mafioso, e di clientele. Di quel periodo di lotte sociali e di attivismo politico rimasero le cooperative, nate per iniziativa dei militanti della sinistra al fine di liberarsi dal peso intollerabile dei mediatori e dei grossisti monopolizzatori del mercato. Cooperative di ammasso nei settori vitivinicolo e oleario, poiché l’irriducibile diffidenza dei contadini siciliani a condividere la proprietà impedì di costituire cooperative di produzione.
Il 68 portò il borgo nella modernità. Ma non fu tanto effetto del movimento culturale e politico di quegli anni, quanto del terremoto che nel mese di gennaio squassò la valle del Belice. Al sommovimento naturale ne seguì un altro ugualmente sotterraneo e inarrestabile di coloro che fiutarono l’affare e si adoperarono nel giro delle relazioni politiche, regionali e nazionali, per far ampliare quanto più possibile l’estensione dell’area disastrata fino a includervi comuni che non avevano visto cadere nemmeno una tegola. Qualche vantaggio lo ebbe un certo numero di cittadini che poté giovarsi di case più comode e più sicure (la dimensione della casa e non il reddito fu il criterio del finanziamento per la «ricostruzione»). Ma la pioggia di miliardi di lire ebbe soprattutto l’effetto di spingere definitivamente l’organizzazione mafiosa di quelle province nella sfera degli affari. Essa era da poco uscita dalla dimensione rurale per entrare nella sofistificazione del vino, nella speculazione edilizia e nel controllo del traffico della droga e ora, con questo salto di qualità, entrava a far parte integrante della borghesia e si apprestava a gestire direttamente il potere. Il primo risultato, assolutamente esemplare, fu che si realizzò l’autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo prima, molti anni prima, della ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto. Ma ci furono anche giovani che portarono aiuto ai terremotati, si dedicarono ad attività di sostegno nelle baraccopoli, diedero vita a doposcuola e a gruppi di studio. Alcuni si avvicinarono alla politica.
Anni di cambiamento
Di quegli anni di cambiamento del costume e di speranze rivoluzionarie qualcosa comunque arrivò anche a Campobello. Sorse per esempio una comune agricola ad opera di un gruppo di emigrati in Svizzera, non solo siciliani, che vollero condividere vita e lavoro all’interno di un progetto di cambiamento del modo di produrre e della società. La comune divenne un punto di riferimento per i compagni siciliani ma anche a livello nazionale. D’estate sorgeva una sorta di accampamento internazionalista, che attirò le ovvie attenzioni delle forze dell’ordine, preoccupate dal pericolo della sovversione, ma anche tanti giovani interessati alla novità di quell’esperienza e non solo alle disinibite compagne del continente. Si aprì un confronto reale con il PCI, almeno con quella parte del partito che voleva ancora cambiare le cose. Un gruppo di militanti aveva colto infatti un dato di rilevanza storica: il flusso dell’emigrazione tendeva a invertirsi. Nel 1972, per la prima volta nella storia dell’Italia unita, il numero dei rimpatriati superava quello degli espatriati, gli emigrati ritornavano nei paesi di origine. Questo fatto, che gli anni seguenti avrebbero confermato, avrebbe potuto portare alla costituzione di nuclei di classe operaia, che avevano sperimentato all’estero il lavoro di fabbrica e l’organizzazione, capaci quindi di farsi avanguardia, insieme ai braccianti, del movimento per la trasformazione sociale e politica del meridione e pure di Campobello. La prospettiva nell’arco di un decennio si rivelò illusoria, fondata su un errore di analisi: gli emigrati che rientravano non erano più operai, avevano investito i loro risparmi nella terra o in piccole attività commerciali o imprenditoriali, e non avevano altra aspirazione che il piccolo successo individuale o almeno la dignitosa sopravvivenza. Insomma, nel linguaggio di quel tempo, piccolo-borghesi integrati nel sistema. D’altra parte, la stessa comune agricola in quegli anni cambiava natura, poiché numerosi componenti abbandonavano l’impresa scoraggiati, loro che in Svizzera svolgevano lavori qualificati e ben pagati, dalla fatica e dalla scarsa remunerazione dell’agricoltura, ancor più che dall’isolamento in cui venivano a trovarsi rispetto all’evoluzione del paese. Quelli che rimasero furono attivi nella vita politica (qualcuno fu anche eletto nel consiglio comunale) sino alla fine degli anni 80, ma furono costretti a trasformare la comune in impresa privata. Il ciclo positivo del rientro degli emigrati, con conseguente aumento della popolazione, proseguì sino al 1987 (12.660 abitanti), per poi rapidamente invertirsi con la ripresa dell’emigrazione verso il Nord Italia e l’estero (nel 2004 la popolazione si era ridotta del 12%).
Le nuove immigrazioni vengono dall’Africa
Intanto Campobello cominciava a divenire esso stesso meta di immigrazione, specialmente dalla Tunisia. Braccianti agricoli nella quasi totalità, che abbassando il costo del lavoro consentivano, insieme ai contributi europei per l’olio e il vino, la sopravvivenza delle attività agricole. Negli ultimi cinque anni molti di questi immigrati hanno potuto ottenere la residenza, alcuni il ricongiungimento delle famiglie, mandare i figli a scuola. Al 1 gennaio 2016 l’ISTAT fotografa un paese sempre più vecchio, da cui i giovani vanno via: Campobello ha gli stessi abitanti del 1951 (1/4 anziani), ma solo perché vi risiedono 1060 «stranieri» (di cui ca. 700 tunisini). Le due comunità lavorano insieme ma vivono separate, per cui lo scambio culturale è limitato e lento. Forse perché ci somigliamo più di quanto i siciliani di oggi vogliano ammettere: in essi vediamo il ritratto di com’erano i nostri contadini di appena due generazioni fa. Il miglior luogo di socializzazione resta la scuola. La posizione di questi lavoratori, finalmente riconosciuti pur rimanendo in generale precari e sottopagati, è ora insidiata dagli immigrati dei paesi dell’Africa subsahariana, in gran parte clandestini, che durante la vendemmia e la raccolta delle olive si concentrano a centinaia ai margini di Campobello in accampamenti del tutto precari, privi di ogni servizio, o in casolari abbandonati. Prima dell’alba si vedono lunghe file che percorrono la statale o il viale della stazione per recarsi al luogo dell’appuntamento dove, se hanno fortuna, c’è qualcuno che ha preparato per loro qualcosa di caldo e chi li distribuisce a gruppi secondo le offerte di lavoro. Essi offrono forza lavoro al prezzo più basso: una cassetta di olive da 20 kg (la raccolta si fa a cottimo) a 2,50 Euro contro i 3-4 che chiedono i tunisini. I più bravi e svelti in una giornata di cassette ne raccolgono 15-20: il totale di quanto possono guadagnare fatelo voi. È la realtà del lavoro nelle campagne al tempo dell’economia globale: lavoratori in lotta per la sopravvivenza e contadini che si lamentano dei prezzi infami dei prodotti agricoli; dicono che a costi più alti rischierebbero di non riuscire a vendere sul mercato che è ormai internazionale.
La «polpa» del Meridione
Campobello è un paese della «polpa» del Meridione, secondo la definizione di Manlio Rossi-Doria: avrebbe potenzialità per uno sviluppo (agricoltura, trasformazione dei prodotti, turismo), che tuttavia vengono bruciate dal contesto del mercato e dalla cattiva amministrazione che favorisce la rapina di risorse pubbliche da parte delle organizzazioni mafiose. Esse, ancor più che le attività economiche, collocano questo paese dell’estrema provincia nella rete del mondo globalizzato. E creano situazioni paradossali per cui in un festino di signorotti locali si ritrovano donnine che frequentano anche la villa di Arcore. Fotogrammi del vero potere. Intanto i giovani vanno via. Chi resta ci vive male? Non si può dire. L’arte del vivere consiste nel sentirsi integrati in questo ambiente e nei suoi riti, fondati sul culto della famiglia e dell’amicizia, da cui deriva il rispetto sociale anche quando connotati da ipocrisia e diffidenza. Di questo sentire, che è una cultura come intuì Falcone, l’organizzazione mafiosa si alimenta, rovesciandone il senso ai propri fini di dominio e di arricchimento che, omogenei ormai a quelli del grande capitale, non rispettano alcun valore personale e sociale. Chi si sente integrato vive bene, perché è così come sempre è stato, e sa cogliere le cose e le occasioni per star bene che pure non mancano. Se ne accorge il turista che gode la migliore ospitalità, a condizione che resti turista. Chi non si sente integrato è di fatto un estraneo, che resti o che parta, destinato all’irrilevanza.
Questo non è un paese di eroi
Questo non è un paese di eroi. Un sindaco, protagonista di molte manifestazioni antimafia, nel 2012 fu arrestato con l’accusa di essere «(…) rappresentante politico della famiglia mafiosa all’interno dell’amministrazione comunale, che si adoperava, in primo luogo nel settore degli appalti pubblici, per favorire gli interessi riconducibili alla consorteria ed assicurare il sostentamento economico dei capimafia detenuti e delle loro famiglie». Ne seguì lo scioglimento dell’Ente comunale, ed era la seconda volta nell’arco di 20 anni. Alcuni vecchi militanti non si stupirono, altri, cretini quanto lo sciasciano prof. Laurana, vissero questo evento come una ferita: il sindaco aveva iniziato la sua attività politica nel PCI. Quale cancro sociale e culturale aveva potuto farne un rappresentante dei mafiosi oppure, nel caso lo fosse sempre stato, farne un dirigente dello stesso partito di Pio La Torre? Per la pace delle coscienze non indifferenti, nell’aprile di quest’anno, dall’accusa di associazione mafiosa l’ex sindaco è stato definitivamente assolto in Cassazione.
Le relazioni che motivano lo scioglimento dell’Ente comunale sottolineano come i vincoli di alcuni amministratori con le organizzazioni criminali producano tra l’altro «(…) l’incapacità della struttura amministrativa di funzionare con regolarità e di fornire i servizi pubblici essenziali». «Incapacità di fornire i servizi pubblici essenziali». Ecco, l’immondizia accatastata nelle strade è il monumento a questa classe dirigente, locale e regionale, che in trent’anni non è stata capace di organizzare nemmeno una gestione razionale dei rifiuti. Ma anche il nostro monumento, di noi che non riusciamo a pensare che per il bene comune dovremmo metterci insieme e invece ci illudiamo di alleviare il nostro problema andando ad accatastare l’immondizia in una strada un po’ lontana dalla nostra. È anche il monumento di noi che volevamo cambiare lo stato delle cose e abbiamo fallito. Se è vero che oggi può passare per rivoluzionario chi chiede solo la trasparenza degli atti amministrativi e chi ha qualche idea per eliminare dalle strade la spazzatura.
Io sto qui, sulla spiaggia, fuori stagione, quando le case dietro le dune sono vuote e posso persino scordarmele. Penso che non ho parole per raccontare ai figli com’era questo mare: ma per loro, che sin dall’infanzia non l’hanno conosciuto diverso da così, è il posto più bello del mondo.
1 Vedi G. Commase e E. Sommavilla, Presenti e invisibili. Storie e dibattiti degli emigranti di Campobello, Feltrinelli, Milano 1978.