NEL SEGNO DELLA MEMORIA E DELLA SPERANZA
di Severino Saccardi
Il lavoro sulla memoria personale (anche di quella di chi fu «angelo del fango» per una sola giornata) e collettiva si intreccia, in questo volume (speciale, triplo) di «Testimonianze» dedicato all’alluvione del 1966 a Firenze e in Toscana, con la riflessione critica sugli equilibri idrogeologici, oggi. Una ricostruzione di quel che è stato, e un’analisi dei fattori alla base delle catastrofi naturali, che affronta le questioni della prevenzione e della sicurezza, nella prospettiva di un equilibrato rapporto con l’ambiente, in quell’unica dimensione degna dell’uomo che, come diceva evocativamente Balducci, è il futuro.
La pioggia battente e il libro di Giorgio Spini
Di quei giorni (come titoliamo due sezioni di questo «volumone» dedicato all’alluvione del 1966, a Firenze e in Toscana), ho un ricordo nitidissimo. Legato a sensazioni e immagini forti e precise. La pioggia battente, giorno e notte, anzitutto. Una pioggia che non cessava mai di cadere. Nella curiosa selezione dei ricordi che opera la nostra mente, le immagini del cielo scuro e delle stanze di casa (in cui si era forzosamente rinchiusi), si associano alla copertina rossa del libro di storia di Giorgio Spini. Un manuale di impostazione culturale innovativa e avanzatissima per i tempi, di cui, approfittando della forzata reclusione, in quei giorni lessi e studiai non poche pagine, visto che ero rimasto indietro nel lavoro scolastico e l’interrogazione era imminente. Poi, la pioggia cessò e apparentemente, per quello che potevamo percepire, nella zona in cui ero allora residente con la mia famiglia (sulle colline della Valdelsa), non era successo nulla di drammatico. Dopo, arrivarono le notizie. Dopo, ci rendemmo conto del disastro che si era verificato. Le notizie, come in molti contributi degli autori del volume viene sottolineato, allora, non giungevano certo «in tempo reale».
Ma, quando le immagini della televisione, nel rigoroso bianco e nero di allora, mostrarono la devastazione di Firenze, l’impressione fu, subito, enorme. La solidarietà verso la povera gente che era stata colpita (in seguito, venne la percezione dei danni enormi al patrimonio artistico) era istintiva e reale. Sempre, sul filo dei ricordi personali: ebbe, anche chi scrive, la sua esperienza come «angelo del fango ». Un appellativo che avrebbe, poi, assunto la valenza di un simbolo e di rimando emblematico ai valori della solidarietà e ad immagini di slancio giovanile nella premura per il soccorso e i bisogni dell’altro.
«Angeli del fango» per un giorno
Fui (come dice di sé anche Stefano Beccastrini) un «angelo del fango» di provincia. Fu la mia scuola (l’Istituto magistrale di Colle val d’Elsa, non ricordo se insieme al contiguo Liceo scientifico) ad organizzare la spedizione a Firenze. Partimmo di primissimo mattino in pullman e arrivammo a Firenze in una stupenda giornata di sole. Uno splendore ed una luminosità che impietosamente illuminavano una città in ginocchio. Lo spettacolo di una Firenze che c’era «ma avrebbe potuto non esserci più», come recita il toccante e suggestivo editoriale post-alluvione di Ernesto Balducci che ripubblichiamo come incipit di questo numero speciale della rivista da lui fondata, interamente dedicato al cinquantenario di quegli eventi. «Angeli del fango», dunque, sia pure per una sola giornata, i miei compagni ed io, ci mettemmo (come tanti, in quei giorni) alacremente al lavoro. Il fango era ovunque e, ovunque, c’era, quindi, necessità di lavoro e possibilità di dar mano. Io e un gruppo di miei compagni ci mettemmo a liberare e ripulire l’ingresso di una palazzina in piazza dei Cavalleggeri (la piazza della Biblioteca Nazionale).
Alla fine, uno degli abitanti, un signore anziano (o che tale, allora, appariva ai miei occhi di diciassettenne) ci ringraziò, sorridente e commosso. Lo confesso: ogni volta che passo da quella piazza, mi viene istintivamente di guardare verso il portone di quella palazzina. Lavorammo, anche, alla catena umana che passava libri rovinati, infangati e sfregiati, di mano in mano, all’interno della Biblioteca Nazionale. C’era una gran sintonia di sentimenti e una sorprendente sincronia di movimenti in quel generoso serpentone umano composto di studenti di tutte le nazionalità. Giovani uomini e donne che stavano imparando, sul campo, a far del bene e ad operare per il bene, con sorprendente nonchalance. Il clima, però, mi è già capitato di raccontarlo, era tutt’altro che grave e serioso. Eravamo comunque (come i ragazzi che stanno in gruppo non possono non essere) giovani e scanzonati. Immergevamo le mani nel fango, passavamo i libri e, intanto, guardavamo, estasiati, e a bocca spalancata, le bionde e alte studentesse americane che erano a pochi passi da noi. Come altri, e come emerge dai racconti nel nostro volume, anche chi scrive, con i libri della Nazionale, avrebbe avuto a che fare anche in seguito.
Il lavoro di ripulitura e asciugatura dei volumi danneggiati fu, infatti, talora decentrato e io ricordo di aver lavorato, con altri miei compagni ad operazioni di questo tipo nei locali attigui alla Chiesa francescana di S. Lucchese, situata sulle belle colline sopra Poggibonsi. Non so quanto riuscimmo a fare di realmente utile, ma avemmo, questo sì, l’impressione di essere stati molto utili. Ed eravamo, soprattutto, come era percezione diffusa, molto compresi di far qualcosa di gratuito e di volontario per il bene comune. C’era come un vento nuovo nell’aria. Un vento di cambiamento. Lo stesso che i miei compagni ed io inconsapevolmente respiravamo quando, dopo la nostra spossante giornata fiorentina in veste di improvvisati «angeli del fango», tornando a casa, stanchi ma contenti, ascoltavamo, in pullman canzoni di Bob Dylan, dei Beatles e di Joan Baez .O almeno questo mi dice la memoria; ma chissà se le musiche e i cantanti erano proprio quelli. Quel che è certo che, anche la musica, anche in quei giorni drammatici, faceva vibrare nell’aria e risuonare nell’animo l’esigenza profonda del nuovo.
Quando Kennedy si sporcò di fango
Hanno certo ragione Fabio Dei e Anna Iuso (e altri amici che su questo aspetto hanno insistito) a scrivere che è importante anche il modo in cui i giorni dell’alluvione sono stati ricostruiti non solo e non tanto sul momento, ma anche post factum, e che da lì è cambiato il modo stesso di percepire le catastrofi, insieme alla concezione dell’impostazione della «questione soccorsi» ed alla cultura della prevenzione (per quanto ed ove possibile) degli effetti delle calamità naturali sul territorio.
Fu importante, insomma, la rappresentazione mediatica dell’alluvione in una città-simbolo come Firenze (che è città del mondo e che da allora lo diventò ancor più). I giornali e le televisioni (con i mezzi che avevano allora e con la fatica che dovettero fare per far passare un certo tipo di messaggio), come sottolinea Piero Meucci ed altri insieme a lui, fecero un grande lavoro. E una grande rilevanza ebbe anche l’attenzione che sul «caso Firenze » si concentrò, anche in seguito alle visite eminenti (o in concomitanza con esse) che la città, piagata ma non domata, ebbe modo di ricevere. Così quella del giovane, e già potente, senatore Ted Kennedy che (come sottolinea Roberta D’Agostino) si presenta alla conferenza stampa sporco di fango secco portando ad evidenza, con la forza dell’immagine, assai più e oltre che con le parole, il forte impatto emotivo che le devastazioni subite dalla città dell’umanesimo, amata dal mondo intero, avevano avuto su di lui. Così, e ancor di più, quella di Paolo VI (che Giorgio La Pira, come documentano le lettere che ripubblichiamo, contribuì, con determinazione, a preparare e ad invocare, oltreché ad accompagnare e a far comprendere). Non avevano avuto buona accoglienza, in genere, le autorità che avevano fatto visita a Firenze. Gli animi ribollivano, i problemi erano grandi ed il vento della contestazione (come dicevamo prima) era già nell’aria. Ma per Paolo VI, no! Attorno a quel fragile pastore (passato poi – molto ingiustamente, credo – alla storia come papa incerto, vacillante ed esitante) si strinse la città, bisognosa di attenzione, di punti di riferimento e (sia detto nell’accezione più laica possibile, ma non saprei usare altro termine) di benedizione. Fu, come racconta Mario Primicerio,
un grande momento. Primicerio dice, tra l’altro, che non è solo un mito o una ricostruzione ex post che i giorni dell’alluvione e del periodo post-alluvione a Firenze e in Toscana (e non solo) abbiano preparato e precorso lo spirito del sessantotto.
Ci sarebbe naturalmente di che discuterne, ma l’impressione è che, in tale punto di vista, molto ci sia di vero. Quel che è certo è che nei fiorentini (e nei toscani: agli eventi del 66 in tutta la Regione è dedicato, infatti, il volume) non c’era rassegnazione. L’impatto era stato tremendo. Come veniva prima ricordato, Balducci (perché, quasi al cento per cento, è suo l’editoriale non firmato che ripubblichiamo come apertura del nostro numero triplo) lo dice da par suo: «Firenze c’è e avrebbe potuto non esserci più».
Si misero in moto tutti: preti e comunisti
Ma da subito, passato lo choc del primo momento, forte, collettiva e trasversale fu la voglia di reagire con determinazione. Un movimento collettivo e trasversale, quello dei gruppi spontanei e dei comitati (v. in merito Mauro Sbordoni, Franco Quercioli e tanti altri) che si organizzarono per risolvere problemi, prestare soccorso e, in definitiva, far rinascere quell’immenso patrimonio comune che era e che è la città di Firenze. È risaputo: si misero in moto tutti, preti e comunisti, Acli e case del popolo, ma anche gruppi spontanei e persone, giovani e meno giovani, di tutte le condizioni sociali e di tutte le idee politiche: uomini e donne, credenti e non credenti, di sinistra, di centro e (anche se il «politicamente corretto» su questo induce a sorvolare) di destra. Nella sciagura, quello fu, in qualche modo, e per le vie misteriose della vita e della storia, un grande momento di rinascita e di sperimentazione di nuove forme di partecipazione civile. Ci sono figure che val la pena ricordare. Uno fra i tanti: don Bruno Rosadoni, il biblista che spalava il fango. Per l’inedito impatto simbolico e mediatico che il catastrofico evento del 66 ebbe sull’opinione pubblica mondiale, a Firenze (non nel resto della Toscana, che comunque dovette e seppe rimboccarsi le maniche) molti vennero da fuori. Fu un grande momento (ha ragione Erasmo D’Angelis, anche qui insieme a molti altri) a ricordarlo. Vi si è costruita attorno quasi una sorta di (positiva) epopea, che ad ogni decennale si riconosce e si rinnova. Non è male, anzi, ricordare quello che un grande moto collettivo di generosità ha saputo esprimere e comunicare al mondo e ai giovani delle generazioni successive (che oggi quelle esperienze riscoprono, ad es. nelle scuole, come il nostro volume documenta e che, talora, anche oggi, quando sfortunatamente vi sono catastrofi, sono i primi ad intervenire). E tuttavia, come quasi sbotta simpaticamente Quercioli, non siamo angeli. Che cosa implica tale perentoria affermazione? Che Firenze che certo ebbe e registrò molta solidarietà e aiuti dall’esterno, trovò (e, con essa, anche tutta la Toscana), prima di tutto, in se stessa e nella sue forze vive, la capacità di reagire. Firenze fu, cioè, per usare un termine che è caro al mio prezioso amico Giorgio Federici (che a questo volume ha dato un apporto assolutamente grandioso, aiutandoci a collegarlo, per di più, al grande lavoro del Comitato «Firenze2016» – «Toscana2016»), una città e una comunità capace di esprimere un alto tasso di «resilienza». Lo usano in molti, questo termine, in questo nostro fascicolo. Che cos’è la resilienza? Se io ben capisco è la capacità, in condizioni di forte avversità, di reagire e di trasformare la sfortuna in opportunità. È detto alla buona, ma il concetto, più o meno è questo. Firenze (v. Acidini e tanti altri), in questo, è stata un laboratorio ineguagliabile. Ha approfittato della sciagura per acquisire, nel restauro dei beni artistici, competenze nuove, che hanno fatto scuola nel mondo. C’è, in questo senso, un patrimonio di conoscenze da ricordare e da valorizzare.
Dedicato alle vittime
Come dicevamo, in questo numero di «Testimonianze» (aperto dagli interventi del sindaco di Firenze, ma anche da quello del presidente della Regione e da quello del presidente del Consiglio regionale) non si parla solo di Firenze, ma anche di tutta la Toscana. Si parla delle vittime dimenticate di Reggello. Delle persone che persero la vita in altre località. Vite perdute, che si aggiungono a quelle di coloro che perirono (talora, perite in modo eroico, come ricorda Vannoni) a Firenze. A tutti loro e alle vittime di tutte le alluvioni è dedicato questo nostro lavoro. La Toscana, tutta, subì danni enormi e devastazioni, in molti suoi territori nel sessantasei. Ed è tornata, in alcune sue parti, a subirne anche in anni recenti.
Preziose sono le testimonianze degli amici del grossetano, dell’empolese, del Valdarno, del territorio pisano. Che contribuiscono a costruire un quadro d’insieme di quei giorni tremendi. Che, certo, furono tali anche perché eccezionali furono le precipitazioni che furono all’origine dell’alluvione. I ricordi con cui chi scrive ha aperto questo testo sono comuni a tante persone (anche nostri autori) che quelle immagini conservano nella mente. E che nella mente conservano l’impressione surreale del rumore costante, ininterrotto, ossessivo di tre giorni e tre notti di pioggia battente. Ma, naturalmente, non basta questo a dar conto di ciò che è stato. Qualcuno, nelle nostre pagine, lo dice: da allora, il modo di porsi di fronte alle catastrofi (giusto o sbagliato che sia) è cambiato.
La prima domanda che, oggi, spontanea si pone è: di chi è la colpa? La colpa è certo del tempo che cambia (interessante in merito quel che scrive Gozzini sulla meteorologia, e sulla sua capacità di far previsioni, ieri e oggi) e anche degli attuali mutamenti climatici. Eppure, l’affermazione (che, in questo caso, suona quasi come provocazione e sfida) non siamo angeli ha forse anche un altro significato. Vuol dire che sempre vanno vagliate e chiamate in causa le responsabilità umane e politiche (che spesso ci sono, ah, se ci sono!) di quel che accade e di quel che si fa dopo che i fatti sono accaduti. Certo, come viene ricordato, molto, nel frattempo, è stato fatto: è stata costituita la Protezione Civile, è cresciuta la cultura della prevenzione, c’è una maggiore consapevolezza dell’importanza di un rapporto equilibrato fra uomo e territorio, c’è una crescente coscienza di quanto per l’umanità e per la terra medesima sia fondamentale avere un’esatta percezione del valore inestimabile del «bene acqua». Ma tanto – tanto! – c’è ancora da fare.
Un tempo degno dell’uomo
Per questo, abbiamo voluto (in sintonia, del resto, con l’impostazione del Comitato «Firenze2016» – «Toscana2016»), insieme a «Water Right Foundation» (con la cui collaborazione è realizzato il presente volume), in questo importante anniversario, da vivere in un’ottica non puramente commemorativa, tenere costantemente e sviluppare il discorso su due piani: quello della memoria e quello della riflessione sui compiti per l’oggi. C’è ancora molto da lavorare perché l’Arno, come viene detto in queste pagine, che ha sempre avuto un rapporto altalenante e problematico con Firenze e con le altre città che attraversa (come Pisa), possa essere vissuto pienamente come un «fiume amico». In causa sono chiamate le responsabilità delle istituzioni e della politica, ma anche quelle della cultura e dei diversi saperi scientifici (dalla geologia alla meteorologia all’urbanistica all’idraulica…) e umanistici, che, in un tempo in cui il tema della sostenibilità ambientale è sempre più all’ordine del giorno, insieme, devono far tesoro di quel che è stato per costruire un rapporto più equilibrato con il territorio e una nuova e più efficace concezione della sicurezza. Hanno scritto in tanti, su questo numero di «Testimonianze», come sempre (e più di sempre) variegato e «plurale». A tutti siamo, di cuore, veramente grati. Una rivista, come questa, che da tanti anni vive e respira con la città di Firenze (ma che ha una diffusione nazionale e che, anche fuori d’Italia, è conosciuta) ha voluto non solo rivivere, insieme a tanti amici, la storia di quei drammatici momenti. Ha anche voluto, in qualche modo, mettersi a disposizione, offrire un servizio di comune riflessione culturale.
A che punto siamo, su questi grandi temi? Dove andiamo? La risposta è ardua. Tuttavia, ci dà ben da sperare che, tra i contributi, ci siano anche quelli (freschi, a volte un po’ ingenui, ma anche pieni di consapevolezza) di giovani, ragazzi e ragazze, delle nostre scuole. Con loro, grazie ai loro insegnanti e alla cura che hanno messo in questo lavoro, abbiamo ricostruito una pagina drammatica (ma anche bella, per quel che riguarda la cultura della solidarietà) della storia. È con loro che va ragionato del domani, del grande tema dell’acqua, della cultura della responsabilità ambientale, di prevenzione, di cura del territorio. Memoria e progettualità, sempre, ma soprattutto su grandi questioni come queste, vanno evidentemente insieme. Questo anniversario, con le riflessioni che esso suscita, serve forse a rendercene ancora più consapevoli. È un merito non piccolo quello di chi sta, in questa direzione, portando avanti, a Firenze e in tutta la Toscana, l’organizzazione di tante manifestazioni e una gran mole di lavoro. «Testimonianze», come sa e può e con gli strumenti che le sono propri, intende, con queste pagine, fornire ad esso il suo apporto. Un apporto il cui valore non sta a noi valutare. Che vi siano coinvolti i giovani è, comunque, un segno non piccolo di speranza, Diceva, dopotutto, Ernesto Balducci, che di questa rivista è stato il fondatore ed a cui abbiamo lasciato la parola in apertura del volume, che c’è un unico tempo degno dell’uomo.
Questo tempo è il futuro.