Un Documento programmatico
Quelle pagine, faticosamente redatte e coraggiosamente approvate 60 anni fa, mantengono inalterato il carattere di un documento programmatico in gran parte ancora da realizzare e da far valere nella controversa realtà di un mondo pur così mutato.
Eppure, la Dichiarazione Universale, pensata e nata come reazione agli orrori della prima parte del “secolo breve” (due guerre mondiali, genocidi ed “urbicidi”, tra cui quello di tonalità apocalittiche provocato dal fungo atomico su Hiroshima e Nagasaki), fu concepita non senza limiti, contraddizioni ed elementi di intrinseca debolezza. Universalità di principio ed universale (e concreta) applicazione dei principi, come è ben evidente, non sempre sono coincidenti.
L’universalità dei diritti venne definita in un testo (come già si prospettava nel mandato conferito ad un’apposita Commissione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu nel Febbraio 1946) privo di un carattere giuridico vincolante. Anche se, come sarebbe stato ribadito, i Paesi sottoscrittori avrebbero dovuto adoprarsi per garantirne il carattere operativo e l’incidenza sulla realtà.
Un limite, se possibile, ancor più evidente, sarebbe derivato dal (non unanime) grado di consenso che, fin dall’atto di nascita, quei principi sarebbero riusciti a coagulare. Nell’esito del voto finale sulla Dichiarazione avrebbero pesato le divisioni politiche (fra Blocchi ed ideologie fra loro in contrapposizione) oltre alle diversificazioni culturali.
Si astennero, al momento dell’ approvazione, i Paesi dell’ Est allineati con l’URSS (per il carattere ritenuto troppo “formale” della definizione dei diritti), l’Arabia Saudita (per la questione dei diritti e della posizione della donna nella società e nella famiglia) e il Sudafrica ( per la suscettibilità sul tema del razzismo). Va detto che non fu, comunque, un risultato da poco aver raccolto 48 voti a favore (e, soprattutto, nessun voto contrario) fra i 56 stati che facevano parte, al momento, delle Nazioni Unite.
La questione delle questioni
Sul carattere effettivamente universale dei diritti umani sanciti dalla Dichiarazione Universale del 1948 si sarebbe cavillato a lungo. Ancora negli anni ottanta, per chi ne ha memoria, l’assunzione di tale tematica ( già riscoperta con decisione dall ’ Amministrazione Carter all’interno del confronto USA-URSS ) veniva contestata, nelle prese di posizione dei regimi dell’Europa dell’ Est di osservanza brezneviana, come sostanziale espressione del punto di vista della borghesia internazionale e come maschera ideologica dell’imperialismo. In questo senso, fu un passaggio culturalmente innovativo e non di poco conto quello rappresentato dal dibattito e dal dialogo “dal basso” fra intellettuali e movimenti indipendenti dell’ Est e dell’Ovest (1) tendente a porre, in forme nuove, in relazione fra loro la dimensione della coesistenza e la dirompente contestazione della cosiddetta “logica di Yalta” . Il tutto all’insegna della rivendicazione dell’universale rispetto della cultura dei diritti al di là delle frontiere, dei Blocchi e del relativismo prodotto dalle gabbie ideologiche della “guerra fredda”.
C’ è, d’altra parte, un ben riconoscibile rapporto di filiazione tra le affermazioni del Testo del 10 Dicembre 1948 e l’ Atto finale di Helsinki del 1975 (2), prodotto dall’allora CSCE (Conferenza per la sicurezza e la ccoperazione in Europa), che, mettendo all’ordine del giorno la libertà di movimento in Europa e ribadendo l’inalienabilità dei diritti fondamentali della persona, avrebbe posto le basi per il grande sommovimento del 1989.
Non sono pochi, come è noto, i documenti che sono nati, nei decenni, sulla scia della Dichiarazione Universale (3). Tra questi, un’attenzione particolare meritano testi come quello della Carta africana dell’ uomo e dei popoli (1981) che pone l’ accento sulla necessità che i “diritti civili e politici” siano considerati “indissociabili dai diritti economici” e la Dichiarazione sui diritti umani nell’islam (1990).
Un testo emblematico, che attesta l’attenzione, comunque, ormai diffusa, in ogni parte del mondo, per la cultura dei diritti. Ma che richiama, anche, “il ruolo civilizzatore e storico della Ummah islamica che Dio fece quale migliore Nazione”, contribuendo a mettere a fuoco un elemento centrale di dibattito che pare quasi riportare, in termini ed in tempi mutati, alle controversie delle origini. E a porre nuovamente al centro, in maniera inesausta, la questione delle questioni. Che è, alfine, seccamente così formulabile:” Sono universali i diritti umani?”
Una scommessa di portata storica
Si tratta, in realtà, di una domanda, come anche l’impegnativa ricorrenza di quest’anno spinge nuovamente a ribadire, da non inquadrare come una sorte di irresolubile antinomia. Ma, piuttosto come formulazione di una scommessa. Una scommessa, di portata storica, da inquadrare e da affrontare con coraggio e creatività. Puntando, con decisione, sulla feconda combinazione fra la riaffermazione indiscussa dell’universalità dei diritti umani e la relatività delle culture. A questo ci richiama il sintetico, quanto efficace, articolo di Giuliana Sgrena, che denuncia il razzismo rovesciato che è implicito in un certo relativismo e nel multiculturalismo di maniera. E’ una riflessione da tener presente sia in rapporto ai problemi, ed ai latenti conflitti, delle nostra società , che si va modificando sotto l’effetto del “fenomeno immigrazione”, sia sul piano internazionale. Dove non sono pochi i casi di Paesi in cui l’apparente valorizzazione (in sé, meritoria) della “diversità” e specificità delle tradizioni è talora invocata strumentalmente da regimi illiberali a copertura, di fronte alle pressioni della comunità mondiale, delle violazioni da essi perpetrate contro i fondamentali (e non relativizzabili) diritti dell’uomo.
Che la cultura dei diritti umani, storicamente sviluppatasi e consolidatasi negli ultimi secoli a partire da un processo politico-culturale sviluppatosi originariamente in Occidente (4), sia intrinsecamente “etnocentrica” è, d’altra parte, sempre più spesso contestato da intellettuali, dissidenti ed oppositori politici operanti e radicati in contesti extraeuropei. Che rivendicano per i loro stessi popoli (pur nella salvaguardia delle specificità dei percorsi storici, delle mentalità e delle tradizioni culturali) gli spazi di libertà che altrove sono stati, da tempo, conquistati e dati per acquisiti.Nonostante i limiti insiti nella stessa, sofferta origine della Dichiarazione, poi riverberatisi in molte delle controversie successive, i principi inscritti in quel testo sono ormai, dunque, entrati, con forme crescenti di condivisione, nella coscienza collettiva e si sono rivelati un prezioso punto di riferimento per uomini, popoli, movimenti, organizzazioni umanitarie ( da Amnesty International a Medici senza Frontiere, per nominarne due delle più note) nell’impegno per un mondo più aperto, più libero e più pacifico.
Non è male, in questo senso, riandare alla complessità di riferimenti e di piani su cuiinteragiscono e si definiscono i diritti umani, che sono inquadrabili nella “classica”suddivisione: diritti civili, diritti politici e diritti sociali. Una classificazione che prescinde da ogni compartimentazione ed implica anzi un’interconnessione ed un’interrelazione fra le dimensioni qui richiamate, ugualmente intese a definire e tutelare, nella sua completezza, l’integrità e la dignità dell’uomo.
Va detto che, in tempi recenti, il dibattito (come, nella nostra sezione monotematica, ricordano Simone Siliani e Maria Teresa Cao e Wofgang Sachs) si è arricchito dei riferimenti ai diritti cosiddetti di “nuova generazione” (il più noto e citato dei quali è il “diritto all’ambiente” non inquinato) che l’evoluzione della scienza e della tecnologia e le nuove emergenze del “mondo globale” rendono di grande attualità.
L’ “anno dei diritti” spinge, in ogni caso, a fare un bilancio e a contemplare, a ritroso, il cammino percorso. Ed a chiedersi, in merito, a che punto è la situazione del “mondo globale”. Passi in avanti ne sono stati compiuti.
E’ aumentato il numero dei Paesi democratici e la messa al bando della pena di morte guadagna consensi. Anche la Corte Penale internazionale (nonostante la non adesione di Usa, Russia, Cina) sta svolgendo un significativo lavoro nel perseguire i crimini contro l’umanità. Ma su tutti i versanti ( dei diritti civili, politici e sociali) i problemi aperti, e le tragedie, abbondano.
Basta scorrere il mappamondo e richiamare alla mente Medio Oriente, Iran, Somalia, Darfur, Afghanistan o Tibet. Viviamo una realtà complessa, contraddittoria ed ambivalente.
Sotto il segno della contraddittorietà
Le stesse caratteristiche di quest’ anno particolare, così denso di implicazioni e di rimandi simbolici, si presentano, al momento di trarne un bilancio, sotto il segno della contraddittorietà.
Basta richiamare alla mente alcune delle numerose questioni sul tappeto. Come quella del Tibet (e del “caso Cina”, che vi è, ovviamente, collegato). E’ vero che, nel corso dell’anno, in prossimità delle Olimpiadi e a seguito dei drammatici disordini di Lhasa, i riflettori dell’ attenzione del mondo si sono accesi su quanto, in quell’angolo di Oriente, si andava (anzi si va, da molto tempo) consumando.
Ma le Olimpiadi (come ricorda criticamente e sconsolatamente Stefano Marcelli) non hanno, davvero, portato a quell’apertura in tema di diritti umani, sul piano interno e nei confronti della “questione tibetana”, che era stata ingenuamente preconizzata. Anzi. La soggezione verso il regime cinese è andata, se possibile, ancora aumentando sul piano internazionale. Anche se non manca qualche segnale in controtendenza, come quello registratosi, proprio nei giorni della stesura di queste riflessioni, a Danzica (5).
Sconsolante, a dir poco, e drammatica, permane peraltro la drammatica situazione di taluni Paesi africani. In contesti in cui le piaghe si incancreniscono. Come in Darfur (v. in merito il contributo di F. Kaburu, in questo nostro volume). O in Somalia. Mentre altre tragedie sono andate nel frattempo montando, di fronte all’indifferenza e all’impotenza (o alla non volontà politica, che è peggio) della comunità internazionale. Riproponendo un tema- quello degli strumenti sovranazionali a disposizione per difendere popolazioni inermi dall’efferatezza delle logiche “sterministe”- che, rispetto all’effettività del rispetto e dell’universale affermazione dei diritti umani, riveste un’importanza cruciale.
Non sono mancati, peraltro, negli stessi Paesi “sviluppati”, elementi di forte turbativa e manifestazioni di impetuosi venti di crisi che vanno tuttora provocando paurosi scricchiolii in relazione ad uno dei pilastri, talora rimosso e colpevolmente negletto, dell’edificio dei diritti umani. E’ sul versante “sociale”, quello del diritto al lavoro, alla sua tutela ed alla sua dignità (richiamati espressamente nell’art. 23 della Dichiarazione Universale) che la situazione va drasticamente peggiorando. Non sappiamo se davvero, come talora viene paventato, il 2008 verrà, in prospettiva storica, accostato al precedente del “terribile” 1929. Certo è che recessione e crisi economica globale rendono ulteriormente precaria ed incerta una dimensione (quella del lavoro) che il declino della “classica” età industriale, oggi, spesso, va frammentando nella plurale configurazione dei molti “lavori” con cui sono a confronto le nuove generazioni. Mentre, sul fronte della “tradizionale” e concreta sfera dei lavori “manuali” ( come nel caso dei cantieri edili), la nuova “questione sociale” si incrocia con la questione multiculturale. Sono, per lo più, giovani e migranti quelli, infatti, che salgono sulle impalcature e cadono talora vittime dei (troppi) incidenti sul lavoro.
E’ in questo momento di inquietante incupimento della situazione economica e sociale, sul piano politico, che si è imposto sul proscenio globale di un anno ormai in chiusura, lo straordinario evento dell’elezione di Barack Obama. Una clamorosa “prima volta” per un afroamericano a capo della superpotenza statunitense. Una superpotenza in crisi di egemonia che, proprio per questo, è posta di fronte a scelte impegnative ed innovative. C’è chi sostiene, o spera, che il terreno dell’impegno internazionale sul tema dei diritti umani ( è l’auspicio, ad es., del grande scrittore nigeriano Wole Soyinka) possa essere uno degli elementi qualificanti della nuova presidenza. Che, sulla scena mondiale, verrà rappresentata da una personalità rilevante come quella dell’ex antagonista politica di Obama, durante le primarie democratiche, Hillary Rodham Clinton. In ogni caso, il giovane neo-presidente, sembra voler caratterizzare l’azione del suo governo sui temi del lavoro, delle emergenze sociali e dei diritti di “nuova generazione” (quelli relativi alla “sostenibilità” dello sviluppo e della ricerca di un nuovo modello di consumi energetici).
Il “fattore Obama” rappresenta un elemento, comunque, di evidente novità e sembra dischiudere scenari potenzialmente incoraggianti su scala mondiale. Ma le sfide saranno, non c’è dubbio, complesse e drammatiche. Stanno a ricordarcelo non solo il “tema Iraq” e la “questione Afghanistan” (un Paese in cui, se alla presenza militare non si accompagnano democrazia e sviluppo, la battaglia con il fondamentalismo rischia di essere perduta). Ma anche i sanguinosi avvenimenti di Mumbai.
Che sembrano quasi voler apporre una sorta di drammatico sigillo su un’annata particolare, e per più versi in chiaroscuro, come si è rivelato il 2008.
Il compimento dell’ “anno dei diritti” ha posto al centro una scadenza non puramente rituale. Un cammino importante è alle nostre spalle. Sarebbe sbagliato e riduttivo disconoscerlo.
Ma c’è ancora da fare perché l’affermazione che apre la Dichiarazione (“Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti”) abbia effettiva ed universale risonanza in tutti gli angoli del pianeta.
1) V., in prop., gli Atti dei Convegni di “Testimonianze” del ciclo “Se vuoi la pace prepara la pace” dedicati a temi come: Disarmo, diritti umani, autodeterminazione dei popoli (“Testimonianze” nn. 264-266); Continenti e popoli oltre i Blocchi (“Testimonianze” nn.282-284); Dall’Atlantico agli Urali per un’Europa di pace (“Testimonianze” nn.294-295).
2) V. S. Saccardi, Il Continente ritrovato-Da Helsinki alla “Casa Comune Europea”, Ediz. Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1990.
3) Per quel che riguarda i successivi documenti ufficiali analoghi alla Dichiarazione Universale dei diritti umani, v. la raccolta di testi nel Cd-rom dedicato a Sviluppo umano e cultura dei diritti (allegato al Dizionario Atlante dello sviluppo umano, Quaderno speciale tematico di “Testimonianze” (a cura di S. Saccardi e D. De Lorenzi) edito nell’ambito del Progetto “Archivio Sviluppo” (Firenze 2003).
4) La tesi di una matrice esclusivamente occidentale della cultura della convivenza e della tolleranza, che è alla base della cultura dei diritti umani, è peraltro contestata da Amartya Sen nel bel volumetto: La democrazia degli altri, ed. Mondadori, Milano 2004. Dell’importanza dei diritti umani nel mondo contemporaneo, anche in contesti extraeuropei, Amartya Sen si è occupato, del resto, a più riprese , in altri suoi scritti. Tra i quali è opportuno ricordare: Lo sviluppo è libertà ( ed Mondatori, Milano 2000), che, come esplicita il sottotitolo, è teso a dimostrare Perché non c’è sviluppo senza democrazia. In tema è anche da considerare: Identità e violenza (ed. Laterza, Roma-Bari 2006).
5) Sull’incontro, a Danzica, del Dalai Lama con l’ex presidente polacco ed ex leader operaio di Solidarnosc e, soprattutto, con il presidente francese Sarkozy, v. l’intervista rilasciata ad Andrea Tarquini ( Walesa: “Sul Tibet la Cina impari la lezione di Solidarnosc”, su “La Repubblica”, 4 Dicembre 2008) da Lech Walesa.