Sull’autobus a Kathmandu di Leonardo Ferri
La sensazione della guerra
C’è un caos piacevole all’interno degli autobus a Kathmandu. Accanto a me Bindja, una ragazza nepalese di 19 anni, dorme appoggiata alla mia spalla. Poco più avanti delle giovani madri che hanno in collo bambini che gridano, contadini che si urlano da una parte all’altra dell’autobus qualcosa, due anziane che si scambiano delle collanine di perline rosse discutendo ad alta voce. Stiamo scendendo da Dakshin Kali, un tempio che si trova ad una ventina di chilometri a sud di Katmandu, in un sabato piovoso, dopo il sanguinoso rituale in onore della dea Kali. All’improvviso l’autobus si ferma. Si apre la porta ed entra un militare. D’un tratto cade un profondo silenzio. Anche i bambini hanno smesso di piangere. Il militare passeggia lungo il breve corridoio dell’autobus guardando negli occhi i passeggeri uno ad uno. Il fucile stretto fra le mani, l’espressione immobile di chi sta lavorando, nessuno che lo guarda. La tensione si fa insopportabile. Il soldato, poco più che un bambino, si sofferma accanto al mio sedile. Guarda fisso un giovane, avrà avuto vent’anni, che continua a guardare insistentemente qualcosa che non accade fuori dal finestrino. Poi il soldato riprende a camminare ed il giovane socchiude gli occhi, è sopravvissuto. Quando il soldato scende dall’autobus ci vuole del tempo perché torni la confusione di prima. Quella confusione che non ti lascia mai a Kathmandu. È stato in questo momento, mentre ero seduto in un autobus, che ho percepito per la prima volta la sensazione della guerra. Quando la guerra si avvicina, il silenzio si trasforma in allarme.
Una guerra strisciante
Sono dieci anni che il Nepal vive una guerra strisciante, poco clamorosa, con scontri diretti fra le due fazioni in lotta che, almeno per il momento, non hanno coinvolto direttamente la capitale, ma che, nonostante questa apparente distanza, ha ridotto la popolazione civile nepalese in uno stato di assedio, schiacciata fra la persecuzione delle forze di sicurezza e dell’esercito reale, e quelle dei ribelli maoisti.
La guerra ha avuto inizio il 13 febbraio del 1996. Verso le quattro del pomeriggio un gruppo di trecento persone, composto da uomini e donne, prese possesso, senza quasi alcuna resistenza, dell’ufficio per lo sviluppo agricolo nel distretto di Gorka situato nella parte centrale del Nepal. L’ufficio era parte integrante del progetto per lo sviluppo agricolo portato avanti dalla ADB (Agricultural Development Bank).
Mentre un giovane ribelle stava parlando alla folla riunitasi davanti all’ufficio, che si trova al centro di un piccolo bazar, dei metodi di sfruttamento dei contadini da parte della banca, altri ribelli prendevano possesso dei materiali cartacei e dei documenti di credito stipulati dalla banca con i contadini per poi farne un falò senza che il vicino posto di polizia fosse allertato. Lo stesso giorno, delle truppe irregolari di giovani ribelli presero possesso di tre avamposti di polizia situati nei distretti di Rolpa e Rukum nel Nepal dell’ovest e nel distretto di Sindhuli che si trova a est del paese. Gli scontri a fuoco furono pochi, ma le truppe dei ribelli presero dagli avamposti armi ed esplosivi. Sempre il tredici febbraio del 1996 altri tre obiettivi furono raggiunti dai ribelli: l’industria della multinazionale Pepsi, il cui edificio venne bruciato, una fabbrica di liquori a Gorka, che venne fatta esplodere e l’abitazione di un ricco possidente che venne assaltata nel distretto di Kavre. Nessuno, in queste prime azioni di guerriglia, venne ucciso. Oggi, dopo dieci anni di conflitto si contano 12.753 morti e 1.232 sparizioni, ma le stime sono per difetto, ufficiose, tenendo conto del fatto che nei villaggi la gran parte della popolazione non è censita e le denunce di soprusi, uccisioni sommarie o rapimenti sono rare.
Il “Sentiero di Prachanda”
La rivolta maoista trova origine nella drammatica situazione di povertà in cui vivono i contadini delle campagne nepalesi. L’esercito maoista è guidato da Pushpa Kamal Dahar, un insegnante di agraria noto con il nome di battaglia di “Prachanda”.
Dopo i primi attacchi il governo nepalese ordinò una violenta repressione. I sospetti vennero catturati dalle forze di sicurezza nepalesi, torturati, uccisi, indipendentemente dall’effettiva appartenenza ai gruppi ribelli. La repressione determinò una forte influenza delle posizioni maoiste su gran parte della popolazione povera del paese. Al rafforzamento della guerriglia ha contribuito notevolmente anche la strategia disordinata dei partiti politici presenti nel governo nepalese. Invece di attuare una coalizione volta ad una risoluzione del nascente conflitto, i partiti si frammentarono continuando in una politica litigiosa e dando al “Sentiero di Prachanda”, ovvero ad una teoria politica che unisce il marxismo, il maoismo ed il nazionalismo patriottico nepalese, una visibilità sempre maggiore.
A peggiorare la situazione politica ci mise del suo anche la famiglia reale nepalese con due azioni controproducenti. Secondo le notizie ufficiali, il primo giugno del 2001, Dipenda, il principe ereditario, in preda all’alcool, sterminò la sua famiglia, uccidendo padre, madre, il fratello, la sorella e altre cinque persone per poi rivolgersi l’arma contro ed uccidersi. Gyanendra, miracolosamente scampato alla follia omicida del fratello, divenne Re. A sua volta il Re nel febbraio del 2005, a seguito della pressione delle truppe maoiste, ha assunto pieni poteri, interrotto temporaneamente l’accesso a Internet e alle telecomunicazioni, privando il governo della sua influenza, assumendo il controllo dei media e dell’esercito e trasformando definitivamente la monarchia nepalese in una monarchia assoluta.
“Bepatta”: scomparsi
Le notti nepalesi finiscono molto presto. Le strade del centro di Kathmandu, che di giorno sono invase in ogni vicolo, la notte sono abitate quasi esclusivamente dai pochi stranieri presenti in città. L’atmosfera è festosa, i turisti zampettano in giro cercando qualche locale aperto, ovunque spendendo pochissimo si beve alcool o si trova da fumare hashish, e la polizia, agli stranieri, sembra non prestare troppa attenzione. Ma dentro le case l’atmosfera che si respira è diversa. La polizia della sicurezza, nata col compito di stanare i maoisti o i filo-maoisti, se di giorno lavora raccogliendo informazioni, la notte passa all’azione. Basta una semplice delazione, anche priva di qualsiasi riscontro effettivo, per entrare a fare parte dei sospetti e rischiare di essere catturati, torturati e, spesso, uccisi. Solitamente lavorano in gruppo. Cinque o sei uomini, vestiti in abiti borghesi, entrano nelle abitazioni delle persone sospettate, portano via il sospetto non dicono perché, non dicono dove, non dicono per quanto. È così che ci si ritrova a fare parte dei “bepatta”, gli scomparsi, persone che sono sospettate di simpatie maoiste di cui, una volta presi dalle loro abitazioni, si perdono le tracce.
Esiste una legge in Nepal il TADA Act, acronimo di “Terrorist And Disruptive Activity”, un’ordinanza del 10 aprile del 2002 che dà alle forze di sicurezza, fra cui la polizia e l’esercito, il potere di arrestare i sospettati senza bisogno di alcun mandato ufficiale e di detenere le persone per tre mesi, senza alcun processo, per custodia cautelativa ai fini dell’indagine. I tempi di detenzione spesso sono ben più lunghi e talvolta si trasformano in sparizioni.
Som Bahadur, un giovane di 29 anni, ha vissuto in una cella di una caserma militare nepalese, per tre mesi. Durante questo periodo i parenti erano a conoscenza del luogo in cui Som era detenuto e potevano andarlo a trovare. Un giorno però non lo hanno più trovato. I militari rispondevano alle richieste di informazione della famiglia dicendo che il detenuto era stato spostato dalla caserma verso un carcere. I parenti hanno visitato i centri di detenzione di Kathmandu, ma nessuno aspettava Som. La famiglia ha cercato nelle carceri delle città vicine fino ad arrivare a Pokhara, una cittadina che, nonostante sia a 200 chilometri da Kathmandu, necessita di sei ore di pullman. Lì gli risposero che stavano aspettando l’arrivo di Som. Ma, a Pokhara, Som non è mai arrivato.
Tra repressione governativa e terrore maiosta
La guerra ha causato mezzo milione di profughi. Fra questi molti sono giovanissimi e giovanissime scappati dai villaggi fuori dalla valle di Kathmandu, occupati dalle truppe maoiste. È la storia di molti giovani nepalesi che vivono di stenti nella capitale. Fuggiti dal loro villaggio hanno percorso anche centinaia di chilometri per raggiungere, attraverso le foreste e le montagne, la valle di Katmandu e qui cercare una fortuna che spesso tarda ad arrivare. Secondo la pubblicazione ONU “Lo stato delle città nel mondo”, il 40% della popolazione di Kathmandu vive con meno di un dollaro al giorno ed il 90% è considerata “Slummer”. Considerando che Slum significa topaia, catapecchia, e che la popolazione di Kathmandu è di (non esiste un censimento preciso) più di un milione e mezzo di abitanti, il dato si mostra in tutta la sua drammaticità. Gli slums nepalesi sono particolari. Non si tratta nella maggior parte dei casi di baracche in lamiera, ma di case in mattoni, fatte di quattro mura e di una o poche stanze, costruite non abusivamente, ma pagate a caro prezzo da chi è giunto dalle campagne, e prive completamente di qualsiasi servizio: acqua corrente, elettricità o sistema fognario.
La popolazione si trova stretta nella morsa di due violenze, quella reale e quella dei ribelli.
Se l’esercito e la polizia continuano la loro azione repressiva all’interno della capitale e delle principali città dei 75 distretti del paese, i villaggi delle campagne nepalesi sono sotto il controllo dei ribelli che non mancano di rapire, torturare, uccidere o obbligare alla guerra popolare i più giovani dei villaggi. Così anche bambini e bambine di dieci anni si trovano a far parte di un esercito irregolare, a svolgere azioni di guerra, più o meno consapevoli e convinti di quello che fanno. Chi si rifiuta rischia la morte o è costretto a fuggire trasformandosi in un sospetto maoista per lo stato ed in un traditore della guerra del popolo per i maoisti.
Al momento il Re si trova pressoché in una situazione di isolamento internazionale. La presenza del turismo, che dal febbraio del 2005 è drasticamente diminuito per questioni di sicurezza, è invece una delle poche speranze per il Nepal non solo da un punto di vista economico. La presenza di stranieri nelle città non permette eclatanti azioni di repressione. L’attenzione internazionale nei confronti del Nepal, che al momento è quasi assente, se si esclude l’impegno di alcune ONG, avrebbe il potere di influenzare una situazione che dopo dieci anni di conflitto si trova in una condizione di “stasi” e di equilibrio fra le due forze in conflitto. Ci sono stati tre momenti in cui il “cessate il fuoco” ha permesso alla popolazione di respirare, ma l’ultimo, proposto dai maoisti nell’estate del 2005, è stato rifiutato dal Re.
Diritti delle donne
Renu Sharma, presidente della “Women Faundation of Nepal”, che si occupa di diritti delle donne, ha affermato che è proprio la presenza di giornalisti stranieri che dà a chi lotta duramente per l’affermazione dei diritti civili, la speranza di poter migliorare la condizione di un popolo chiuso in una gabbia violenta dove non esiste la possibilità di affidarsi ad una forza di sicurezza pubblica. Gli stessi giornalisti delle principali testate nepalesi, che lavorano sotto l’influenza di una censura radicale dell’informazione, affermano che la situazione è destinata a cambiare. Ma la mancanza di un politica comune dei partiti nepalesi e dell’intervento politico della comunità internazionale non permette ancora di fare progetti per un futuro in cui il Nepal possa finalmente a ritornare a fare risplendere la sua storia che ha visto il paese essere una delle nazioni asiatiche più pacifiche. Se si esclude la guerra fra il 1814 ed il 1816 con la “English Est Indian Company”, infatti, il paese non ha mai avuto momenti di conflitti interni o con altri paesi. Il primo obiettivo per intellettuali e professionisti dell’informazione, impegnati nei diritti civili, è la trasformazione dell’attuale dittatura monarchica in una monarchia costituzionale, con l’appoggio dei partiti politici e l’abbandono delle armi da parte dell’esercito maoista. Un progetto politico tutt’altro che astratto, ma che, se continua il disinteresse generale, avrà poche possibilità di realizzarsi