di Severino Saccardi
Intervista a Severino Saccardi, a cura di Tommaso Ferraresi
Una conversazione con il direttore di “Testimonianze”, Severino Saccardi, a conclusione dei suoi 5 anni di esperienza nel Consiglio Regionale della Toscana e in seguito alla campagna elettorale per le “primarie” PD (previste dalla legge elettorale regionale), impostata all’insegna della parola d’ordine “Idee in cammino – Cultura, diritti, solidarietà” e conclusasi con un risultato onorevole, ma probabilmente insufficiente a garantire il suo ritorno nell’Assemblea regionale.
D. Innanzitutto ti chiederei di fare un bilancio dell’attività di questi cinque anni soprattutto a partire dal fatto che il tuo profilo è diverso rispetto a quello di molti altri consiglieri regionali e che quindi hai avuto l’opportunità di fare un percorso originale rispetto a quello canonico. Su cosa ti sei impegnato? Con quali modalità?
R. Non si tratta di tentare, qui, una esposizione puntuale di quanto ho fatto in questi cinque anni. D’altra parte in questa campagna per le primarie toscane – che si tengono perché la Toscana ha una legge elettorale particolare, in cui non esistono le preferenze alle elezioni per il rinnovo dell’assemblea, ma esistono primarie per i partiti, si badi bene, che le vogliono fare – io ho presentato un volumetto di 110 pagine Idee in cammino: cultura, diritti e solidarietà in cui è documentato il lavoro che è stato fatto. Un resoconto doveroso. A grandi linee, posso dire che ho cercato di essere fedele ed aderente alle tematiche su cui mi ero impegnato cinque anni fa. Anzi, devo dire che allora io ho iniziato con un atto simbolico: la visita al carcere di Pisa. Finirò il mio mandato con un atto simbolico: la visita a questo o ad un altro carcere della nostra regione. Perché lì mi pare ci sia uno degli elementi fondamentali delle contraddizioni anche di una regione così attenta ai diritti come la Toscana. Cioè a dire l’elemento di sofferenza della popolazione carceraria la cui consistenza numerica è notevolmente mutata in questi anni. Non ci sono, negli istituti penali, i grandi numeri, tra i reclusi, di “grandi criminali”; in carcere c’è, ormai, soprattutto una congerie di “rifiuti sociali”: giovani emarginati, extracomunitari, persone appartenenti alla micro-criminalità. Lì c’è un lavoro da fare, perché la cultura dei diritti riguarda anche le persone in stato di detenzione e la pena non deve essere soltanto afflizione, ma deve portare anche alla rieducazione e al recupero di chi ha sbagliato. Anche in Toscana c’è molto da fare da questo punto di vista. E l’istituzione della figura del Garante dei diritti dei detenuti, uno degli ultimi atti di questa legislatura, è da questo punto di vista un segnale molto importante.
Ciò detto, in questi anni, in termini generali, io ho sperimentato insieme ai colleghi che hanno condiviso questa esperienza, l’importanza e i limiti del far parte di una assemblea istituzionale come il Consiglio Regionale. L’importanza, certamente: perché si tratta di uno spazio rilevante in cui si possono prendere iniziative politiche significative, sollevare temi, gettare fasci di luce su questioni che sono spesso trascurate. Nello stesso tempo c’è stato uno spostamento del baricentro, che va registrato, in ambito istituzionale dalla dimensione rappresentativa alla dimensione del governo, alla dimensione presidenziale, che ha garantito responsabilità e coerenza nell’azione dell’esecutivo ma che ha depotenziato le assemblee elettive e legislative. Quindi, gli spazi in cui lavorare spesso sono stretti e vanno saputi individuare con costanza e con un po’ di creatività. Ciò nonostante in questi anni ho cercato – abbiamo cercato, anzi, insieme ad altri colleghi – di lavorare sui temi che hanno connotato anche la mia esperienza al di fuori delle istituzioni. Sui diritti umani, ad esempio, il Consiglio Regionale della Toscana ha votato una serie di atti, di cui io stesso mi sono fatto in parte anche tramite e promotore, e di prese di posizione condivise, al di là dell’appartenenza a diverse parti politiche, sulle principali situazioni di sofferenza dei diritti umani sul pianeta: Tibet, Darfur, Iran, Cina. Sono stati ospiti del consiglio regionale personalità importanti: Akbar Ganji, Shirin Ebadi, Adam Michinik, Harry Wu. È un lavoro che può essere continuato. Per quanto riguarda la cultura in particolare, abbiamo – insieme ad altri colleghi – presentato proposte e progetti di legge sulle riviste di cultura, sulla musica popolare, sul cinema di qualità. Progetti di legge che non sono andati in porto, ma che sicuramente hanno posto temi che non possono essere elusi: la “cultura diffusa” è l’humus fecondo di una terra come la Toscana che non deve prestare solo attenzione ai grandi eventi, ma anche alla sua rete estesa di circoli culturali, di gruppi di ricerca, di realtà di sperimentazione nel campo dell’arte e dello spettacolo, a livello territoriale. La “cultura diffusa” è uno degli elementi che anche la prossima legislatura credo dovrà riprendere e portare avanti, tutelare e promuovere adeguatamente.
D. La seconda domanda si sposta sul soggetto politico cui fai riferimento e che ha visto la luce in questi cinque anni: il Partito Democratico. Un soggetto che ha creato, e continua a creare, grandi (forse troppo grandi) aspettative, ma anche molte e cocenti delusioni. Cosa può dare questo partito alla politica italiana e toscana? Ha effettivamente innovato nella selezione e nel modo di far politica della classe dirigente o ha visto semplicemente una élite adattarsi a nuovi metodi di scelta come le “primarie” lasciando inalterata la sostanza? Infine, al di là della retorica che si è fatta in questi anni sull’unione di grandi culture novecentesche, c’è veramente lo spazio per elaborare, a partire dall’analisi della complessità del mondo di oggi, una proposta politica progressista innovativa?
R. Non è una domanda da poco. Il Partito Democratico è valido, se considerato in relazione alle linee politico-culturali di un progetto riformista. E’ l’unico progetto riformista consistente che c’è in campo. È molto bella anche l’idea, non solo di sintesi di diverse culture politiche eredi del Novecento, ma anche di messa in atto di un cantiere di una nuova sintesi politica e culturale all’altezza dei tempi che stiamo vivendo. Ovviamente bisogna fare molta attenzione perché tutto questo non rimanga, come spesso rischia di rimanere, pura declamazione retorica, che copre la sostanza del partito, che per ora è fatta di ben altre realtà e dinamiche, come la giustapposizione di ciò che rimane dei vecchi partiti fondatori – DS (o, come direbbe Silvio Berlusconi, “PCI-PDS-DS”) e Margherita – e delle loro logiche autoreferenziali di preservazione e di autopromozione del ceto politico. E’ quel che risalta in troppe situazioni: come attesta la vicenda, controversa e triste, dal punto di vista dell’impostazione e della gestione, delle “primarie” toscane, pur in una Regione che ha saputo produrre esperienze di “buon governo” e di “buona politica”. Un certo ceto politico, anche in casa PD, è sempre meno attento alla qualità del messaggio politico e, soprattutto, dei comportamenti politici e punta soprattutto alla conservazione di ruoli, all’uso delle appartenenze correntizie come strumenti e meccanismi automatici di occupazione degli spazi partitici e istituzionali. Tutto questo ovviamente rischia di portare questo partito ad un impasse e c’è quindi una contraddizione di fondo tra un progetto che in sé è valido (e che ha, anzi, poche alternative, o non ne ha affatto, nell’area di centrosinistra) ed una prassi politica che invece è molto deludente. Questa è una contraddizione di fondo, su cui bisogna lavorare: una contraddizione che è sempre più visibile, lo ripeto, anche in Toscana e della quale episodi politici quali il rovescio elettorale registrato nel “caso Prato” e scricchiolii che si avvertono qua e là nel sistema di consenso molto ramificato, reticolare e diffuso come quello toscano, mostrano tutta l’evidenza. La necessità di una “buona politica”, di un rinnovamento del ceto politico, di un raccordo tra il partito e la società civile non sono temi tra i tanti; sono i temi. Se sono elusi questi temi, temo che di questo progetto non rimarrà molto, e che anche le zone in cui il consenso elettorale è molto forte come la Toscana stiano rischiando un cambiamento radicale di prospettiva nei prossimi anni.
D. Severino Saccardi ed il Partito Democratico, Severino Saccardi e la politica. Tu hai avuto un percorso, certo indipendente rispetto alla politica di partito, ma comunque contrassegnato dall’impegno e dalla partecipazione politica. Ora, la politica non è soltanto sostanza e capacità di lanciare temi di interesse generale ma è anche capacità di stabilire relazioni. Capitale sociale dunque. E questo è stato messo in evidenza anche dal passaggio delle primarie: chi ha avuto più successo nello stabilire relazioni ha potuto mettere in campo una maggiore potenza di fuoco, soprattutto in una occasione in cui hanno votato poche persone. Ecco, rispetto a questo ambito hai qualche rimpianto su come avresti potuto impiegare le tue risorse politiche in questi anni?
R. Rimpianti no, non ne ho. Diciamo che ho imparato una lezione, che ha anche degli aspetti di amarezza su cui vale la pena meditare. Amarezza in senso politico, non tanto in senso emotivo o sentimentale, anche se questi aspetti indubbiamente fanno parte di questo tipo di esperienze, come di ogni esperienza umana. Intanto bisogna spiegare ai lettori di “Testimonianze” non toscani come funziona la legge elettorale nella nostra regione. Si tratta di una legge molto particolare che prevede che non ci siano preferenze ma che ci siano primarie per i soggetti politici che le vogliono fare – in questa tornata soltanto PD e Sinistra-Ecologia e Libertà – e che, in tale “passaggio”, si stabilisca l’ordine in cui i candidati consiglieri saranno inseriti nelle liste delle elezioni regionali vere, quelle di marzo. E’ tale ordine (predeterminato) in lista che determinerà, poi, l’elezione o meno all’assemblea regionale dei singoli candidati. Tali primarie sono state ulteriormente depotenziate dal fatto che non sono state, tra l’altro, utilizzate stavolta per scegliere il candidato alla presidenza della regione: c’è infatti un unico candidato, Enrico Rossi, che è tra l’altro un ottimo candidato. Questo ha comportato un calo di partecipazione e di interesse anche rispetto alle primarie del 2005 e una sostanziale disinformazione dell’elettorato al riguardo. Una disinformazione che ha favorito enormemente le cordate, le consorterie e gli apparati organizzati che, del vuoto di partecipazione, si sono avvalsi per far valere le loro, già sicure e consolidate, reti di raccolta del consenso. Il risultato è quindi singolare dal punto di vista della logica democratica. E andrà dunque ripensata nel suo insieme la legge elettorale della Toscana perché siamo in una situazione in cui una percentuale minima dell’elettorato decide per l’insieme degli aventi diritto. D’altra parte il PD regionale ha gestito questa scadenza in maniera criticabile perché ha lasciato che i territori (da tener presente che la competizione elettorale si è svolta per circoscrizioni provinciali) venissero occupati dai “notabili” locali ed ha permesso che gli apparati locali del partito venissero monopolizzati da singoli candidati, mentre nel comune di Firenze ha stabilito una sorta di “libero mercato” delle candidature facendo, come avrebbe detto don Milani, “parti uguali fra disuguali”, mettendo sullo stesso piano, senza mediazioni e senza nessun governo visibile di questo processo, esponenti politici che avevano a disposizione mezzi consistenti e candidature “d’opinione” come era quella di chi parla. Questo ha determinato una distorsione e un andamento brutale delle dinamiche preelettorali, in una campagna che si è svolta in un tempo brevissimo. Di quello che è venuto fuori, senza nessun giudizio da parte mia sulle singole persone, la dirigenza del PD porta una responsabilità evidente. Questo ha comportato e comporterà un certo cambiamento complessivo del profilo e del livello del consiglio regionale, un incremento (legittimo, ma di segno politico evidente) della presenza di ex-DC e l’esclusione probabile del direttore di “Testimonianze”. La responsabilità in capo ai dirigenti del partito è ancora più sostanziale perché il cosiddetto “listino elettorale”, che è un gruppo di cinque candidati che è sottratto alle primarie e che viene messo direttamente in lista, uno spazio che di per sé sarebbe pensato anche per aprire alla società civile, è stato integralmente lottizzato da esponenti di partito che vi sono stati collocati seguendo logiche strettamente correntizie. Anche qui, nessun rilievo specifico sulle persone, ma la logica è, di per sé, autoevidente, e mortificante. Questo della spartizione correntizia è un vizio di fondo del Partito Democratico che anche in una Regione di “buona politica” come la Toscana, sta divorando quel che rimane del progetto di fondo di questo nuovo/vecchio soggetto politico. Le primarie, lo dico al di là dell’esito del risultato conseguito da chi parla, ne sono una riprova .
D. Le primarie non sono andate abbastanza bene da poter sperare di essere rieletto (salvo eventi imprevedibili) in Consiglio Regionale. Sei però alla testa del gruppo di coloro che non avevano appoggi ufficiali in uno o più territori. C’è qualcosa che avresti potuto fare, o che hai in effetti tentato, per unire quel mondo dietro la tua candidatura? E, d’altra parte, cosa viene visto con sospetto nella tua figura e nei riferimenti che ad essa possono essere collegati (la tradizione ed i valori, pur declinati laicamente, di un certo cattolicesimo democratico, la cultura della convivenza le tematiche dei diritti umani…), che in realtà dovrebbero essere pienamente di casa dentro al Partito Democratico?
R. La domanda che mi poni mi dà la possibilità chiarire tanti aspetti. Intanto, nella situazione data (quella delle primarie toscane, intendo) era molto difficile fare di più. Avere, nella circoscrizione elettorale provinciale di Firenze, quasi mille voti (in un contesto in cui il “primo arrivato”, molto favorito, ha superato di poco i 3600), quasi interamente di opinione, è un risultato notevole di cui si può essere soddisfatti. Un risultato ottenuto con pochi mezzi, con una campagna integralmente autofinanziata, il sostegno di amici, di un gruppo di giovani generosi e di volontari. Ed in ogni caso – questo va detto per le persone che non conoscono queste vicende – io sono primo, nei risultati, fra gli outsiders. Era difficile raggiungere le quote, peraltro inferiori rispetto alle aspettative, di coloro che mi hanno sopravanzato e che hanno avuto alle spalle apparati, appoggi di sindaci, di circoli, di strutture organizzative vicine al partito o altri strumenti di raccolta del consenso. Qualcosa di più avremmo potuto farlo in più tempo e con regole diverse. Ad esempio, una regola assurda di queste primarie è che esse non prevedono rimborsi elettorali e che quindi una campagna autofinanziata è di per sé svantaggiata. Per quello che riguarda le forze che si sono condensate attorno alla mia candidatura io metterei, non staccando nessuna delle due istanze, da una parte il sostegno tutto politico di un’area fedele, a mio modo di vedere, alle istanze “vere” ed ideali del progetto riformista del PD, dall’altra, coerentemente con il mio percorso biografico, alcune delle istanze della società civile e del mondo del volontariato sociale e culturale. Due ambiti che non si autoescludono. Anzi. Che si intrecciano e si sovrappongono.
Certamente, la posizione in cui mi trovo da sempre – e questa è un po’ la storia di “Testimonianze” – è difficile e complicata da inquadrare. Perché non è più di moda ragionare per categorie politico-culturali un po’ più raffinate e si preferiscono grossolane catalogazioni. E perciò oggi è sempre più difficile spiegare come possa esistere una realtà come quella di “Testimonianze”, che ha radici cristiane a cui si rimane fedeli, ma in un’ottica di totale laicità che permette la condivisione del lavoro tra credenti e non credenti. Questa è una posizione scomodissima perché non piace ai cattolici, per così dire, più inquadrati nei percorsi della Chiesa “ufficiale” ed è tuttavia guardata con diffidenza da alcuni cosiddetti ‘laici’ (o, meglio, laicisti) che pensano che l’esperienza di fede (guardata, se non altro, con rispetto e in un rapporto di interlocuzione feconda, nella nostra esperienza, anche da coloro che non credono) sia quasi un cedimento alla “logica del nemico”, come avremmo detto nel vecchio linguaggio ideologico del tempo che fu. Ecco, questi sono aspetti che hanno sotterraneamente creato qualche difficoltà. Ripeto e ribadisco, tornando alle primarie, che, comunque, il risultato che è stato ottenuto è un piccolo potenziale che dà l’idea di come ci sia un grande bisogno di “buona politica”. Ad esempio, una delle iniziative più qualificanti di questa campagna è stata quella organizzata con i giovani, un qualcosa che nessuno ha fatto – in realtà nessuno ha fatto iniziative politiche perché evidentemente la raccolta del consenso viaggiava per altre vie –, ed è stata piena di entusiasmo e di attenzione. È quindi un mito negativo anche quello della lontananza e del disinteresse del mondo giovanile per l’impegno civile e la politica. È l’autoreferenzialità della politica ad allontanare i giovani e con questo bisogna fare i conti. Ecco, il consenso che si è raccolto attorno a questo percorso di “Idee in cammino” – come lo abbiamo voluto chiamare – è un piccolo segnale che io penso andrebbe raccolto al di là della limitata vicenda che mi ha riguardato. Il Partito Democratico su questioni di questo tipo farebbe bene a riflettere.
D. Una domanda, in realtà una provocazione, che mi sembra quasi naturale è: cosa ci fa una persona con un profilo come il tuo in una assemblea che ha una così scarsa visibilità pubblica? Quanto hai potuto incidere nel tuo ruolo? E, venendo ad una questione più generale, vedi una via per una riforma delle dinamiche istituzionali che, accanto alla figura del presidente forte, prevedano maggiori e diversi poteri per la camera dei rappresentanti?
R. Io dividerei il discorso in due parti. Una prima cosa da dire, usando il caso “Toscana” come cartina di tornasole, ed anche la piccola vicenda che mi riguarda, è che – pur con tutte le riserve che si possono esprimere sulle dinamiche e sulle logiche discutibili che attraversano talora le stesse istituzioni rappresentative – personalmente mi sento onorato di aver fatto parte del nostro parlamento regionale. Credo che all’interno delle istituzioni rappresentative stia il nucleo più autentico della democrazia, che va riscoperto e valorizzato nuovamente anche, e soprattutto, nel tempo di crisi della politica e del profondo bisogno di riforma della politica stessa. Sempre in riferimento alla mia persona ed all’esperienza specifica che ho vissuto, cinque anni fa l’allora dirigenza dei Democratici di Sinistra, candidandomi, fece una scelta di cui io fui grato e riconoscente. Essa esprimeva, ritengo, un’attestazione di considerazione, ma anche un segno di valorizzazione delle forze e delle realtà del mondo dell’associazionismo e della società civile con un profilo culturale ed un percorso ideale di un certo tipo. Un segno che ho non soltanto accolto, ma il cui potenziale ho cercato, per come ho potuto, di mettere a frutto nel lavoro di questi cinque anni.
Adesso dobbiamo registrare che la scelta fatta dalla dirigenza del Partito Democratico della Toscana, nel passaggio che è appena alle nostre spalle, è stata di segno esattamente opposto: con la chiusura partitocratica del “listino regionale” e con la gestione “senza rete” delle primarie, che di fatto ha favorito chi aveva posizioni più forti e consolidate. L’opzione operata cinque anni fa, che aveva un profilo politico e culturale innovativo, non ovviamente perché mi riguardasse personalmente, ma per il suo significato positivo, si inseriva in un contesto che aveva anche aspetti discutibili (come l’ampliamento del numero dei consiglieri, portati allora a 65 ed oggi ridimensionati a 55) che rendeva però possibile anche l’ampliamento di spazi di rappresentanza. Come sempre, la realtà è più complessa di come la si rappresenta. Paradossale è il fatto che oggi, con il ridimensionamento – in sé positivo – del numero dei consiglieri regionali, alcuni di quegli spazi si siano chiusi e certe scelte, operate cinque anni fa, siano state sostanzialmente ribaltate. Di questo va preso atto. Ed è un elemento su cui, se oggi ci fosse ancora l’abitudine di fare un po’ di riflessione politica, ci sarebbe da pensare autocriticamente.
Per quello che riguarda il discorso generale, credo che anche dal punto di vista dell’impianto istituzionale che, in più ambiti (dai Comuni fino alle Regioni), si è realizzato in questi anni, si siano fatte le cose un po’ all’italiana. Si è passati da un’unilateralità ad un’altra. Si è rafforzato il momento presidenziale e dell’esecutivo ad ogni livello (con l’elezione diretta di sindaci e presidenti), depotenziando unilateralmente le assemblee elettive. Un errore da correggere. Anche laddove ci sono prerogative statutarie (come nel “caso Toscana”, dove al Consiglio Regionale sono riconosciuti poteri importanti), queste non sono applicate che molto parzialmente. Quindi la strada maestra è, non tanto quella di smentire il rafforzamento della dimensione decisionale e “presidenziale”, che dà stabilità all’azione amministrativa e di governo e che tutto sommato introduce un principio di responsabilità nella politica, quanto piuttosto di dare poteri di indirizzo, di controllo, che, sia pure in un quadro diverso dal passato, restituiscano efficacia all’azione delle assemblee rappresentative. Io penso che in questo senso si debba decisamente andare perché adesso stiamo vivendo momenti di impoverimento sostanziale della democrazia: le assemblee elettive non possono essere dimensioni ed ambiti di pura ratifica di decisioni prese altrove.
D. Parliamo infine di futuro. Abbiamo citato ripetutamente le primarie che, tutto sommato, sono state un “insuccesso di successo” perché raccogliere un migliaio di voti di opinione in un’area come la provincia di Firenze non era facile. Sappiamo anche che avere un voto di opinione è più facile che mantenerlo. Tuttavia, anche alla luce del successo del manifesto che hai lanciato per la campagna elettorale – “Idee in Cammino: Cultura, Diritti e Solidarietà” –, ti chiederei se pensi di avere la possibilità di fare qualcosa, a livello politico, nei prossimi mesi. Questo a partire anche dalla considerazione del bisogno – testimoniato anche dai voti che, nel tuo caso pur specifico e limitato, hai ricevuto – di rinnovamento della politica. Insomma, cosa farà Severino Saccardi, terminato il suo mandato, oltre a tornare alla sua professione di insegnante?
R. Io tornerò sicuramente a fare quello che non ho mai abbandonato: a lavorare a “Testimonianze” e nella società civile. Credo che attorno a “Testimonianze”, e oltre, ci sia un mondo che merita di essere ulteriormente valorizzato. Un mondo interessato ai temi sociali e culturali, alla “buona politica” ed ai diritti umani, che non sono un’esercitazione spirituale per anime belle, ma la sostanza, o uno degli aspetti più importanti, del rinnovamento della politica. Quindi: attenzione ai diritti umani sul quadrante internazionale, ovunque la libertà e la dignità umana sia violata. Ma anche qui, nel contesto in cui viviamo, promozione dei diritti di cittadinanza tra i carcerati, i migranti, i cittadini colpiti dalle “nuove povertà” e dei diritti del lavoro.
Detto questo, chi ti parla, nonostante il passaggio amaro delle primarie – cui si sovrappone anche una sensazione piacevole nel ricordo dell’entusiasmo e della partecipazione dei giorni della campagna elettorale –, resta a disposizione di questo partito (pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni) e delle istituzioni, se ravviseranno la necessità di raccogliere qualcosa del percorso e delle istanze che, insieme a tanti amici, ho cercato di portare avanti e di rappresentare. Questo precisando una volta ancora che non sto parlando di un “caso personale”, che non esiste – per la semplice ragione che non vivo, materialmente, di politica – ma di una questione di carattere generale che anche la piccolissima vicenda che ho vissuto, indirettamente fa risaltare. E la questione è la seguente: un progetto riformista come quello del Partito Democratico ha bisogno, non soltanto dei “politici di professione” (che in un certo numero e in una certa misura sono weberianamente necessari), ma anche delle esperienze che provengono da altri contesti. E anche le istituzioni devono valorizzare le risorse che possono essere attinte e ricavate del mondo delle professioni, del lavoro, della cultura, della società civile. Solo tornando ad una commistione feconda di ceto politico professionale (selezionato più per competenze che per appartenenze correntizie) e di istanze della società civile la nostra democrazia si può veramente rinnovare, con la promozione della “buona politica”. Sarebbe una piccola, quanto vitale, rivoluzione. Penso che su questo ci sia molto da riflettere e che ci sia una battaglia da continuare.